IL GAZZETTINO
24 giugno 2003

Al Malibran un’edizione dell’opera verdiana proposta nel 1836 a Parigi ma successivamente poco rappresentata
"Marino Faliero", la passione del Doge
La direzione di Bruno Campanella sceglie un impianto storicistico e privilegia il bel canto

di Mario Messinis

Venezia. Strano destino quello del "Marino Faliero", rappresentato l'altra sera al Malibran. Ebbe qualche notorietà per un trentennio, dopo la prima parigina del 1836, e poi scomparve dal repertorio fino alla ripresa a Bergamo del 1966, ma anche dopo quella sporadica resurrezione rimase un'opera di rara esecuzione, fors'anche per i limiti dell'impianto librettistico. C'è un doge diviso tra impegno politico e passione per la moglie Elena, innamorata invece del giovane Fernando. Questi sfida a duello il patrizio Steno (nemico del Doge) che ha calunniato Elena, e viene ferito a morte. Marino Faliero aderisce ad una congiura popolare, contro il consiglio dei Dieci; ma i congiurati sono traditi e il Doge, condannato quindi al patibolo, perdona Elena, dopo la sua confessione dell'adulterio. L'opera linguisticamente ha un carattere sperimentale. È un testo decisamente preverdiano, non soltanto per l'argomento veneziano (ripreso un decennio dopo nei «Due Foscari»), ma anche per le scelte musicali. C'è un notevole approfondimento dei duetti a più sezioni, molto elaborati sintatticamente, che ritroveremo non soltanto nei "Foscari" ma anche nel "Simon Boccanegra". La "tinta" è prevalentemente cupa, livida. Il formidabile duetto dei due bassi (Faliero - Israele) sembra sfiorare addirittura il "Don Carlo". Si nota inoltre una ricerca sulla "parola scenica", specie per quanto riguarda le voci gravi, che enfatizza la declamazione ariosa. Si ha una riprova che, specie nei cosiddetti "anni di galera" Verdi smontava e ricuciva lessici donizettiani indirizzandoli però verso una drammaturgia più stringente e compatta.

L'eccellente direzione di Bruno Campanella presenta, per così dire, un impianto storicistico. Di conseguenza questa interpretazione tende a riproporre l'opera come espressione del costume esecutivo del tempo, conciliando memorie rossiniane e belliniane con la pronuncia romantica. In questa impostazione risulta legittima la scelta di un tenore belcantista, già grande rossiniano, come Rockwell Blake, impeccabile nello stile, messo però a dura prova timbricamente e negli acuti siderei di Fernando, cantati a piena voce, mentre il mitico Rubini, il primo interprete, ricorreva al falsetto. Michele Pertusi (Faliero) affronta il ruolo protagonistico con singolare nobiltà espressiva e con perfetto decoro dogale. L'Israele di Roberto Servile si fa apprezzare nella tensione declamatoria. Mariella Devia legge il ruolo di Elena con toccante espressione intimistica e con raffinatissima tecnica di coloratura. Nella sua ultima, bellissima area, sembra incarnare il suono estatico alla Bellini. Appropriata la caratterizzazione del sinistro personaggio di Steno, da parte di Enrico Giuseppe Jorio. Accurata la scelta dei comprimari.

L'allestimento, per la regia di Daniele Abbado, proviene dal Teatro Regio di Parma. Una semplice struttura scenica quadrangolare (ideata da Gianni Carluccio) si apre con elementi mobili ad effetti di interno - esterno, grazie ad un'abile sfruttamento dello spazio. Sul fondo periodicamente si riflettono le azioni con cupi, talvolta eccessivi, tremolii lagunari. Felici i costumi di Carla Teti, grossomodo ottocenteschi.

Caldissimo successo.

 

Corriere della Sera
lunedì, 23 giugno, 2003

Nella tragedia dell' eroe Marino la metafora della nascita dello Stato moderno
La triste fine del doge Faliero immolato in nome della Storia
L'opera di Donizetti al Malibran di Venezia, un evento musicale tra i più importanti della stagione

