Gianfranco Capitta
Intervista a Stéphane Braunschweig

Stéphane Brauschweig è un regista giovane, che si è affermato in Francia giovanissimo, riscuotendo un grande interesse fin dalle sue prime messinscene. Per qualche anno ha diretto, ad Orléans, un teatro pubblico, ed in questo senso è quasi un nome-simbolo della agilità che possono dimostrare le istituzioni francesi, a differenza di quelle italiane, nel riconoscere e dare fiducia anche alle energie più nuove, attualmente ha la responsabilità di quella di Strasburgo. Nel suo paese ha lavorato molto su Shakespeare come sulla drammaturgia contemporanea, ma la sua fama è uscita presto fuori di quei confini. Nei primi anni Novanta ha vinto, qui in Italia, il Premio Coppola-Prati destinato a valorizzare un "artista nuovo". Ha collaborato molto, nel teatro di prosa e in quello musicale, con Giorgio Barberio Corsetti, come ha visto anche il pubblico della Fenice, cui lo scorso anno è stato proposto un loro Fidelio. Nella scorsa primavera poi, ha realizzato al Piccolo Teatro di Milano, in italiano, un interessante Mercante di Venezia. In Gran Bretagna, addirittura, lo hanno invitato l'anno scorso a dirigere uno Shakespeare in inglese per una compagnia pubblica. Insomma è uno degli esponenti di spicco della generazione che in Europa sta rinnovando la scena. Il flauto magico che presenta ora a Venezia è stato realizzato e applaudito pochi mesi fa al festival, molto prestigioso, di Aix-en-Provence, la manifestazione che si pone ormai come una delle possibili capitali estive della musica, quasi in concorrenza con Salisburgo (quest'anno c'era anche un Monteverdi messo in scena da Klaus Michael Gruber).

Qual è per lei la differenza tra il lavoro su un testo teatrale e quello su un'opera musicale?

Devo dire che per la produzione di questo Flauto magico abbiamo lavorato un po' come in teatro, ovvero per un lungo periodo di prove, con una compagnia di cantanti per lo più giovani, come non è abituale nell'opera lirica. Per me è stato molto importante il fatto di aver potuto condurre già l'anno scorso un workshop con gli artisti, durante il quale abbiamo potuto preparare tutto il lavoro. E questo è un metodo piuttosto insolito nei teatri musicali. Per il resto, io so bene che qui c'è un direttore d'orchestra, e il comando vero della situazione non è certo in mano al regista. Naturalmente poi la cosa migliore è di fare un lavoro comune. A me piace molto lavorare con la musica, su un testo scritto che ha un suo ritmo, anche in un tempo piuttosto ristretto.

Negli spettacoli di prosa che lei ha messo in scena però, uno degli elementi di maggior fascino è proprio l'attenzione che lei presta al testo, ha sempre lavorato in modo che questo risultasse massimamente comprensibile, anche semplificandone, se necessario, la struttura linguistica. Tanto da farli risultare perfettamente comprensibili anche ad uno spettatore straniero. Nell'opera invece il testo ha delle sue regole, e ferree, perché è canto.

Per me, sulla scena lirica, la cosa più importante è naturalmente la musica: il testo, nell'opera, è la musica, e solo dopo vengono le parole. Quando le parole del testo sono in accordo con la musica va bene, e posso dare al testo il suo spazio. Ma nell'opera, ripeto, dobbiamo seguire come prima cosa la musica, e considero la musica il vero "testo" teatrale.

Vuol dire che è la musica a dare la drammaturgia di un'opera?

Sì, perché il librettista può avere scritto qualsiasi cosa, ma quando si sente con la musica può anche risultare molto diversa. Ad esempio, proprio nel Flauto magico può succedere che la musica conferisca una sorta di ironia al testo di Schikaneder, perché forse Schikaneder era in un certo senso più "serioso" di Mozart. Mi riferisco in particolare agli aspetti massonici, nei quali Mozart certo credeva, ma sui quali sapeva spargere un velo di ironia, anche andando, magari, in una direzione diversa rispetto al suo librettista.

Il flauto magico, che ha un testo tedesco, è messo in scena qui a Venezia da lei che è un regista francese, per quanto dal cognome tedesco, come era già successo per il Fidelio. E anche il cast è particolarmente cosmopolita. Non le crea problema lavorare su lingue e luoghi diversi?

Per me è un grande piacere lavorare con lingue diverse, l'ho già fatto con l'inglese, l'italiano, il tedesco. Per la prosa voglio sempre lavorare su lingue che posso capire e padroneggiare; per l'opera lirica ho lavorato in cèco per Janácek, o in ungherese per Bartók, perché forse si può fare a meno di capire ogni sfumatura linguistica, a patto naturalmente di conoscerne bene il significato del libretto attraverso la traduzione.

Il cantante però deve anche costruire con lei una sua lingua scenica, per potersi muovere cantando delle parole, e la regola principale è data dalla musica?

Con i cantanti è facile capirsi quando è la musica la nostra lingua comune. Qui abbiamo cantanti francesi, inglesi, tedeschi, spagnoli e perfino finlandesi, parliamo davvero tutte le lingue, e l'intesa viene quasi naturale.

