Toni Servillo e Giancarlo Andretta,
Palafenice, maggio 2000

 

Intervista a Toni Servillo
a cura di Gianfranco Capitta

Curiosamente, per un attore e regista nato e cresciuto nella ricerca più avanzata e "dura" della scena italiana, Toni Servillo ha conquistato un unanime riconoscimento di "specialista" per il teatro del Sei e Settecento. Non perché non siano stati importanti i ruoli e le messinscene che ha vissuto su tutt’altri versanti (dalle incursioni nel teatro di Eduardo alla scrittura di Enzo Moscato ai bellissimi Viviani dove si appresta a reimmergersi), ma per la forza inusitata che sulla scena hanno preso il Marivaux e i suoi due Molière. Ogni volta delle invenzioni, dove la recitazione e l’alterazione dello spazio scenico servono a mostrare in controluce aspetti solitamente meno visibili di quei testi; a riscoprirne, se si vuole, la loro stringente contemporaneità. È la stessa strada, affine per epoca e per metodo, che Servillo sembra ormai aver intrapreso anche nell’opera lirica.

Dopo aver lavorato lo scorso anno, proprio qui, su Una cosa rara, adesso con Le nozze di Figaro ripercorri il confronto e la querelle che legarono alla nascita queste due opere.

C’è un dato piuttosto curioso: metto in scena le Nozze dopo la Cosa rara, e al loro debutto la prima opera fu mortificata clamorosamente dalla seconda. Le nozze ebbero cinque sole repliche e poi furono surclassate a Vienna e nei favori del pubblico dal successo della Cosa rara. Lavoro su due opere che sono state contemporanee, che allora erano in competizione, ma a cui la storia ha restituito poi le giuste proporzioni.

Quella che ebbe successo si è rivelata invece una pallida ombra dell’altra. Adesso che arrivi al capolavoro, fai tesoro dell’esperienza fatta con l’altra?

Sicuramente. Mi serve perché ho avuto modo di capire concretamente in che cosa consiste la differenza tra Mozart e un’opera come Una cosa rara, fondamentalmente legata sul piano del racconto allo schema dell’opera buffa con una storia che era semplicemente un pretesto per dare sfogo alla grandissima perizia musicale di Martín y Soler e dove il rapporto tra i recitativi e l’aria era completamente separato. Quando partiva l’aria, era spesso soltanto il pretesto perché il cantante potesse dare sfogo alle proprie abilità canore. Nel caso di Mozart ci troviamo di fronte a una delle più alte espressioni di vera e propria drammaturgia musicale, dove il recitativo subisce un cambiamento profondo, passando da quello normale, accompagnato al clavicembalo, al recitativo accompagnato dall’orchestra, che si confonde con le arie fino ai formidabili concertati creando così un’unione assoluta di drammaturgia musicale e di drammaturgia testuale, come non si era mai ascoltata prima di quel momento e che diventerà lo "stampo" per le riflessioni che porteranno poi dritti al dramma musicale wagneriano. Ci troviamo di fronte a un capolavoro che è veramente un "capo d’opera", dal quale cioè non si può più prescindere per il futuro. Un punto di partenza...

Dovendo lavorare sulle Nozze di Figaro che nascono dal teatro-teatro di Beaumarchais, hai lavorato anche sul commediografo francese?

Naturalmente l’ho tenuto presente, e l’ho fatto tenere presente ai cantanti. Beaumarchais, nella sua prefazione all’opera, è una miniera inesauribile, ha un’attenzione addirittura maniacale nell’indicare come si devono comportare i personaggi e perfino come devono essere vestiti. È una prefazione interminabile, bellissima, e la prima indicazione che ho dato ai cantanti è stata quella di leggerla attentamente. Sono partito da lì. Ma si può facilmente immaginare che avendo lavorato su Molière e Marivaux, questa opera rappresenta anche una sintesi delle mie recenti esperienze teatrali.

Beaumarchais è un genio del teatro che va verso la rivoluzione francese, mentre Mozart sta alla corte di Vienna e quindi nel cuore di un immobile impero, per quanto Giuseppe II potesse essere considerato "illuminato". Sono die situazioni opposte, per quanto simmetriche.