di Paolo Isotta

Ogni bimbo di Venezia viene guidato dalla maestra elementare nella sala del Maggior Consiglio del palazzo dogale, ove sono allogati tutti i ritratti dei Dogi. Ne manca uno solo, Marino Faliero, che il consiglio dei Dieci fece uccidere nel 1355: in sua vece, un drappo nero recante la scritta «Hic est locus Marini Faletri decapitati pro criminibus». Così ciascun bimbo dei pochissimi rimasti nella quasi deserta di Veneziani Venezia apprende coi suoi occhi che cosa siano la vita e la Storia. Venezia si basava sopra un sistema politico definibile come monarchia elettiva; ma il Doge ricopriva funzioni rappresentative più che politiche, era impotente nelle mani dei Dieci, come vedemmo poche settimane or sono a proposito del capolavoro di Verdi sui Due Foscari. La tragedia di Faliero, ch'era stato un eroico combattente, riproduce per sommi capi la vicenda della nascita dello Stato moderno in quanto monarchia assoluta. Nella tarda Repubblica Romana Flaminio, prima, poi i Gracchi vollero far lega cogli ultimi veri cives, i contadini-soldati, contro la nobilitas senatoria patrizio-plebea che sfruttava la manodopera servile per impoverire il cittadino: fecero la stessa fine di Faliero. Nel Trecento, il Principe deve per liberarsi dalla stretta degli Ottimati far lega col «popolo grasso»: in linguaggio medioevale: colla borghesia o colla «nobiltà di toga», donde proveniva lo stesso Robespierre. Proprio questo tentò il Veneziano: un traditore ne denunciò la congiura e gli aderenti ne ricevettero morte e infamia.

Alla vicenda Donizetti dedicò nel 1835 un'Opera delle sue grandi e sfortunate che viene ripresa al teatro Malibran di Venezia per la Fondazione della Fenice, combusto l'edificio titolare e ora quasi ricostruito. Si tratta d'uno degli avvenimenti musicali più importanti della stagione e la prima causa si deve all'essere sul podio uno dei nostri più grandi direttori, Bruno Campanella. Al Maestro viene generalmente riconosciuto, come si dice di donne brutte «però con belle gambe», d' esser un grande esperto e, horresco referens, «accompagnatore», di Bel Canto. Il Faliero è testo cupo, notturno, con tratti sintetici e strumentali che all'opposto assoluto dell'atmosfera del Bel Canto lo pongono, sebbene di questo stile il testo qua e là sia disseminato e un esempio eccelso possegga. Ancora una volta dobbiamo ricordare che l' eleganza e il piglio virile e stringente non sono agli antipodi: nessun direttore d' orchestra padrone dell' uno e sprovvisto dell'altra sarebbe professionalmente completo. Donizetti fu uno dei più fortunati operisti del suo tempo, ma non lo fu in relazione congrua al suo valore; quanto a vita, l' ebbe disgraziatissima.

Anche il Marino Faliero è Opera sfortunata, non solo per l' avveniristica concezione drammaturgica e per il miscuglio di questa e d' uno stile, ripeto, di modernissima e scabra brachilogia con sontuosi residui di Bel Canto rossiniano, dovuti in primis al fatto che il soprano e il tenore protagonisti e destinatarî della parte alla première furono la Grisi e il Rubini, tra i sommi virtuosi d' ogni epoca. Lo fu per una circostanza obbiettiva legata alla stessa sua genesi. Tratta dalla Tragedia di Byron contaminata in ampia misura con quella del Delavigne (1829), l' Opera si trovò a gareggiare in fatto, comune la compagnia degl' interpreti, coi Puritani di Bellini. Ambedue avevano a essere le grandi prime del Teatro Italiano di Parigi, regnantevi ancor, sotto colore di abdicazione, Gioacchino Rossini. Tutti sanno che tanto Bellini quanto Donizetti sottoposero le loro partiture, quasi scolari, al Giove della musica; l' autografo di quella donizettiana si trova a Napoli e il confronto con l' edizione definitiva, tanto diversa che si dovette ricorrere addirittura a un secondo librettista in loco, è dimostrazione del genio di Rossini forse ancor più di tante sue proprie composizioni. I Puritani sono il miracolo che sono, a onta d' una drammaturgia a mio avviso debole e d'un'ostentazione di brillìo strumentale così poco belliniano da farci interrogare sul peso dei consigli dati da Rossini al giovane collega.