Lei ha preparato quest'opera, che a Venezia va nel cartellone di una stagione, per un festival, quello di Aix-en-Provence, che è un'occasione di tipo del tutto diverso. Cosa vuol dire lavorare per un appuntamento straordinario, come quello di un festival, che ha anche un pubblico fuori dell'ordinario, perché non è quello di una città, ma proviene da tutta Europa, mondano e borghese, se non aristocratico?

A Aix-en-Provence il pubblico è solo in parte di questo tipo. Il luogo dove abbiamo dato lo spettacolo, era uno spazio nuovo, all'aperto, a dieci chilometri dalla città, in una grande e bella tenuta di campagna. Così che anche i prezzi erano molto più bassi, e il pubblico che abbiamo avuto era, anche per questo, più "aperto".

Nel senso di "più popolare"?

Popolare sarebbe dire troppo, ma certo era un pubblico meno "chiuso" di quello tradizionale del Festival, forse meno abituato a vedere opere liriche, e quindi più differenziato. Per questo non ho avuto l'impressione di lavorare nel centro prezioso di quella città, con tutta la pressione che avrebbe comportato. Invece abbiamo fatto un lavoro a suo modo più "semplice" e tranquillo, senza pensare al festival e alla sua cornice. L'elemento più importante resta il lavoro che abbiamo potuto fare con questi cantanti giovani, che non sono delle star dell'opera internazionale. Forse alcuni lo diventeranno, ma per ora sono solo giovani. È molto bello fare in queste condizioni Il flauto magico, perché si può sentire la musica molto diversamente: i cantanti ora hanno la stessa età dei personaggi, e si può raccontare con grande facilità la storia delle ragazze che diventano mature, che è poi la vera storia narrata dal Flauto magico, lontana dalle implicazioni massoniche che le hanno pesato addosso. In questo modo possiamo sentirla molto più "fresca", come un racconto, o come una favola, perché è anche una favola per bambini.

Lei la racconterebbe quindi a sua figlia?

Mia figlia, cinque anni, l'ha vista, e ne è rimasta entusiasta.

Vuol dire che in questo modo, senza veli misterici, diventa comprensibile a chiunque? Lei ha sfumato appositamente tutta la parte "ideologica", quella che rinvia alle tipologie e ai codici massonici?

Ho voluto raccontare la storia come fosse un sogno: non a caso comincia in un letto e finisce in un letto.

Come la vita.

Esattamente. È il sogno di Tamino che incontra oniricamente Pamina, Papageno e tutti gli altri personaggi. Anche per il pubblico deve essere un sogno, un sogno musicale.
Però è anche una favola per la vita. Credo che Il flauto magico sia naturalmente una storia di iniziazione, ma non religiosa, quanto alla vita.

Questa volta lei firma anche le scene (nel Fidelio erano firmate da Giorgio Barberio Corsetti). Qual è l'immagine principale che si potrebbe dare, quella di un letto?

Sì, questa scenografia è fatta di un letto, di due buchi da dove possono apparire i personaggi, e poi ci sono i video. E l'uso dei video è vicino a quello che ne fa nel suo lavoro Giorgio, perché è lui che mi ha insegnato come usarli e forse non li avrei usati se non lo avessi incontrato.

Oltre a Barberio Corsetti, lei ha altri rapporti con il resto del teatro (e ora anche dell'opera) in Italia? Riconosce altre "fratellanze"?

Sì, con Rigoletto, che ho messo in scena a La Monnaie di Bruxelles.

Molto diplomatico.

Non si tratta di diplomazia: adoro la pittura italiana, da Giacometti a molti altri artisti che sono importanti per me. Nel teatro attuale non conosco abbastanza bene la situazione; so di essere molto vicino a Giorgio, ma non conosco tutti gli altri.

È giusto, anche se lei ha lavorato al Piccolo di Milano pochi mesi fa, e quindi non si può considerare proprio uno "straniero".

No, ma anche il lavoro di Strehler è stato piuttosto importante per me.

In Francia riconosce invece dei "maestri"?

Innanzitutto Antoine Vitez.

Con cui ha studiato e si è formato.

Sì, ma anche Klaus Michael Gruber, tedesco, che ha molto lavorato al Piccolo, e che per me è un maestro assoluto. E poi ci sono altre persone che sono importanti, per me e per la mia storia. Non penso di essere caduto dal cielo, ma di far parte di una storia, dove ci sono anche Jean Pierre Vincent, Bernard Sobel, e tanti altri che hanno fatto il teatro degli ultimi anni.

La sua passione recente per la musica e la regia d'opera, venuta dopo quella per il teatro, mi fa pensare a un elemento che, per me spettatore, ha sempre contraddistinto le immagini del suo teatro: un senso nitido della geometria. Un "esprit de geometrie" contraddistingue proprio il suo modo di offrire il teatro al pubblico. Si può parlare allora dell'esistenza di un rapporto stretto tra questa astrazione geometrica e quella musicale.

Diciamo che nella musica c'è una astrazione molto sensibile, ed è questo che forse mi attira: l'astrazione musicale è sempre tangibile, va direttamente al cuore. Ma rimane pur sempre un'astrazione.

E ora, si considera maggiormente un regista teatrale o un regista lirico?

Un regista, semplicemente.