IL GAZZETTINO
Sabato, 22 Novembre 2003

VENEZIA. Aperta al Malibran la nuova stagione della Fenice con un’opera di Auber
Colpi di scena nel "Domino noir"
Chiarezza e semplicità di scrittura in questo "divertimento borghese"

Venezia. Per l'apertura della nuova stagione la Fenice non ha scelto un'opera di repertorio, nè una parata di divi, ma "Le domino noir", una gradevole "opéra-comique". Peraltro questa breve operina conferma l'eleganza della scrittura di Auber , uno dei protagonisti, per oltre mezzo secolo, delle scene parigine ottocentesche. È, in ogni senso, un divertimento ricco di colpi di scena (Scribe è un librettista che conosce tutte le seduzioni della sorpresa teatrale), dotato di una agile drammaturgia. Vi si raccontano tra feste mascherate e scene conventuali le stravaganze di Angèle, destinata alla vita monastica, mentre, travestita con un domino nero, coglie i piaceri della mondanità spagnolesca, appassionatamente circuita dall'ignaro Horace. Dopo molti intrighi e intrecci comici, tutto si risolve con un lieto fine e con un matrimonio tra i due giovani suggellato dalla lettera permissiva della Regina di Spagna, che rinuncia alle proprie mistiche richieste.

"Le domino noir" prevedeva all'origine, secondo le esigenze del genere, l'alternanza di musica e di dialoghi parlati. Ma il direttore della ripresa veneziana Marc Minkowski ha opportunatamente deciso di sostituire il parlato con brevi recitativi accompagnati, seguendo la traccia ideata da Ciaikovski un trentennio dopo la prima parigina del 1837. Il compositore russo ha scritto la linea di canto e del basso, mentre il maestro ha abilmente completato l'orchestrazione, in sintonia con i vari pezzi chiusi. Questa opzione consente anche di superare le difficoltà della lingua (i dialoghi originari sono lunghissimi e improponibili al nostro pubblico) qualora non si disponga di una compagnia francese.

Si riconosce ne "Le domino noir" la chiarezza e la semplicità della scrittura di Auber , brillante ed evasiva, incline a scelte amabilmente ripetitive. Le strutture dei pezzi chiusi sono generalmente brevi, articolate in un elementare caleidoscopio lessicale, che trascorre dallo stile sillabico, allo sfrenato ornamento (ma riservato soltanto alla protagonista), ad una cantabilità espansiva, con un'orchestrazione trasparente e leggera. È un tipico esempio di stile postrossiniano (si pensi al "Comte Ory") con uno sguardo al Donizetti comico: la premessa al brio operettistico di Offenbach, che è peraltro ben più tagliente e corrosivo. In una parola: questo Auber è un documento perfetto di intrattenimento borghese. Basti pensare al primo atto nell'alternanza di terzetto, "couplets" di Angèle, duetto Angèle-Horace calibrato con simmetrie calcolatissime e con una razionalità garbatamente retrò.

Pier Luigi Pizzi ha spostato la vicenda ottocentesca agli anni Venti/Trenta del Novecento. Domina il bianco e nero "art decò" delle belle e semplicissime scene, adatte agli spazi del Malibran. Spiccano le agili strutture, con un divano quasi neoclassico, del primo quadro; nel terz'atto prevale il geometrismo, un po' funereo, di croci in successione, mentre le monache indossano, ironicamente, abiti violacei. I costumi d'altronde sono quanto di meglio la sartoria di Pier Luigi Pizzi possa offrire per sontuosa varietà e raffinata qualità cromatica con l'occhio rivolto anche al "musical". Avrei, però, una obiezione da rivolgere allo spettacolo: la trasformazione dell'"opéra-comique" in opera ballo. Così si sacrifica proprio lo stile di commedia, per non dire che la coreografia di Janku è debordante. È vero che nel "Domino" prevalgono i ritmi danzanti, ma non è necessario coreografarli ampiamente (sarebbe come visualizzare con il ballo tutti i valzer della "Traviata").

Marc Minkowski è un grande direttore-filologo, capace di leggere in controluce tutti i risvolti della esilarante comicità di Auber . È una dizione finemente razionalizzata, ma anche aperta a imprevedibili slanci, come a insinuanti sottigliezze. Ne esce un discorso a punta secca, molto francese e senza patetismi. Il "Domino noir" non esige una compagnia di particolare spicco, ove si escluda il volo impervio di Angèle cantato con grazia e con impeccabile virtuosismo dal soprano leggero Veronica Cangemi; Simon Edwards, Horace, è il musicale e un po' fioco tenore leggero. E ancora: l'aitante baritono Nicolas Rivenq, la delicata Rosita Rasmini, la prorompente Giovanna Donadini, il mordace Filippo Morace. Caldi consensi.