Il Faliero è Tragedia capace di mescolare mirabilmente i casi personali con una vicenda politica che non fa da cornice: si basa su di una drammaturgia anticipante in modo straordinario un Verdi venturo; certo non era accattivante per l' edonista pubblico degli Italiens. Non possiamo tacciar d' ingiustizia, né Donizetti lo fece, la fortuna d' allora: oggi siamo nella temibile situazione di depositarî del giudizio storico, e per quanto sublimi i Puritani siano non possiamo negare al Faliero la qualifica di capolavoro. E di capolavoro dalla complessa psicologia: l'eroe Faliero è un vecchio, la bellissima sposa Elena è giovane, Fernando, nipote e principale sodale di Faliero ne è il segreto amante. Segreto ma non tanto perché i Patrizi, che già l' hanno spogliato d'ogni potere, non cospargano i muri della Serenissima di derisioni sulle sue corna. Fernando morirà in duello, a poche ore dal previsto scoppio della congiura, ucciso da un nemico di Faliero e politico e di talamo; e spunta qui un personaggio nuovo pel Melodramma italiano, un popolano già eroico soldato sotto il giovane Faliero che organizza la rivoluzione: con quanto vecchia e sciocca meccanicità concepita dal regista Daniele Abbado; sullo stesso programma di sala si parla di «classe operaia»: leggessero almeno un bignamino scolastico, costoro. A questo baritono, impersonato con gran proprietà drammatica e vocale da Roberto Servile, sono affidate pagine o toccanti o d' un sapore tra l'inno cherubiniano e quello verdiano. La sua voce deve intrecciarsi con quella di Michele Pertusi, che qui davvero recupera la grande statura del personaggio tragico: egli deve piangere il diletto sodale, consegnarsi impassibile al boia, apprender dalla sposa d' esser stato tradito negli affetti dai due più cari esseri fossero per lui al mondo, infine sublimemente perdonarla. Alla sposa è commessa, fra l' altro, una monumentale Aria tripartita: due Cabalette divise da una Cavatina. Qui Mariella Devia supera se stessa, giacché infonde alla terribile «coloratura» il senso, la proprietà drammatica che ne fanno un estremo, non una negazione di pathos. Il tenore Rockwell Blake non ci è mai piaciuto per tante ragioni: chiamato al cimento supremo, forse, della sua carriera, si garantisce il nostro rispetto. Ma, ripeto, quest'opera difficile d'un Maestro che alle orecchie superficiali sembra divenire vieppiù difficile, non tornerebbe in vita senza quella che si chiama l'esecuzione rivelatrice: il nome di Bruno Campanella deve chiudere questa cronaca.

L' autore. Gaetano Donizetti nasce a Bergamo nel 1797 dove comincia gli studi musicali che prosegue a Bologna. Nel 1818 debutta a Venezia con l' opera Enrico di Borgogna. L' esordio romano è del 1822 con Zoraide di Granata. Nel 1830 viene eseguita Anna Bolena, svolta nella carriera Nel 1832 va in scena Elisir d'amore. Il Marino Faliero, debutto a Parigi, è del 1835, stesso anno della Lucia di Lammermoor. A Parigi Donizetti era stato chiamato da Rossini. Lì si accosta alla tradizione francese con l'opéra-comique La figlia del reggimento, il grand-opéra Les Martyrs e con La favorita. Muore nel 1848.

 

La Nuova Venezia
22 giugno 2003

Mariella Devia piace di più
Luci e ombre del "Marino Faliero" al Malibran

di Carlo De Pirro

VENEZIA. Maestri che aiutano allievi, che imbeccano maestri. In Francia, parlando di Venezia. Questo è Marino Faliero, debutto parigino di Gaetano Donizetti protetto dalle benevole ali di Gioacchino Rossini. Che un soggetto di Casimir Delavigne, ben noto al pubblico francese, consigliò per prender capra e cavoli. Era il 12 marzo 1835 al Théàtre Italien, la tragedia del Doge Marin Faliero, giustiziato a Venezia nel 1355, "presenta molte condizioni favorevoli per l'esimia compagnia che l'eseguirà" (parole di Donizetti). Ed allora meraviglie esotiche all'italiana con tanto di barcarole, gondolieri e traditori in salsa di bel canto, fuochi d'artificio vocali che solo una compagnia anch'essa raccomandata da Rossini poteva permettersi. Vista nella prolifica carriera di Dozzinetti (così veniva chiamato per i suoi 70 melodrammi in 26 anni di attività) questa è un opera con perle, ovvietà e forti intuizioni, prima fra tutte nel delineare conflitti e pulsioni "civili" che rimandano a molte delle successive esperienze verdiane. Quindi con la necessità di un connettore d'invenzione, primo fra tutti registico.

