martedì 23 maggio 2000

"Nozze di Figaro" con gioioso realismo
L'opera in scena al PalaFenice diverte senza sorprendere

di Carlo De Pirro

VENEZIA. Ci sono opere che consideriamo la nostra dichiarazione d'amore. Altre che ci coinvolgono per affinità di stile, di storia. O di emotività. Poi ci sono luminose miniere a cielo aperto in cui l'intreccio di teatro, musica e parole ci fa scattare l'unica invidia che è bello avere: quella dell'intelligenza. Ma chiamiamola genialità, parlando de Le nozze di Figaro, a nostro giudizio l'opera più densa mai scritta in tutta la storia della musica. Perché solo in questo abisso di significati si compenetrano (in forma di sorpresa ed invenzione) un meccanismo teatrale vertiginoso, un libretto arguto e proteiforme, una musica che passa dalla bella aria al pieno controllo del tempo interiore e reale. Naturalmente ogni sua ripresa è una gioia per il pubblico, come è stato anche per l'allestimento proposto al PalaFenice. Queste sono state le Nozze faccia a vista. Così come i mattoni sagomano le architetture, anche la volontà di Giancarlo Andretta (direzione) e Toni Servillo (regia e scene, qui in collaborazione con Daniele Spisa) hanno reso omaggio all'evidenza realista più che all'incanto. Naturalmente non parliamo di teatralità furba, sia in musica che in scena, in Nozze di Figaro il meccanismo è così vorticoso che gli stessi personaggi non hanno il tempo per organizzarsi una solida maschera. Costantemente indifesi, cioè emozionabili, tutti un po' vipere, un po' seduttori, un po' sconfitti. Qui invece il retrobottega dell'anima è ben nascosto. Ma visto che Mozart e Da Ponte organizzano una spropositata marea di dettagli tutto funziona bene anche costruendo semplici rapporti.

Così la scenografia è ridotta al minimo, grande palco a sfondo neutro, sovrastato da una spessa cornice nera, pochi attrezzi di scena e orchestra che avanza in platea. Qualche simbolismo facile (le porte che all'inizio del II atto si chiudono sulla solitudine della Contessa), trovate già collaudate in altri allestimenti, qualche corsetta ginnica, per il resto tutto in salsa sobria. La direzione di Andretta mantiene un generico buon'umore ritmico, ottenendo meno chiaro-scuri di quanto la mimica non faccia intendere. In realtà manca una complessiva visione teatrale, che dia spazio agli infiniti cambi di marcia madrigalistici e di pulsazione che la musica suggerisce. Resta un articolato variare trame e accenti che poco interagisce con gli umori di scena.

Manca di architettura anche la scelta dei matrimoni, facendo diventare musica generica alcuni stacchi (come quando Susanna esce dal suo nascondiglio) concepiti come magiche sospensioni del tempo. Geometrica e preparata la compagnia di canto, ma quasi tutti avevano un recitativo poco brillante e che nelle scene d'assieme si esprimevano con prevedibilità. Rigidità che si riscattava nel solismo, specie nella seconda aria di Figaro, Susanna, Cherubino, Contessa e Conte. La prova più articolata era quella di Lisa Larsson (Susanna), fresca e civetta con la voglia di divertire. Più statico il Figaro di Nicola Ulivieri, poca rabbia e troppo garbo per un "birbo" servitore. Conte e Contessa (Robert Gierlach e Francesca Pedaci) escono alla lunga, specie nelle confessioni del III atto. Cherubino (Tuva Semmingsen) ha pallidi languori da paggetto, ma un bel lirismo nel "Voi che sapete".

Orchestra, suono e scena omeogenei, brillanti nella leggerezza lirica, applausi in crescendo. PalaFenice esaurito.