Mario Messinis

 

CORRIERE DELLA SERA
sabato, 22 novembre, 2003

ELZEVIRO Al Malibran di Venezia
«Domino» o il trionfo dell' Opéra-Comique
Una parte dei Recitativi venne scritta addirittura da Ciaicovski

di Paolo Isotta

«Timor et tremor»: solo con le parole iniziali del Mottetto di Andrea Gabrieli, veneziano, quest' articolo può incominciare. Il primo critico musicale cui toccò recensire l' Opéra-Comique di Auber Le domino noir (Parigi, 1837), su libretto di Scribe, fu Hector Berlioz. Solo sacrificando ai Mani di questo spirito magno oseremo inoltrarci nella stessa incombenza. Berlioz faceva il critico musicale, come Théophile Gautier quello teatrale, per campare e poter comporre; oggi molti compongono per fare i critici musicali di se stessi. Un breve memorandum storico per il lettore. L'Opéra-Comique, che trova corrispondenza in quasi tutti i Paesi tranne l' Italia, è l' equivalente del moderno Musical. Vale a dire, un testo teatrale con aggiunta di musica sotto forma di Canzoni, Arie, pezzi d' insieme, cori, marce... All'epoca del Domino la musica aveva, in questo genere compositivo, conquistato fondamentale prevalenza; ciò non toglie che a ciascun interprete si richiedeva d'esser attore oltre che cantante. S'immagini la cosa, proprio fuori dal Musical, ai giorni nostri.

Noi siamo tra quelli che recitano ogni giorno una requiemeternam per l' anima di Lachner, che scrisse i meravigliosi Recitativi per la Medea di Cherubini, nata (!) Opéra-Comique; di Ernest Guiraud, i non meno meravigliosi per la Carmen: rendendole così eseguibili in tutto il mondo. Il metus reverentialis ha impedito lo stesso per Il flauto magico e per il Fidelio: quest' ultimo ne sconta ancora le conseguenze, ma occorre onestamente ammettere che rendere il Fidelio vera Opera solo a Beethoven sarebbe stato possibile. Ma Il franco cacciatore, insopportabile, ebbe per l'Opéra recitativi francesi di Berlioz che varrebbe la pena di riprendere.

Una parte di recitativi per il Domino venne scritta addirittura da Ciaicovski: il divino dei nostri Pietri non si vergognava di abbassarsi a lavoro sì umile e su musica che a lui, incredibilmente ostinato classicista, faceva tenerezza e simpatia. Integrato di altri pochi recitativi, e ovviamente in lingua francese, il Domino rappresenta l'inaugurazione, al teatro «Malibran», della stagione del teatro «La Fenice»: non la riapertura della sala tragicamente combusta, che con lavori effettuati a tempo di record avverrà solennemente il 14 dicembre.

Quest' opera fu ai tempi suoi popolarissima per ragioni indicate tutte da Berlioz: musica piccante, ritmica, briosa, melodia corta, color locale. L'eseguirla oggi rappresenta una curiosità storica non oziosa, anche pel confronto con Rossini che se ne può cavare. Ah, Il conte Ory!

Risolta la prima difficoltà nel modo più giusto, trasformare il Domino in vera Opera, si pongono agl' interpreti altre questioni. La didascalia scenica va rispettata di fronte a capolavori assoluti nei quali, per giunta, elementi storici, sociali, mitici, simbolici, abbiano valenza fondante. Ma di fronte a una musica del tutto generica, sebbene gradevolissima? Di fronte a una vicenda tanto complicata quanto inverisimile, raccontar la quale costa a Berlioz molte pagine?

È chiaro che il Domino non può aspirare a egide fatte per capolavori intangibili. E sia qui tentato in poche righe dirne la trama. A un ballo, un nobile insegue una dama avvolta in un «domino» (mantello) nero della quale è follemente innamorato. Costei ricambia l' amore ma dichiara di non esser libera, ancorché non sposata. È infatti (ma questo lo sappiamo noi) una nobilissima novizia che deve rientrare in convento a mezzanotte, anche perché la mattina appresso, colla cerimonia della sua monacazione ella, per ordine regale, diverrà automaticamente badessa. Due atti sono il continuo inseguimento della novizia, sempre diversamente travestita, da parte dell' innamorato; il terzo si svolge in convento ove dopo alcune peripezie altro ordine regale la dispensa dalla vestizione, le impone un marito e nomina badessa la più accanita candidata.