Quella di Daniele Abbado parte come impostazione tradizionale e non regala alcun motivo d'interesse. Eppure ci si scalda in coppia e in gruppo, ma questo produce appena qualche sussultino. Assistiamo alle solite posture imbalsamate (salvo un futuro cadavere che scatta galvanicamente alla voce del Doge) in un contesto scenico sobrio e stilizzato-curato da Gianni Carluccio- che accoglie venature ottocentesche mal moltiplicate in un caleidoscopio di costumi che a quel secolo occhieggiano ma solo per macedonie realistico - pretestuose. Qualche trovata (una parete traslucida fa ondeggiare il ballo) non allontana la certezza di aver perso l'occasione di inventare Venezia.

Bruno Campanella imposta un lavoro di concertazione in punta di stile. Ma lo fa fino in fondo, non ha cambi di passo quando il dramma bolle, è ostinatamente algido, tenendo drammaturgia e metronomi (non sempre l'espressività) sotto una campana di vetro. Lascia spazio completo al palco, su cui riluce con intramontata intelligenza vocale la stella di Mariella Devia. Il suo Dio clemente è una palpitante lezione di stile che sublima misteri e nevrosi d'amore, altrettanto intensa nei duetti con chi ne condivide la sensibilità. Il Marino Faliero di Michele Pertusi ad esempio, nobile e rassegnato, dalla vocalità rotonda e tragica. Stessa impostazione ma più temperata negli accenti anche per la prova di Roberto Servile (Israele). Rockwell Blake (Fernando) ha sovracuti più aspri che squillanti, spesso trascina le fioriture, ma ha un bel siparietto di grazia prima di morire. Segnaliamo anche il suggestivo canto del Gondoliere (Patrizio Sbudelli). Coro (diretto da Pietro Monti) poco incisivo, applausi tiepidi fino al meritato trionfo per Mariella Devia (in parte condiviso anche da Michele Pertusi).

 

Drammaturgia Italiana
21 luglio 2003

Il musicista e i fuoriusciti
di Elisabetta Torselli

Sono molti i motivi d'interesse in questa riproposta del raro Marino Faliero di Gaetano Donizetti, realizzata dal Regio di Parma e recentemente ripresa dalla Fenice di Venezia al Teatro Malibran. Nella carriera di Donizetti, l'opera è la prima espressamente composta per Parigi; segue o è coeva ad altre di soggetto storico, come Parisina, Lucrezia Borgia, Maria Stuarda, Gemma di Vergy. La commissione era del Théâtre Italien, di cui nel 1834- 1835 Gioachino Rossini era sempre il nume, pur avendone ceduto nominalmente la direzione a Edouard Robert e Carlo Severini: ciò dimostra la stima e l'attenzione di Rossini per un compositore che forse aveva meno carte per piacere ai parigini di Vincenzo Bellini, che per il Théâtre Italien andava creando, proprio allora, i Puritani, che andarono in scena il 24 gennaio e il cui successo straordinario schiacciò il Faliero.

Le modifiche apportate a Parigi (fra il gennaio del 1835 e la prima) da Donizetti alla stesura originaria dell'opera, realizzata in Italia nella seconda metà del 1834, sembrano volerle conferire più mordente drammatico. Se davvero, come risulta, fu Rossini a dare suggerimenti in tal senso, verrebbe fatto di pensare che il pesarese volesse incoraggiare il misconosciuto Donizetti a proseguire sulla strada del dramma musicale romantico di concezione moderna, strada che, per quanto lo riguardava, aveva trovato nel Tell una tappa definitiva, o, se si vuole, un confine oltre il quale non procedere. La sceneggiatura e il libretto del siciliano Giovanni Emanuele Bidera vennero pertanto rimaneggiati a Parigi dall'esule mazziniano Agostino Ruffini (il cui fratello Giovanni avrebbe scritto di lì a qualche anno il libretto del Don Pasquale, sempre per il Théatre Italien, senza peraltro contentare Donizetti che quel libretto lo modificò largamente).