 


martedì 23 maggio 2000

AL PALAFENICE L'OPERA DI MOZART
Toni Servillo si addentra nelle "Nozze di Figaro" e ne riscopre i momenti che provocano il riso

di Paolo Petazzi

Venezia. Torna a Venezia, nella stagione della Fenice, uno dei capolavori assoluti del teatro musicale del Settecento (e di ogni epoca), Le nozze di Figaro di Mozart, in un allestimento agile, intelligente e veloce, con interpreti giovani affidati alla regia di Toni Servillo e alla direzione musicale di Giancarlo Andretta. La scelta di giovani cantanti per un'opera di estremo impegno, di ricchezza musicale e teatrale incomparabile, ha avuto anche in questo caso un successo che andava oltre le qualità e i limiti (talvolta evidenti) dei singoli. Nell'esito complessivo assumeva un rilievo determinante la regia di Servillo, che sapeva cogliere ed esaltare la perfezione e la complessità del meccanismo teatrale ideato da Beaumarchais, rispettato e abilmente ripreso nel libretto di Lorenzo Da Ponte, e musicalmente trasfigurato da Mozart in una dimensione che ammette pochi confronti nella storia dell'opera, perché vi si realizza una coincidenza assoluta tra la intrinseca bellezza dell'invenzione musicale e l'evidenza del gesto teatrale. Inoltre Mozart definisce ogni aspetto delle idee e delle situazioni così compiutamente che la loro ricchezza si impone all'ascolto anche con voci un poco acerbe. E senza tentare impossibili confronti va ricordato che anche spettacoli come il "Don Giovanni" con la regia di Peter Brook e la direzione di Claudio Abbado si sono valsi della duttilità di giovani interpreti non appartenenti allo star system, con esiti il cui rilievo non andava cercato nella eccezionalità delle voci. Agli appassionati di teatro Toni Servillo è noto anche per allestimenti di Molière e Marivaux; in campo musicale aveva esordito l'anno scorso con "Una cosa rara" (l'opera di Vicente Martin y Soler su testo di Da Ponte che a Vienna nello stesso 1786 ottenne un successo molto superiore a quello delle Nozze di Figaro, e ne aveva voluto animare la drammaturgia un po' statica e convenzionale inventandosi un garbato gioco di teatro nel teatro. Nelle Nozze di Figaro , invece, rispetta con il massimo rigore la perfezione del meccanismo teatrale travolgente della "folle journée" e ne coglie la complessità puntando su scelte semplici ed essenziali. C'è una scena fissa (firmata da lui e da Daniele Spisa), mossa, elegante e spoglia, sovrastata da un grande plafone nero, nella quale basta cambiare pochi arredi per i primi tre atti, mentre nel quarto il giardino e i suoi infiniti nascondigli sono evocati solo da un muretto su cui pendono rami, una soluzione povera, ma che si rivela efficace nella concretezza dell'azione. In questo spazio la recitazione di ognuno degli interpreti è molto curata, mossa e vivace, ricca di sfumature. Non concede nulla alle convenzioni di un Settecento incipriato, né a forzature unilateralmente "prerivoluzionarie". In una intervista Servillo si mostra molto scettico sugli aspetti di critica sociale delle Nozze di Figaro; ma in concreto li mostra incisivamente nella contrapposizione tra l'intelligenza di Figaro e la prepotenza del signore feudale, approfondendo i personaggi e i loro rapporti senza rigidezze schematiche, con penetrante finezza, rivelando così la straordinaria, sfaccettatissima ricchezza di implicazioni della commedia, facendoci riscoprire con divertita franchezza anche i momenti che provocano il riso, senza la minima volgarità o semplificazione, in felice collaborazione con tutti i cantanti, che nella loro giovinezza sembrano quasi avere l'età dei loro personaggi. Lisa Larsson è una deliziosa Susanna (anche se nella sublime aria del quarto atto rivela limiti nel registro grave, come spesso accade) e accanto a lei Nicola Ulivieri è un Figaro aggressivo ed esuberante. Francesca Pedaci ha cantato con qualche incertezza la prima aria della Contessa, offrendo poi una prova in crescendo. Discretamente autorevole il Conte di Robert Gierlach e disinvolto il Cherubino di Tuva Semmingsen.

C'era una felice convergenza di prospettive tra la regia e la direzione di Giancarlo Andretta, che esaltava in primo luogo lo slancio travolgente, il vortice della "folle giornata" privilegiando con ragione tempi piuttosto rapidi. Ma a lui e all'orchestra toccava un compito particolarmente difficile, soprattutto in un ambiente ingrato come il tendone del PalaFenice: porre compiutamente in luce le meraviglie di una partitura che conosce anche misteriosi incanti, momenti sommessi di infinita delicatezza, struggenti malinconie, magiche trasparenze, e una irrequieta, tenera, pervasiva sensualità. Se ne è avuta una esecuzione scorrevole, spesso elegante; ma non priva di qualche rigidezza e non sempre adeguata all'ardua trasparenza della scrittura mozartiana.