Mozart era un artista di assoluta, aristocratica "cittadinità", aveva il mito di Vienna e dell’imperatore. La sua vita e tutta la sua gioia si svolgevano tra quei quattro o cinque palazzi intorno a quello imperiale e al Burgtheater. Lo dimostrano anche Le nozze di Figaro, dove Mozart tratta le due piccole apparizioni del popolo con assoluta indifferenza. Sceglie le Nozze non perché vi legge dentro i prodromi di un’opera rivoluzionaria dal punto di vista sociale. Era piuttosto affascinato dal meccanismo teatrale, dalla complessità dell’intrigo, che esaltava la possibilità della sua incipiente rivoluzione teatrale-musicale. Mozart ha trovato, da artista, un libretto ideale per concepire quegli straordinari finali d’atto, quei concertati che non si erano mai sentiti prima, quei capovolgimenti di fronte, quelle agnizioni improvvise che danno la stura al suo genio musicale.

Facciamo giustizia allora di certe interpretazioni facilmente "politiche"?

Penso di sì. Non c’è in quest’opera un popolo sofferente e pre-rivoluzionario. Ripeto, Mozart credo che sia rimasto assolutamente abbagliato dal meccanismo, dalla tecnica teatrale di Beaumarchais. Ha trovato che quel meccanismo poteva essergli utile ad avviare la sua rivoluzione musicale.

Tu parli del libretto di Lorenzo Da Ponte, che è uno dei più belli...

...ma che poi è stato anche molto censurato. Giuseppe II aveva vietato la commedia di Beaumarchais. Da Ponte stesso nelle sue, per quanto immaginarie, Memorie racconta che ha dovuto faticare non poco per farla passare, stemperando ovviamente i contenuti sociali. Faccio un altro esempio: anche il meraviglioso, lunghissimo monologo di Figaro, nel quinto atto della commedia di Beaumarchais è pieno di contenuti anche sociali...

…è quasi un manifesto della rivoluzione…

…qui invece diventa l’aria del quarto atto, che è un’aria maschile contro le donne e si limita tutto sommato all’aspetto tematico dell’amore e dell’intreccio che lega i personaggi. L’impasto in cui si svolgono le Nozze è fondamentalmente legato alla sfera erotica. Molto stemperato è l’aspetto sociale. Piuttosto quello che tematicamente rimane dell’opera di Beaumarchais è la vecchia antinomia, affascinante, che ho ritrovato nel Misantropo e nel Tartufo: nel teatro del Settecento i servi sanno vivere la vita, ma ne sono impediti per ragioni sociali, e di legittimità sociale. Al contrario, i nobili sono nelle condizioni giuste per viverla, ma sono incapaci di coglierla. Questa antinomia nel testo di Mozart è fortemente presente nel conflitto fra Figaro e il Conte, però è una partita giocata soprattutto nella sfera dell’erotico e, come poi vedremo del demoniaco, legato alla figura di Cherubino, ovvero l’eros come demone.

Nella sfera dell’incontrollato c’è sempre l’adesione alla massoneria di Mozart, e comunque anche il rapporto erotico è un rapporto sociale, non di classe, ma di genere, altrettanto forte...

In questo sta la modernità del messaggio mozartiano, pur essendo questo messaggio legato alla sfera erotica. Mozart immaginava un amore dove il sentimento e l’eros non erano disgiunti, e attraverso la figura nobilissima della Contessa lancia un messaggio di femminilità che arriva modernamente fino ai nostri giorni. Ma anche la figura di Susanna, che vive l’erotismo in maniera così naturale, schietta e problematica, ha una sua modernità. Invece nel Conte condanna l’erotismo come prevaricazione, come furia prevaricatrice. Portando la sfera dei conflitti dal sociale all’erotico, il segnale mozartiano rimane oggi fortemente moderno.

Veniamo a Cherubino, quello che tu dici essere l’aspetto demoniaco, quindi incontrollabile. La sua ambiguità è in parte motore di tutta la storia e noi sappiamo oggi che questa è una intuizione lunga, anche se è vero che c’era la tradizione vocale dei castrati...

Già Beaumarchais immaginava che Cherubino non potesse essere interpretato che da una donna; nella commedia ha 12 anni, in Mozart ne ha 14. Ma io credo che l’androginia sia la caratteristica di Cherubino. Perché il personaggio racconta quella stagione dell’amore che non ha oggetto, che è insieme maschile e femminile. Il "Non so più cosa son, cosa faccio" fino a "un desìo, un desìo", esprime un dolore – un dolore-piacere naturalmente – di chi desidera senza poter riconoscere di fronte a sé la chiarezza dell’oggetto cui indirizzare questo desiderio.