Marino Faliero è tratto dalla tragedia omonima di Casimir Delavigne (Parigi 1829, pubblicata in Italia nella traduzione di Luigi Raspi), basata sulla vicenda del doge veneziano condannato a morte e decapitato il 17 aprile del 1355 per aver ordito un complotto - fallito per la delazione di uno dei congiurati - allo scopo di instaurare a Venezia una signoria. A sua volta, Delavigne si appoggiava alla tragedia di Byron (Londra, 1821). Come fonte storica si indicano le Vite dei Dogi scritte alla fine del XV secolo da Marin Sanudo il Giovane; ma ancor più evidenti sono i debiti con la fosca leggenda di una Serenissima pullulante di spie e poteri segreti - una feroce, occhiuta, insidiosissima tirannia di poche famiglie, travestita da Repubblica - divulgata in età moderna soprattutto dalla celebre Histoire du gouvernement de Venise di Amelot de la Houssaye, testo ricordato nelle lettere italiane soprattutto per la confutazione che ne fece Giacomo Casanova in difesa delle istituzioni repubblicane di Venezia.

Che tutto ciò sia storicamente fondato o meno, è evidente che ci troviamo avvolti in una delle tenebrose e intramontabili "storie italiane" (intrighi, congiure, vendette, veleni) che fornirono sfondi e trame alla drammaturgia elisabettiana e giacobita e al romanzo gotico prima che al dramma romantico. Che fosse un soggetto ricco d'interesse lo dimostrano anche le tele di Francesco Hayez ad esso ispirate (Il doge Marino Faliero accusa il giovane Steno; Gli ultimi momenti del doge Marino Faliero), riprodotte nell'ottimo ed esauriente programma di sala della Fenice, che contiene molta documentazione e gli scritti di Michele Giraldi, Giorgio Pagannone, Gianni Ruffin, Paolo Fabbri, Francesco Bellotto, Guido Paduano, Roberto Campanella, Mirko Schipilliti, nonché la versione originale del libretto di Emanuele Bidera a cura di Maria Chiara Bertieri.

D'altra parte, l'opposizione nobili/popolani in un'antica repubblica italiana, l'avere al proprio centro una figura storica possente e controversa, fa del Marino Faliero una sorta di opera politica e di antecedente diretto del Simon Boccanegra. Ma nel Boccanegra il dramma della storia si risolve nel tema tipicamente verdiano della paternità, e la morte di Simone è serena sullo sfondo di una città pacificata. Invece alla fine del Faliero troviamo un nodo di insormontabile amarezza: il popolo è stato schiacciato, il protagonista, mentre si appresta a salire sul patibolo, deve affrontare una durissima verità, la rivelazione dei sentimenti traviati della propria giovane moglie. Pochi finali d'opera sono così poco consolatori: l'opera si chiude con una sorta di confessione di impotenza del belcanto, tagliando dalla scena finale Faliero - Elena la cabaletta del soprano prevista nel piano originario. La dilatazione del ritmo drammatico che sublima la tragedia in melodia è impedita, e al pubblico non resta che aspettare, assieme all'ammutolita Elena, la scure che, ovviamente fuori scena, tronca la testa al Doge.

Non è solo questo finale a risultare anomalo rispetto alle "convenienze teatrali": i critici parigini rilevarono con disappunto che il tenore, che oltretutto era il famoso Rubini, moriva troppo presto; che il colore del Faliero era troppo cupo ed uniforme; che non si può fare un atto intero (il secondo) senza donne; che le motivazioni politiche avevano troppo spazio a scapito dell'amore. Ma la politicità del Faliero, non gradita ai critici né al pubblico, qualcuno doveva pur apprezzarla. Si ascolta il Faliero e ci si ritrova a pensare alla Parigi delle Tre Gloriose Giornate del luglio 1830 immortalate da Delacroix, dei moti del giugno 1832, quelli sulle cui barricate muore Gavroche nei Miserabili; la Parigi degli esuli italiani, dei fuorusciti di spicco, come Carlo Pepoli (il librettista dei Puritani), Mario de Candia e Gustavo Modena. Infatti Giuseppe Mazzini, nella Filosofia della musica (Parigi 1836; l'edizione moderna è a cura di Marcello De Angelis), lodò l'opera, in quanto molto corale, molto "filosofica" (che, nel lessico critico del tempo, significa capace di esprimere tensioni etiche, passioni, conflitti più ampi e universali rispetto ai soliti nodi amorosi), tale da articolare meglio la morfologia musicale consueta, lasciando spazio al declamato più che all'aria, dunque alla definizione aperta e accurata della psicologia e delle motivazioni dei personaggi.