Allora Pierluigi Pizzi, responsabile dei bozzetti, dei figurini e della regia, dà aria al tutto: un elegantissimo salottino «art-déco», palesemente ispirato a Erté, vale per il primo atto; per il secondo, una del pari elegante sala da pranzo. Il convento è tutto astratto, ma quando le monache rivelano l' anima loro non del tutto insensibile alle lusinghe del secolo, egli inventa uno strepitoso defilé sulle scale dell' altare: in questo momento di genio dev' essersi sentito la reincarnazione di Coco Chanel incaricata da Pio XI di una riforma liturgica. Veronica Cangemi è un gran soubrette ma possiede la coloratura: Giovanna Donadini ha tanta voce quanto arte nel recitare. Il tenore Simon Edwards è modesto sotto tutti i profili; il baritono Nicolas Rivenq è il nobile che conosciamo. Sul podio Marc Minkovski. Successo per tutti.

 

La Nuova Venezia
22 novembre 2003

LA RECENSIONE

Le «Domino Noir» diverte la Fenice

E Minkowski dirige e spiega l’opera ignota al pubblico italiano

di Mirko Schipilliti

VENEZIA. «È la prima volta che dirigo quest’opera, e spero di rifarlo. Nel suo genere è un capolavoro, un piccolo gioiello, un po’ naïve, semiassurda», racconta il direttore Marc Minkowski prima della prima di Le Domino Noir di Daniel Auber, che ha inaugurato giovedì scorso al Teatro Malibran la stagione lirica 2003-2004 della Fondazione La Fenice, in un nuovo allestimento con regia, scene e costumi di Pier Luigi Pizzi, coreografie di Gheoghe Iancu.

«Ho apprezzato moltissimo il recupero di quest’opera al Malibran, in Francia completamente dimenticata. - continua Minkowski - La diresse Richard Strauss, la apprezzò Wagner. Rappresenta anche l’altra faccia, accanto a quella seria, del mio modo di vivere la musica». L’edizione veneziana, forse la prima esecuzione italiana, si è avvalsa della sostituzione delle parti recitate (siamo in piena opéra comique) con i recitativi composti di Ciajkovskij: «La loro importanza - tiene a precisare il direttore - nasce dallo scarso interesse in sé dei versi di Scribe, che musicati assumono invece una certa nobiltà. Ho deciso di ripristinarli lo scorso luglio - spiega Minkowski - ma è stata solo una scelta: l’enorme lavoro svolto dal mio assistente Jeremie Rhorer, compositore che dalla «base» disponibile, basso, linea di canto e qualche indicazione strumentale, ha ricostruito i recitativi accompagnati, una decina, secondo lo stile di Ciajkovskij. Solo un mese fa, con nostra grande sorpresa, abbiamo scoperto che al Covent Garden di Londra esisteva una versione dell’opera in italiano, coi recitativi composti da Auber. Siamo riusciti a ripristinarne uno, il secondo del primo atto».

In quest’opera fluttuante, discorsiva, mai evocativa, non emozionante ma entusiasmante, gioco di sfumature fra aree teatrali isolate, Minkowski ha curato un’esecuzione sapientemente attenta a cogliere con efficacia e ad esaltare ogni caratterizzazione espressiva, scoprendo nelle molteplici sfumature psicologiche della partitura la chiave di lettura migliore. L’articolazione ritmica, la ricerca di continue tensioni interne, la scorrevolezza degli eventi, in una musica che spesso si autocompiace, rendeva palpitanti la delicata raffinatezza espressiva e l’intensa perorazione dell’azione, fuse con mirabile equilibrio.

«Mi interessa il suono, l’importanza dell’emissione» - dice Minkowski - «qui conta la leggerezza. Le difficoltà vocali stanno poi nel riuscire a parlare e cantare insieme, con una certa componente comica, ma non onnipresente». Orchestra della Fenice strumentalmente impeccabile e coloristicamente appropriata, ma tangibilmente estranea a un linguaggio nuovo, non di repertorio, ancora da assimilare: coro - preparato da Piero Monti - con tratti di discontinuità, fra incertezze di articolazione vocale e d’assieme. Nel cast, bravissima Veronica Cangemi (Angèle), in un ruolo imprevedibilmente nuovo, coinvolta nei differenti aspetti lirici e vocali richiesti; ben caratterizzata la Jacinthe di Giovanna Donadini; convincente la sicurezza di Nicolas Rivenq (Juliano); debole invece la presenza vocale di Simon Edwards (Horace). Scarne la regia e le cupe scene a incastro in bianco e nero un pò liberty, a «domino», poco funzionali alle spumeggianti pulsioni musicali, lasciando troppo protagonista la partitura: in un’opera ignota al pubblico italiano la fantasia scenica - per di più in una commedia - può aiutare l’ascoltatore. Applausi calorosi. Omaggio alle vittime di Nassiriya con un minuto di silenzio prima della serata.