Quindi eros puro?

Desiderio puro, e puro movimento. Questa è la ragione per cui Cherubino è il motore di tutta l’azione. Se non fosse in questa casa, con il suo contagio demoniaco legato alla sfera dell’eros, probabilmente nulla di questa vicenda prenderebbe azione. Cherubino contagia il Conte, Susanna, la Contessa. È colui che si muove all’interno di questa casa creando le condizioni dell’intrigo, imbrogliando le carte. In questa condizione di purezza di movimento e di desiderio, secondo me, Cherubino è una sinopia di Mozart musicista. Per dirla con Savinio – che in Scatola sonora ha scritto delle pagine bellissime sull’argomento – Mozart è un musicista "presocratico", come in Bach, la sua musica è puro movimento, puro fluire, sgorga incoscientemente da se stessa; bisognerà invece arrivare a Beethoven per avere una musica che è cosciente di se stessa, per avere una musica che diventa storia. Mozart è profondamente "cherubinesco", puro movimento, pura poesia, collocato in forme musicali che si muovono dall’una all’altra, confermandosi e smentendosi continuamente. Come un Cherubino che non trova l’oggetto del suo desiderio. Secondo me c’è una fortissima identificazione. Mozart compone rimanendo – dice Savinio – "al di qua dei dodici anni", non avendo attraversato la tragedia del diventare adulti, ma irridendovi, e questo spesso ci infastidisce.

In questo senso Mozart come Cherubino è un elemento perturbatore. C’è un bellissimo aneddoto su Mozart che alla fine dell’opera andò tutto contento dall’imperatore chiedendogli il suo parere, e l’imperatore rispose: "Troppe note". La massa musicale che Mozart mette in movimento assomiglia a quel desìo e a quella quantità di cose che Cherubino porta dentro, e che creano dolore e piacere contemporaneamente, turbamento e disorientamento insieme.

Qual è a questo punto il rapporto tra il tuo lavoro in teatro e quello all’opera?

C’è una cosa alla quale tengo molto, e che mi coglie anche nel vivo di questa esperienza. Io, scegliendo i classici, faccio in teatro un lavoro legato all’interpretazione dei testi, e che si basa su questo presupposto: si da teatro quando esiste una condivisione, in atto, di questi tre elementi, il pubblico, il testo e gli attori. Nelle regie d’opera per me succede la stessa cosa sostituendo semplicemente i cantanti agli attori. Ora lavorando su Mozart mi accorgo di trovarmi di fronte al più grande regista mai incontrato, a uno dei più grandi uomini di teatro. Dal punto di vista della rappresentazione della natura umana, prima di lui è esistito solo Shakespeare, e dopo di lui soltanto Cechov. Questa capacità, attraverso la commedia, di rendere la natura di come noi uomini siamo fatti, questa natura prismatica, le nostre contraddizioni, questa capacità di raccontare, e non di isolare un particolare della vita (come accade nella tragedia dove questo particolare viene sbattuto nei cieli del mito e dell’assoluto), ma di rappresentare la vita nella sua ripetitività stereotipata, per poi prendere questa ripetitività e darle una forma classica, è ciò che ci procura quel piacere, quel godimento dell’assistere. Mozart mi disorienta nel lavoro di messinscena perché da una parte sembra un conservatore e dall’altra è assolutamente un innovatore.

Conservatore perché nella musica, nelle sue scelte musicali e tematiche, ti obbliga a tutte le indicazioni di regia possibili per i cantanti. Non c’è tema, non c’è orchestrazione che non sia intimamente legata alla natura psicologica del personaggio, al ruolo, alla distinzione tra ruolo e personaggio: lui con la musica prende per mano il cantante-personaggio e lo porta attraverso la strada del ruolo, con un atteggiamento che dovrebbe avere una regia salda, di tipo tradizionale. Dall’altra parte, è un artista d’avanguardia, perché mischia con assolta indifferenza i generi, e all’interno di queste strutture così precise, crea sorprese continue. Quando spinge sul pedale dell’opera buffa, dopo un poco, utilizza un corale da pura musica sacra, come se utilizzasse la musica nel senso del bricolage surrealista, accostando generi musicali completamente diversi con un effetto spiazzante sul pubblico. Questa è la sua assoluta modernità. L’esempio di capolavoro moderno sta anche in questo. Come regista, quindi, uno si trova di fronte a un genio definitivo. Il mio tentativo, il mio piacere nell’affrontare quest’opera, è nel riuscire a far condividere queste cose tra i cantanti, la musica e il pubblico. Nell’assoluta economia scenografica, nella semplicità di arredo che corrisponde poi a quanto ho fatto per Tartufo e per Misantropo. Non bisogna poi dimenticare che la musica lega le situazioni di una commedia, di un testo in una maniera talmente istantanea e fulminea come neanche la poesia riesce a fare.