Dietro al Marino Faliero sembra dunque di intuire un ambiente teatrale e politico che ha orecchiato o condiviso con ardore certe battaglie (teatrali e non solo), e cerca di riportarne i contenuti anche nell'opera italiana. E' evidente il tentativo di mescolare, alla Victor Hugo, le carte dell'invenzione, alla ricerca di una sorta di Sublime storico capace di abbracciare un po' tutto, velocizzando la sceneggiatura del dramma, valorizzandone la coralità, sfruttando il "colore dei tempi", giocando arditamente sui contrasti (come rilevò Giuseppe Mazzini lodando "il ballo veramente de' tempi nel finale dell'atto primo, a cui s'intreccia con tanta scienza il dialogo declamato fra Faliero e Bertucci"), e azzardando, fra i tanti registri, anche quello "popolare" degli arsenalotti capeggiati da Israele Bertucci. Tutto questo si traduce in un taglio drammaturgico indubbiamente interessante, che sul piano musicale si realizza peraltro in un'adesione ancora profonda all'istanza belcantistica, e soprattutto in una morfologia che resta pur sempre quella: la famosa "solita forma" in quattro tempi (tempo d'attacco - cantabile - tempo di mezzo - cabaletta), buona da Rossini al Verdi della trilogia popolare e oltre, ancorché camuffata, velocizzata (però anche capace di digressioni e omaggi, come il fuoriscena del gondoliere che ricorda l'Otello di Rossini), arricchita di risposte corali e intrecci di dialogo.

Ma bisogna pur ammettere che il Marino Faliero ha molti limiti. Lasciamo pure da parte la versificazione banale e velleitaria del libretto, soprattutto nella parte di Israele Bertucci e nei cori degli arsenalotti cospiratori, fin dal coro d'apertura: "Issa, issa, issa là": soprattutto alla mano di Ruffini dobbiamo ascrivere una vera orgia di ottonari pesantemente cadenzati, come se risultasse particolarmente difficile da maneggiare e tradurre in linguaggio operistico proprio quella componente politica, popolare, di opera corale, che Mazzini lodò e i recensori francesi criticarono. "Gli Ungheresi ! gli Ungheresi ! / Da ogni lato ecco siam presi" (atto I, scena 1°); "Siamo vili e fummo prodi / quando in Zara quando in Rodi" (atto III, scena 7°): roba così (per questo sua prima opera scritta espressamente per Parigi, il povero Donizetti aveva desiderato invano un libretto da Felice Romani...). Ma anche volgendoci alla musica, è come se questa sanguigna miscela da dramma storico incalzasse troppo da vicino l'invenzione musicale, a cui mancano proprio le geniali trasfigurazioni musicali e il colore autentico, psicologico prima che storico, di una Lucia di Lammermoor; che verrà del resto a pochi mesi dal Faliero, quando Donizetti il proprio romanticismo nervoso e visionario lo farà meglio vibrare per simpatia con le corde più distese, più malinconiche ed elegiache, del romanzo di Walter Scott.

Quella vista al Malibran è un'edizione complessivamente pregevole. Bruno Campanella è un direttore molto pratico, di passo complessivamente spedito e di mestiere sicuro, ma non tale da saper imprimere respiro, flessuosità, poesia, insomma "necessità", al succedersi degli accompagnamenti e degli schemi ritmici usuali della già citata "solita forma", che proprio perché è la solita andrebbe sempre reinventata... La messinscena non badava a stupire ma funzionava. La lineare regia di Daniele Abbado sbrigava senza crucci ma con la consueta chiarezza i nodi drammatici più difficili, ad esempio il sovrapporsi delle azioni nella scena della festa (trovando il tono giusto per le sue inquietanti atmosfere), e ricorreva ad un mezzo semplice ma eccellente per suggerire l'ambientazione veneziana: un fondale trasparente su cui le azioni dei personaggi e del coro si riflettevano in un tremolìo come di acque. Le scene di Gianni Carluccio e i costumi di Gianna Teti realizzavano un'equilibrata miscela fra un gusto linare e moderno dell'allestimento e le suggestioni dell'immaginario pittorico gotico-romantico.