 

Il Giornale di Vicenza
22 novembre 2003

Lirica. Aperta la stagione della Fenice al Malibran
Sottili ironie francesi fra novizie e gaudenti
Pizzi sciorina eleganza e brillantezza per Auber

di Cesare Galla
inviato a Venezia

Nel teatro musicale, e non solo in quello, le "rarità" possono aspirare al rango di "riscoperte" molto meno spesso di quanto non si tenda a far credere oggi. Questo naturalmente non toglie nulla al loro valore storico e culturale, che non ha niente a che vedere con lo spietato cerbero della popolarità chiamato repertorio (del quale peraltro, al contrario, si tende a sottovalutare la portata ugualmente storica e culturale). Ma un conto è l'analisi e la conoscenza, un altro la tenuta sulla scena, la forza comunicativa, l'efficacia del meccanismo teatrale e musicale.

Con una "rarità" la Fenice ha voluto inaugurare al Malibran la stagione lirica della sua rinascita (ma per avere l'opera al Gran Teatro, è noto, bisognerà aspettare l'anno prossimo a quest'epoca). Le domino noir del francese Daniel Auber è datato 1837, e per tutto l'Ottocento ha avuto una straordinaria fortuna non solo in Francia; da circa un secolo è quasi scomparso dalle scene. Si tratta di una "opéra-comique", il genere misto nel quale la commedia vera e propria - con parti solo recitate - ha molta importanza (vi appartiene anche la Carmen di Bizet). Per l'esecuzione veneziana - data l'oggettiva improponibilità della versione originale, della quale peraltro è stata conservata la lingua - si è andati a pescare una rarità nella rarità, ovvero i recitativi che Cajkovskij realizzò per un'esecuzione moscovita del 1868-69, e che assicurano all'insieme un "aspetto" operistico familiare al pubblico italiano, senza alcun passaggio recitato.

L'opera è brillante e lieve, ma non ci sentiamo di definirla una "riscoperta". Il libretto di Scribe (il più prolifico e abile scrittore per musica dell'Ottocento francese) è una sorta di divertissement giocato sul mistero di una bella sconosciuta di nobile lignaggio (avvolta nella cappa nera, il domino, e mascherata) che si fa vedere prima a un ballo, poi a una cena, e si sottrae (ma non troppo) alla corte appassionata del gentiluomo che crede di ravvisare in lei una donna intravista un anno prima e della quale si è perdutamente innamorato. Lei è sempre in fuga, e all'ultimo atto si scoprirà perché: deve rientrare al convento in cui svolge il suo noviziato, e dove il giorno dopo dovrà prendere i voti, chiaramente tutt'altro che graditi. Un'ultima notte di libertà, insomma, prima di una vita da badessa. Naturalmente non manca il lieto fine: la stessa regina (siamo in Spagna) che imponeva i voti alla protagonista, all'ultimo momento la lascia libera di sposarsi. Seguono nozze immediate.

Couplet, Arie e Ensemble - nervatura musicale dell'opera - si susseguono rapidamente, più efficaci quando puntano sulla brillantezza o sul gioco della comicità (che i travestimenti multipli, e non solo della protagonista, assicurano copiosamente). La vocalità è spumeggiante, a tratti belcantistica, l'invenzione melodica ha un po' il fiato corto, il colore orchestrale è sapiente, come pure i riferimenti alla tradizione iberica. C'è pittura di situazioni, mentre si attende continuamente che la vicenda prenda quota dal punto di vista teatrale; quando ciò avviene, e i misteri si svelano, tutto è già finito: singolare drammaturgia rovesciata.

Di fronte a un'opera del genere, un regista come Pier Luigi Pizzi (autore anche di scene e costumi) non poteva che puntare, con la finezza efficace che sempre contraddistingue il suo lavoro, su due obiettivi: l'eleganza del "décor", qui in stile anni Trenta, tipo musical hollywoodiano d'epoca, con tendaggi bianchi, gradinate lucide, costumi di sofisticata bellezza; e l'ironia a tutto tondo delle caratterizzazioni, che sottolineano gli aspetti da vaudeville, da operetta, che sono ben presenti in questo lavoro sorridente e un po' futile. Fino a un finale decisamente giocoso e perfino un po' satirico, con una strizzata d'occhio al popolare genere cinematografico musical-conventuale di Sister Act .

Sul podio è salito Marc Minkowski, energico e brillante laddove il comico più apertamente prende il sopravvento, piuttosto statico nell'ambito sentimentale. Veronica Cangemi è stata una protagonista di grande impegno scenico e vocale, dalla linea di canto apprezzabile e duttile specie nella zona medio-alta della tessitura. Al suo fianco Simon Edwards (il suo innamorato), controllato nel fraseggio ma non particolarmente svettante, il brillante Filippo Morace, in un duplice ruolo simile a quello di un basso buffo, l'estroversa Giovanna Donadini, e ancora, fra gli altri, Rosita Ramini e Nicolas Rivenq. Impegnato, non sempre preciso il coro, adeguati i danzatori che si sono mossi sulle essenziali coreografie di Georghe Iancu. Discreto successo.