Già la rivelazione di Cherubino nelle Nozze è uno spettacolo...

Credo che sia uno dei personaggi più straordinari della drammaturgia europea. È qualcosa che esiste malgrado noi. Cherubino è come Charlot, non come Chaplin. Quando capii che c’era un uomo che interpretava Charlot, io ebbi una profonda delusione. È una cosa che diceva Copeau, nella sue Riflessioni: Charlot è qualcuno che esiste nel mondo perfetto dell’arte, poi è evidente che Chaplin gli dà la natura. Cherubino è qualcosa di altrettanto potente. Esiste in un mondo che vive malgrado noi stessi, e a cui poi la natura dell’interprete dà la condizione particolare dell’evento a cui assistiamo. Cherubino, al suo apparire in scena, è un personaggio che ci impedisce immedesimazioni di tipo romantico. Cherubino è una forza che appare e ci travolge. Successivamente, ripensandoci, ci accorgiamo di aver provato qualcosa di simile a quello che prova lui, in qualche momento della nostra vita che abbiamo dimenticato.

...quindi a Cherubino fai riferimento per lo sviluppo di tutti gli altri personaggi, il Conte, la Contessa, Figaro...

Sì, ma senza togliere nulla alla grandezza dei personaggi principali. La nobiltà purissima dei sentimenti della Contessa, che riunisce l’anelito della filosofia mozartiana di felicità, che racchiude la natura e lo spirito in una logica massonica. L’amabile astuzia di Figaro. Oppure la forza dongiovannesca del Conte, la sua furia erotica, che in qualche modo appartiene anche a Cherubino. Kierkegaard diceva che Cherubino era un Don Giovanni in sedicesimo. Nella trilogia di Beaumarchais, nel terzo testo, La mère coupable, che è infinitamente inferiore al Barbiere di Siviglia e alle Nozze di Figaro, Cherubino ha un destino tragico, concepisce un figlio con la Contessa e poi va in guerra e muore. C’è la morte nell’orizzonte di Beaumarchais che riguarda Cherubino, come c’è una sfida del demone erotico fino alla morte nel Don Giovanni. Tra Cherubino e Don Giovanni c’è il Conte questa figura tragica di una naturalità e di un furore erotico, che però sono costretti dentro alla sfera del sociale e dei comportamenti sociali, che esplode nell’aria del terzo atto, di una potenza quasi verdiana...

Hai voluto prescindere, radicalmente, da una lettura come quella di Peter Sellars, che portava la vicenda ai giorni nostri in un condominio newyorkese, e che ha avuto molto successo...

Non amo questo genere di interpretazioni, ma non lo dico con spirito polemico. Lo dico perché sono convinto che il torto maggiore che si può fare a quest’opera è metterla a contatto con i simulacri della modernità.

Ma anche con l’eccesso di filologia, se si pensa ad allestimenti con centinaia di costumi…

La semplicità, che contraddistingue anche il mio andare all’essenzialità della recitazione è la stessa che chiedo a questo teatro musicale.

Qual’è, rispetto a quello con gli attori, il rapporto con i cantanti?

La direzione di questo teatro mi offre un cast di cantanti molto giovani, quindi con una forte tensione allo svecchiamento, al venir fuori dallo stereotipo. Si può facilmente immaginare la quantità di stereotipi che esistono su quest’opera. La notorietà di certe arie porterebbe naturalmente a venire a proscenio e a cantare. Ho trovato invece una grande disponibilità anche su pezzi come "Non più andrai farfallone amoroso" a fare in modo che il cantante condivida quello che dice con il pubblico, sia dal punto di vista testuale che musicale, proprio perché il testo non è mai irrilevante, mai in secondo piano. Quando Da Ponte mette uno di fronte all’altro Figaro e il Conte, e Figaro dice con aria di sfida "Io non impugno mai quel che non so", questa è una battuta teatrale profondissima, una sintesi della relazione tra servo e padrone, cui accennavo prima.