E veniamo al cast. Le quattro parti principali del Marino Faliero furono scritte per il famoso "quartetto dei Puritani", ossia il soprano Giulia Grisi (Elena), il tenore Giovan Battista Rubini (Fernando), i bassi Luigi Lablache (Faliero) e Antonio Tamburini (Israele Bertucci, propriamente un baritono). Come notava Mazzini l'originalità del Faliero sta anche nel "filosofico" (vedi sopra) e grandioso confronto fra i due personaggi di Faliero e Bertucci, il doge e il popolano, e l'esecuzione si giovava molto del contrasto fra due voci e maniere di cantare: intenso, fosco, amaro, ma sempre composto, Michele Pertusi, più estroverso e sanguigno, più "baritono", Roberto Servile, tutti e due in ottima forma vocale. Mariella Devia è stata un'Elena semplicemente splendida: totalmente a suo agio nella prestazione belcantistica, in cui riesce a farci vivere le emozioni della perfezione, esaltandole, oggi più che mai, in un perfetto dosaggio di accenti e di acmi; mantenendo quel che di delicato, malinconico e lunare che la sua voce ha sempre avuto, ma avvalendosi con maestria dell'intensità dei "centri" che anno dopo anno si stanno naturalmente e magnificamente rafforzando. Rockwell Blake doveva qui realizzare un ruolo creato su Rubini, cantante legato alla tipologia tenorile preromantica, o meglio pre-Gilbert Duprez (acuti non di petto, agilità, grazia); d'altra parte Blake, divenuto famoso, non a caso, distinguendosi nella pirotecnica vocalità rossiniana, non ha oggi eleganza, distinzione, bellezza timbrica e intelligenza scenica sufficienti a contrastare l'usura del tempo e la qualità oramai spiacevole di certi fasetti. Con tutto ciò abbiamo ammirato la solidità di nervi e il professionismo con cui Blake, contestato fin dalla prima cabaletta dal pubblico (che come al solito in Italia ai tenori non lascia passare niente), ha tenuto duro per tutta la recita. Molto bene anche Enrico Giuseppe Iori (Steno) e Massimiliano Tonsini (Leoni). Ottimo successo.

© Drammaturgia.it - All rights reserved

 

Forum Opéra
Venise, 20 & 22/06/03

Laisse les gondoles à Venise

par Placido Carrerotti

En janvier 2002, le Teatro Regio de Parme créait l'événement en remontant dans une distribution exceptionnelle le rare Marino Faliero de Gaetano Donizetti. On ne peut que féliciter La Fenice d'avoir saisi au vol cette reprise et de nous la proposer dans le cadre sobre, mais intime du Teatro Malibran, dans la même mise en scène et avec le même "carré d'as" vocal qu'à Parme. Quoique reprise sporadiquement, l'oeuvre est loin de faire partie des standards de la Donizetti Renaissance; aussi est-il nécessaire d'en résumer l'intrigue.

L'action s'articule autour de quatre protagonistes et deux rôles mineurs vocalement, mais importants sur le plan de l'intrigue. Celle-ci dérive d'épisodes historiques totalement sans rapport qui remontent à 1354 (l'honneur de la femme du Doge mis en doute par le jeune patricien Steno) et 1355 (une révolte populaire). Marino Faliero est le Doge : c'est un homme mûr (historiquement, il est élu à 70 ans) qui connut son heure de gloire à la bataille de Zara. Elena, sa femme, a eu quelques faveurs (lesquelles ? ce n'est pas bien clair au début) pour Fernando Faliero, neveu du Doge. Israele Bertucci, chef de l'Arsenal et conspirateur en devenir, représente ici le Peuple, scandalisé du comportement de l'élite patricienne; c'est un ardent partisan du Doge qu'il suivit à Zara. L'action démarre alors que Steno (amoureux éconduit d'Elena) vient de commettre une inscription injurieuse à l'égard de celle qui l'a rejeté, mettant en doute sa fidélité au Doge (ce qui n'est pas faux ...). Ce même Steno s'attire l'inimitié des ouvriers de l'Arsenal quand il leur reproche de ne pas avoir terminé sa gondole alors que tous travaillent sans relâche à la réparation de bateaux de guerre. Outré, Israele, après s'être remémoré le passé (air) jure de se venger des patriciens (cabalette). A la scène suivante, nous découvrons Fernando: ne pouvant supporter l'outrage fait à la Dogaresse (air), il a décidé de quitter Venise (cabalette [1]). La Dogaresse a le bon goût d'arriver à ce moment là, ce qui nous vaut ... un beau duo étranger à la progression de l'action et au terme duquel on en reste là: Fernando s'en va et tout le monde est bien triste. De son côté, le Doge n'est pas content : l'insulteur Steno a été identifié, mais sa condamnation est ridiculement légère, une preuve supplémentaire du mépris des patriciens (guidés par Leoni) envers ce Doge. Israele vient alors conter ses griefs envers le même Steno : hélas, comment le Doge pourrait-il lui rendre justice alors qu'il ne peut le faire pour lui-même? A l'issue du duo [2], Israele convainc le Doge de participer au complot que ses partisans élaborent : rendez-vous au Palais de Leoni, à l'occasion du bal masqué organisé le soir même par celui-ci. Steno, pourtant condamné à un bref exil, s'est invité au bal et se fait connaître de Leoni (ça ne le gêne pas plus que ça). Israele et Faliero complotent : le plébéien a près de 300 hommes derrière lui (dont Beltramo, un sculpteur un peu louche) . Rendez-vous est fixé pour le soir même. Elena arrive sur ces entrefaites. Un homme la suit depuis son arrivée au bal; on découvre bien vite qu'il s'agit de Steno ; ceci qui nous vaut un bel ensemble (comparable au sextuor de Lucia) au terme duquel Fernando provoque Steno en duel. Celui-ci se tiendra la nuit même, et par une coïncidence hautement opératique, à proximité du lieu de rendez-vous des conjurés.