 

Il Giornale della Musica
20 Novembre 2003

Il Domino in versione operistica

di Alessandra Morresi

Nostra recensione. Ritornando con la memoria allo scorso anno emergono non poche similitudini che legano l'inaugurazione di stagione del 2002 con questa serata: come "Thais" nel precedente, così anche nell'attuale cartellone il primo titolo è costituito da un'opera francese ottocentesca, il cui allestimento è nuovamente curato per la regia, le scene ed i costumi da Pier Luigi Pizzi. Quella di Auber è un'opera che, dopo lo strepitoso successo riscosso nel secolo scorso, è praticamente caduta nell'oblio nei giorni nostri. Si tratta infatti di 'un'opéra comique' il cui impianto di commedia-opera (una commedia con inserti musicali operistici) richiede dei veri e propri cantanti-attori di madrelingua francese, vincoli questi troppo rigidi per realizzare un valido allestimento moderno.

Per questa sera si è quindi fatto riferimento ad una versione in cui le parti dialogate sono state trasformate da Minkowski e dal suo assistente Rhorer in recitativi, secondo una traccia lasciata da Cajkovskij. C'è da dire, tuttavia, che questa scelta ha probabilmente appesantito l'originale di Auber, forse più snello e veloce, punteggiato com'era dalle isole musicali dei singoli numeri che risultavano così meglio godibili. L'impressione è stata dunque di un'opera musicalmente un po' incolore, la cui messinscena è comunque apparsa di grande gusto. Pizzi ha ricreato un'ambientazione anni Venti con decori Art Nouveau e costumi un po' charleston, un po' spagnoleggianti; tutto in un prevalente bianco e nero, 'optical' nel terzo atto, con gli sporadici rossi di alcuni accessori e i viola dell'abbigliamento monacale; forse poco funzionali le coreografie stile commedia musicale.

La direzione di Minkowski ha dato risalto alla trasparenza della scrittura orchestrale, precisa è stata la concertazione, molto buona è stata la risposta dell'orchestra. La voce di Veronica Cangemi (Angèle) è apparsa piuttosto debole, poco differenziata nelle dinamiche, così come Simon Edwards, che nei panni di Horace è risultato poco brillante. Comunque buon successo.

 

Le Monde
01.12.03 | 13h46

Opéra: un trop gentil "Domino noir", d'Auber, qui n'échappe pas au clapotis de la banalité
A Venise, la Fenice renaît de ses cendres, après le terrible incendie qui la détruisit en 1996.

Venise (Italie) de notre envoyée spéciale.

Comme la rose capricieuse du Petit Prince, le Théâtre de la Fenice n'en finit pas de se préparer : l'oiseau lyrique vénitien, enfin relevé des cendres du terrible incendie du 29 janvier 1996, devrait ouvrir ses ailes le 14 décembre avec un concert inaugural dirigé par le maestro Riccardo Muti. On y sert pourtant depuis le 20 novembre, au petit Théâtre Malibran, Le Domino noir, un opéra comique typiquement français, de Daniel François Esprit Auber (1782-1871). Beaucoup ne connaîtront sans doute de ce compositeur, grand pourvoyeur de l'Opéra et de l'Opéra-Comique (quelque cinquante ouvrages lyriques), que le nom de la station de la ligne A du RER parisien, hautement fréquentée en ces périodes de fêtes de fin d'année.

Auber et la proximité des grands magasins, l'association n'est pas si impitoyable. La première italienne du Domino noir ne devrait marquer durablement ni les oreilles ni les esprits. Et pourtant. Tout gosse, Auber avait enchanté de ses romances les salons du Directoire, avant de gagner l'Angleterre pour y apprendre le négoce. Revenu en France à 22 ans, il étudie avec Cherubini, auquel il succédera en 1842 à la direction du Conservatoire.

Le succès arrive en 1820, avec la production des premiers opéras-comiques. Dix ans plus tard, à Bruxelles, le 25 août 1830, à la Monnaie, c'est le duo "Amour sacré de la patrie", à l'acte II de La Muette de Portici (1828), qui donnera le signal de la révolution belge, entraînant la séparation avec la Hollande.