In questa compagnia ho trovato terreno fertile. Sono fortunato perché eredito, come mi era successo nella precedente opera, attori/cantanti che hanno già lavorato con Brook, che essendo un maestro del teatro che si preoccupa fondamentalmente dell’interpretazione del testo, ha abituato alcuni di loro a immaginare che anche in un’opera lirica si può approfondire uno studio del testo, del personaggio, del ruolo, attraverso prove lunghe e interminabili, e che prescindono dalla semplice preoccupazione del cantare le note. Poi non bisogna dimenticare una cosa: tutto questo ha anche un sapore filologico – non sterile naturalmente, non noioso – i cantanti che lavoravano con Mozart erano attori, fondamentalmente, e poi erano attori italiani, nel caso della "trilogia italiana", che non erano arrivati, come cantanti, al livello di perfezione musicale che possiamo riscontrare oggi. Però supplivano alla bellezza delle voci di oggi con una capacità interpretativa straordinaria. Oggi bisognerebbe recuperare l’esatto equilibrio tra queste due condizioni.

Con questi cantanti mi sono trovato molto bene. Inoltre, il fatto di avere un Conte e un Figaro che hanno la stessa età, comunica, secondo me, ancora più chiaramente la particolarità del loro conflitto che non è soltanto sociale o di classe ma soprattutto naturale, oserei dire animalescamente legato come dicevo prima alla sfera dell’eros. Il fatto che Susanna sia attratta dalla corte di un uomo giovane, bello e altrettanto forte come Figaro, nel corso dell’opera, risulta amplificata. D’altronde le commedie, al di là dei ruoli secondari, hanno sempre avuto nei loro protagonisti, come condizione essenziale, la giovinezza. I protagonisti sono tutti giovani, giovanissimi. I miei cantanti non superano i 35 anni, ma nel teatro di Marivaux, come in quello di Molière e di Mozart, non superano i 22, perché ovviamente il movimento, la pulsione erotica, la vita e certe sue complessità appartengono spesso a una stagione anagrafica precisa, piuttosto che ad un’altra.

Per mettere in scena queste Nozze ti è stata più utile l’esperienza fatta con Marivaux o quella con Molière?

Direi Marivaux, nel senso che il clima modernissimo di allusività, di non detto, di mascheramento verbale, che c’è in Marivaux io lo ritrovo molto forte anche qui. In Molière invece le parole sono pietre. Molière appartiene a una sfera sociale, filosofica e di comportamento legata al Seicento, e qui invece siamo in pieno Settecento, soprattutto la felicità, o il desiderio che muove all’ottenimento della felicità, sono concetti profondamente settecenteschi, più legati all’esperienza marivaudiana.

Non hai nascosto finora una vera felicità per quello che stai facendo.

Sono assolutamente sedotto da questa esperienza. Aggiungi il fatto che tutta questa energia di contenuti e di forme viene realizzata esclusivamente dall’umano, inteso come fisiologia, dalla forza con cui l’orchestrale dà energia all’arcata sul violino, fino allo sforzo del cantante. Questo è meraviglioso, veramente meraviglioso, e purtroppo così poco riconosciuto. Io sono convinto che il pubblico giovanile, se potesse entrare all’interno di questo meccanismo, impazzirebbe dalla gioia. Non c’è macchina, tutto è fisiologicamente legato a una condizione umanissima. È tutto umano, e questo è meraviglioso dell’opera.

Vuol dire che anche la scenografia vive solo della fisicità dei cantanti?

Anche dal punto di vista scenografico, questo allestimento mi mette in una condizione particolare. Opero una sintesi tra l’allestimento del Misantropo e quello del Marivaux. Come per il Misantropo, anche qui ho aperto un settore centrale del pubblico e lì ho collocato l’orchestra, in modo da avere quanto più possibile l’azione vicina alla prima fila di spettatori. Come nel Misantropo ho preso il palco e l’ho portato in platea. La scena invece somiglia molto al Marivaux: una fuga di broccati chiusi dentro un grande plafone nero che crea una forte concentrazione visiva. Ho fatto una sintesi, per andare a ripescare nel mio "laboratorio".