Rien de tel pour Le Domino noir (1837) élégamment concocté avec l'incontournable librettiste à succès de l'époque, le bien nommé, Eugène Scribe, lequel ne déclenchera nulle révolution hors les circonvolutions d'un synopsis alambiqué, qui a revêtu d'un masque en forme de domino noir la demoiselle Angèle d'Olivarès au bal de la cour d'Espagne. Il faut dire que la belle, sur ordre de la reine, se destine à prendre le voile. Mais la rencontre avec Horace de Massarena, gentilhomme entrevu un an auparavant, et follement épris d'elle, en décidera autrement. La suite raconte comment la jeune amoureuse en rupture de couvent, au terme d'une nuit d'aventures, réintègre sa prison la mort dans l'âme, juste à temps pour la cérémonie d'intronisation. Celle-ci a déjà commencé, lorsqu'un opportun billet de la reine arrive, qui rend à la jeune Angèle la liberté et l'amour.

La version proposée par Marc Minkowski (avec l'aide de Jérémie Rohrer) substitue aux dialogues parlés originaux les récitatifs (incomplets) écrits par Tchaïkovski lors d'une reprise de l'oeuvre à Moscou en 1868-69. De cette histoire de bal masqué, de libertinage et de couvent, qui n'a d'espagnol que le lieu (et certainement pas une inspiration musicale), Pier Luigi Pizzi fait une mise en scène minimale dans des décors ultraléchés style années 1930 aux couleurs "domino" (le noir et le blanc), à quoi s'ajoute le violet clérical.

Cela resterait sans histoire et de bon goût, n'était l'envahissement d'une chorégraphie histrionique et fadement sulfureuse sur fond de déhanché, de gestuelle flamenca et de rituel eucharistique (génuflexions et signes de croix). Défendu par un orchestre et des choeurs convaincus, une distribution pour le moins honorable, ce Domino noir restera cependant pour ce qu'il est: un ouvrage anecdotique, où surgissent quelques îlots de musique (au troisième acte) dans des lagunes de banalité.

Marie-Aude Roux

* ARTICLE PARU DANS L'EDITION DU 02.12.03

 

Mundo Clasico
13.01.2004

Ah no credea mirarti ... maestro Pizzi
Anibal E. Cetrángolo

"La Posteridad y la Musicología han sido particularmente crueles con el repertorio francés del Ochocientos [...] el inmenso iceberg francés perdido en el mar glacial de los tiempos pasados". Traduzco esta frase del ensayo de Hervé Lacombe que se incluye en el estupendo libro que publica La Fenice acompañando a esta versión –la primera en Italia– de Le Domino Noir de Daniel Auber. Como ya he señalado otras veces, estos estupendos textos venecianos son un acontecimiento dentro del otro Acontecimiento, cual siempre es la presentación de una ópera. Esta vez, además del ensayo de Lacombe, se incluyen otros textos de Michele Girardi, Gianni Ruffin, Marco Marica, y del mismísimo Héctor Berlioz. Entre los aparatos se incluye el precioso libreto con la traducción al italiano que editó, con frondosas notas, Marco Marica.

Como anoche lo pasé muy bien, durante el espectáculo y en cambio la lectura (por suerte después) de aquel texto apenas citado, me pone de pésimo humor, creo necesario, por respeto al trabajo serio de los intérpretes, sacarme urgentemente la piedra del mocasín y recuperar, para contar mi impresión, mi alegría de ayer. Empiezo desde lejos, como siempre (y esto pone a dura prueba la paciencia de mis amigos).

Sorprendente y efectista

Hace cien años, me recuerda La Repubblica de hoy, Edwin S. Potter, realizó un film de doce minutos que es célebre para los historiadores del cine: The great train robbery. La pelicula tenia catorce encuadres. Sin que la cosa viniese muy a cuento con la historia que se relataba –se incluia una escena jolly: el jefe de los bandidos miraba hacia el frente, apuntaba hacia la cámara con su revólver y disparaba. Además de este dato, otras dos noticias me interesan en este momento: la primera, la escena era tan desconectada del relato filmado que cada distribuidor podía incluirla donde prefiriese; la segunda, el público del cine se asustaba tanto que se escondía debajo de las butacas. Esto es, entonces, lo que se llama un efecto. El efecto es, por definición eficaz, muy eficaz (provocar terror, como en este caso, no es fácil). El efecto, eso sí, dura poco. Cuando los espectadores de las películas sucesivas entendieron el truco, dejaron de ensuciarse las rodillas para esconderse y hasta empezaron a aburrirse al ver cosas de este tipo.

Si Potter se hubiese dedicado a la música y hubiese vivido en el Paris de 1837 habría compuesto alguna opéra-comique. Nada deshonroso, en absoluto. Simplemente quería, volviendo a la frase inicial de este escrito, comentar mi sorpresa ante el planctus (tan poco leggero, tan poco francés) de Monsieur Lacombe quien más adelante, en el mismo artículo escribe que estamos tratando de un arte dedicado "más a sorprender, a divertir a intrigar al público que a educarlo y conmoverlo con emociones profundas". Nada de ilegítimo y nada de inmoral, categorías que por otro lado poco tienen que ver con la calidad artística; solamente indico que tal vez eso explique el motivo por el cual la Posteridad (con mayúscula ya se trata de una Posteridad de Campos Elíseos) se tome una revancha sobre aquel director del Conservatoire Monsieur Auber, quien después de tomar su té de tilo cabalgaba por el Bois de Boulogne y que gracias a tal pasar pudo llegar a los ochenta y nueve años inventando salidas simpáticas como aquella que me recuerda el libro de La Fenice y que tendré muy en cuenta en el futuro: "la vejez es el mejor método para vivir mucho tiempo".

Estoy de acuerdo con Lacombe cuando escribe que la musicología debe estudiar y mostrar todo y que cuanto más sepamos de más cosas seremos mejores y vamos a conocer mejor lo que ya conocíamos. Por mi lado estoy muy feliz de haberme encontrado con este Domino Noir, que no conocía más que por las numerosas menciones científicas a su trascendencia histórica. Fue una experiencia placentera. Simétricamente es urgente indicar que tampoco es un mérito, en el arte, ser tuberculoso o ser suicida o ser loco o ser sordo y también declaro que la próxima vez que me pasee por el bois, macheron en mano (espero pronto), cantaré a la salud imperecedera de los músicos locos y suicidas que pasaron por aquella ciudad que iluminaba mejor porque no se tomaba tan en serio. ¿Que cantaré? Seguramente aquel "Ah no credea mirarte" y caminaré con la columna vertebral mas erguida que de costumbre, con una inmensa sonrisa en los labios imaginando que me acompaña no una orquesta sino una simple guitarra que para no molestar la combinación genial de las notas del canto sabrá ser lo más discreta posible con una virtud que los Mr.Potter y Monsieur Auber confundirán siempre con la pobreza. Ah, ces italiens!..

Éxito decimonónico

De todas maneras, dice la historia que el 2 de diciembre de 1837 Le domino noir subió al escenario de L’opéra-comique, obteniendo un enorme éxito. Nos cuenta la cronología que muy personalmente confeccionó Mirko Schipilliti (lista que cuenta que en 1842 Auber desayunaba tilo y se acostaba tarde), que antes de 1909 la ópera se represento mil doscientas veces.

Seria injusto juzgar en términos musicales Le Domino noir. Acabaría por escribir que lo que salió del foso y del escenario fue, salvo escasos momentos, muy poco interesante, sobre todo cuando el clima de champagne (varios de los couplets de la ópera fueron muy populares en tiempos de nuestros abuelos) cedía a improbables momentos mas reflexivos y la orquesta prometía trascendencias que puntualmente se desvanecían. Música no, el género apunta al espectáculo y es justo seguirlo en ese terreno. Dentro de esa óptica mi primera impresión, fascinante, fue la de presenciar una realidad diferente. No cabía duda, no se trataba de una fábula. Lo que ocurría, lo que se representaba, tenía la consistencia de lo real pero pertenecía a otro universo. Se percibían fragancias y sonidos que no son los nuestros, venían de otra historia. Asocié este mundo al de Matrix, donde todo es creíble pero nadie puede imaginarlo en un aquí y ahora.

El telón alpino

Cómplice genial de esta sensación fue la puesta excelente de Pier Luigi Pizzi, que se ocupó también de la bellísima escenografía y de los vestuarios. Los dibujos de Ertè que inspiran las figuras de Pizzi pertenecen tan por entero al mundo de las revistas y programas de lujo que desenfoca y casi asusta que esos trazos de lápiz canten y bailen. En ese universo de otros un sonido "nuestro", aunque arcaico como el de reloj de péndulo que Auber nos hacer escuchar, no hace más que subrayar la distancia de las dos dimensiones. Sin que esto implique ningún juicio de valor, no me admira tanto el olvido que este espectáculo sufrió en este último siglo sino más bien el éxito que cosas como estas tenían en el Paris del siglo XIX. Hay algo que evidentemente no entiendo. Me sucede ante esto lo que me pasa ante algo incomprensible: me digo "realmente hay gente para todo". Pero me pregunto a qué me refiero cuando digo "gente". ¿Me refiero al pasado? Eso indicaría que sabemos, sé poco de cómo eran realmente nuestros abuelos. O en cambio la lejanía es espacial, ante una cultura que no me pertenece. En tal caso los Alpes y los Pirineos serían más altos de lo que parecen. Creo que eso es el tema que me acompañará en algunas reflexiones posteriores a este Domino noir.