 

Pierangelo Conte
A colloquio con
Giancarlo Andretta

Regolarmente invitato a dirigere prestigiose orchestre in Italia ed in Europa, Giancarlo Andretta è da alcuni anni legato alla programmazione del Teatro La Fenice: a partire dal 1998 è infatti presente nei cartelloni del teatro veneziano, per il quale ha diretto La gazza ladra, L’inganno felice, Una cosa rara ed un concerto sinfonico nell’ambito della stagione 1999 – 2000.

Quale atteggiamento interpretativo bisogna tenere nei confronti di un capolavoro quale Le nozze di Figaro?

Le grandi opere d’arte sono tali anche perché manifestano uno spirito di universitalità pur esprimendo l’essenza del loro tempo. In una partitura quale Le nozze di Figaro, l’artista non si deve porre il dilemma di cercare a tutti i costi un’interpretazione che magari lo distingua, bensì con grande impegno ed umiltà deve riscoprire, riapprofondire, "scavare", rivivere in totalità il messaggio d’una partitura che attraverso la figura musicale, la tonalità, il divenire della linea vocale, le "arguzie" nell’armonia descrive con geniale, estrema precisione, il vivere emotivo, la natura psicologica d’ogni personaggio: anche senza bisogno d’immagini, si "vede" nella musica una regia perfetta.

Qual’è la strada da seguire per recuperare una visione musicalmente filologica?

Credo che sia necessario ritrovare la cura dell’articolazione degli strumenti sia ad arco che a fiato, riscoprire con strumenti moderni il gusto di un "suono orchestrale" vicino al tempo di Mozart, determinare ad esempio un equilibrio tra i vari reparti d’orchestra ricordando che, al Teatro di Corte, Mozart aveva a disposizione 6 violini primi, 6 violini secondi, 4 viole, 4 violoncelli, 2 contrabbassi ed il gruppo di fiati come dato. Questo equilibrio deve imporsi anche tra voci ed orchestra. Queste devono poter cantare in tutta naturalezza utilizzando tutte le caratteristiche appunto naturali di emissione, fraseggio e gusto del bel canto, il quale ripudia qualsiasi forzatura a partire dall’intensità della voce. Ritornando allo stile, bisogna rispettare fedelmente le indicazioni di tempo che seguivano allora una rigorosa logica sia nell’agogica che nel "carattere": un Allegro ad esempio è ben diverso da un Allegro molto o da un Allegro con spirito. Bisogna essere accorti e sensibili nel realizzare gli ornamenti del tempo e l’appoggiatura, allora di prassi. Anche la lettura dei segni di dinamica richiede un altro "occhio" musicale.

Oltre a dirigere, realizza anche i recitativi al cembalo...

Non è un aspetto irrilevante, tuttavia solo sottoponendosi a tale impegno si chiariscono molte "congiunzioni" tra recitativo secco e conseguente numero musicale. Altresì il modo di arpeggiare, cadenzare, ornare e "commentare" lo sviluppo dell’azione teatrale crea stimolo ed impulso ad un’azione che si vive in prima persona e non da "spettatore". Il fatto d’avere per cinque anni eseguito i recitativi secchi con i Wiener Philharmoniker a Vienna, a Salisburgo, in tournée è stata ovviamente un’esperienza di fondamentale sostegno.

Come ha lavorato con la compagnia di canto?

Con i cantanti, all’inizio delle prove, ci siamo imposti di lavorare tanto su Da Ponte quanto su Mozart. Il rischio di cadere nell’abitudine data dalla "memoria di studio" o routine di palcoscenico è fortissimo. Bisogna lottare contro di esso affinché, attraverso vitalità, varietà ritmica e dinamica così come piena comprensione e sincerità emotiva, il recitativo viva.

Come considera gli spostamenti d’epoca nelle opere di tradizione?

Ci sono opere che funzionano "ammodernate" ed altre credo di no: per le Nozze ad esempio gli spostamenti d’epoca sono problematici perché è fondamentale restituire il senso settecentesco della gerarchia nelle classi sociali e delle convenzioni che reggevano vita e teatro nel Settecento. Il rapporto tra concezione registica e musica sono in questo basilari ed è per me ancora una soddisfazione lavorare con un uomo di teatro quale Toni Servillo che, alla raffinatezza, alla cultura unisce una spiccata musicalità teatrale. L’avere già affrontato con successo assieme Una cosa rara di Vicente Martín y Soler ci ha aiutato non poco nel "leggere" insieme queste Nozze.

Interviste rilasciate nel maggio 2000 in occasione della produzione delle Nozze di Figaro al PalaFenice