Sobre el estilo del género que supone la oposición hablado / canto hay que decir que lo que presentó el teatro veneciano fue mitigado por el esfuerzo de Chaicovsqui, quien convirtió en recitativo gran parte del parlado y también aquí vale lo que se dijo antes sobre el efecto: el ritmo teatral de este Domino es, en general, frenético respecto de la opera seria pero aquí cuando la cosa frena, se frena en serio.

Notables algunos aspectos del libreto de Scribe. Y aquí otra vez las diferencias entre las laderas diferentes de los Alpes que ahora señalo con menos orgullo y más envidia: es notable el espíritu laico francés. Los couplets que canta ‘Brigitte’ en la primera escena del tercer acto no sólo habrían sido imposibles en la Italia de 1837 sino que improbables muchos años después en un país donde aún se estudia religión en los colegios estatales. Copio alguna frase del couplet "Au réfectoire, à la prière":

Et, s’il faut parler sans rien dire, / Sur le prochain s’il faut médire, / Savez-vous où cela s’apprend? / C’est au couvent […]

Si vous voulez, jeune fillette, / Etre à la fois prude et coquette, / Savez-vous où cela s’apprend? / C’est au couvent.

Magnífico Pizzi

Ya anticipé algo sobre el excelentísimo trabajo de Pizzi. Este artista basa su labor apoyándose en una fuerte referencia a la Belle Époque, y esto aparece muy natural en esta ópera que obviamente, históricamente, nada tiene con la Belle Époque. Esta elección es casi lo menos filológico posible: la opera salió del repertorio en los años de Ertè. Desde estas páginas donde repetidas veces critiqué las elecciones arbitrarias y no fundadas de los directores de escena puedo hoy repetir aquel concepto: es irrelevante que un regisseur sea o no siervo de la historia indicada por el libretista. Es importantísimo que estudie el melodrama en su filología y que vaya al fondo de la obra. El noventa y nueve por ciento de los colegas de Pizzi cuando trasladan un espectáculo de la didascalia que indica el libretista lo hacen con la superficialidad espontánea del que no entendió nada.

El marco del pequeño e históricamente tan apto Teatro Malibran fue perfecto para el trabajo de Pizzi donde se mostraba una españolada estilizada y se jugaba entre lo eclesiástico y lo procaz en esos desfiles de monjas con sobreros espléndidos que salían de Roma de Fellini.

La escenografia en blanco y el negro evocaba muy sólidamente al trabajo de los tipógrafos de los programas de las óperas o de las revistas -como nuestra Caras y caretas de 1910- constituyendo un marco ideal para esos caballeros de smoking, bigotito y jopo engominado. A veces el violeta se combinaba al negro y al blanco recordando lúgubremente el arte sepulcral de los cementerios de lujo.

Pizzi movió muy bien las masas con los movimientos en fila india, proféticos del can can y las monjas bailaron algo que parecía un charleston bailado por Chubby Checker. Esto recuerda que es el momento de decir lo mejor posible del trabajo del gran Gheorghe Iancu, que firmó el trabajo coreográfico que incluyó la participación del Ballet Español de Clara Ramona (Claire Batchelder Rios).

Complejos papeles

Pasando al mundo de los cantantes, es urgente indicar que la parte de ‘Angèle’ es tremendamente exigente. El rol exige una constante presencia sobre las tablas, supone figura ágil y saber moverse: teniendo en cuenta todo esto, el resultado que ofrece la argentina Veronica Cangemi es digno, muy digno, pero estos espectáculos piden más; si bien exigen buenos actores tambien piden fuegos artificiales con la garganta. La musicalidad no alcanza. En ese sentido, y estamos otra vez en el universo del efecto, cuando se trataba de abrir la botella de champagne, la voz de esta soprano cumplía pero no más: la botella se abría pero sin el disparo del corcho. En esta música que no pretende ser excelsa, todo el juego está en las burbujas del espumante y en mostrar que no se sufre pensando en la cuenta. Eso falló.

El rol de ‘Horace’ fue afrontado de manera casi inaudible por Simon Edwards. Nicolas Rivenq cantó correctamente el rol de ‘Juliano’. Rivenq es buen actor y sobre él Pizzi caracterizado ha perfectamente el personaje. El encuentro musical de ambos cantantes masculinos en los dúos mostró momentos de afinación infeliz. Mucho más eficaz en este sentido la ‘Brigitte’ de Rosita Ramini. La ‘Ursule’ masculinizada de Bruno Praticò es eficaz. El mismo cantante afrontó el papel de ‘Gil Perez’. Otro personaje simétrico en función fue la ‘Jacinthe’ que bien actuó Giovanna Donadini. Los cuerpos estables del teatro fueron dirigidos con buen resultado por Marc Minkowski.