A l'acte II, après air et cabalette du ténor, Fernando et Steno se massacrent joyeusement : pendant ce temps, les comploteurs complotent (air de Faliero) jusqu'à ce qu'on découvre les combattants et que Fernando meure dans les bras de Tonton (cabalette). A l'acte III, Faliero annonce la nouvelle à son épouse qui réagit comme il se doit [3]. Dans la scène suivante, Leoni annonce qu'un complot met en péril les patriciens : c'est en fait un piège (les conjurés ont été entre temps trahis par Beltramo) et le Doge se dévoilant comme conjuré, signe ainsi sa perte. A l'issue d'un rapide jugement, Israele (air) est condamné à mort (cabalette) avec tous les conjurés. Le Doge aussi (air et ... pas de cabalette); avant de mourir, il aura le temps d'apprendre, de la bouche même d'Elena, son infortune conjugale : bon Doge, il pardonne après un premier moment de colère. Quand on lui coupe la tête, sa femme tombe évanouie et le rideau tombe, histoire de frustrer ceux qui misaient sur une scène de folie finale.

Comme on le voit, on peut affirmer avec une probabilité avoisinant la certitude, que Gérard Mortier ne montera jamais Marino Faliero à l'Opéra de Paris (ni même dans le cadre du Festival de la Ruhr, d'ailleurs).Pour une fois, on ne lui en voudra pas complètement : l'oeuvre, malgré les beautés et les originalités [4] manifestes que détaille Yonel Buldrini dans son analyse, souffre de deux maux bien réels. Le premier, c'est un livret compliqué où l'exposé des situations se fait au détriment de l'évolution des personnages:

Fernando est amoureux,
L'insipide Elena devient hystérique pour sa grande scène
Israele n'aime pas les patriciens,
Le Peuple n'arrête pas de râler,
Et le Doge est cocu (actes I, II, III et IV s'il y en avait un)

Difficile dans ces conditions d'accorder beaucoup d'intérêt à des personnages aussi monolithiques et mal construits. Le second, c'est la musique de Donizetti : sans doute peu inspiré par ce livret anti-dramatique, le grand Gaetano construit une partition dont les originalités mêmes viennent mettre en évidence la convention. Si on est surpris d'entendre du "jeune Verdi" (certains passages préfigurent étonnamment Attila), on préférerait quand même entendre ... du Donizetti! A l'inverse, les cabalettes de Fernando flirtent effrontément avec Rossini (l'interprétation de Blake n'y est pas non plus pour rien). Enfin, mélodiquement parlant, on est loin de Lucrezia qui pourtant le précède immédiatement. A ces réserves près, il faut bien reconnaître que l'on passe une soirée assez exceptionnelle, tant est grand l'engagement des interprètes envers l'ouvrage.

A tout seigneur tout honneur: j'avoue que Michele Pertusi m'a surpris. Insolence vocale, projection, beauté et autorité de la voix, aigus généreux, variations intelligentes et audacieuses ... voilà un chanteur qui progresse à son rythme (je l'avais entendu pour la première fois en 1989 face à Joan Sutherland et Alfredo Kraus dans de mémorables Lucrezia justement), et vers les plus hauts sommets. Peut-être découvrirons-nous en lui dans une dizaine d'années le "mieux chantant" des Philippe II...[5] Que dire de Rockwell Blake, sinon qu'il ne peut être comparé ... qu'à Rockwell Blake. Le critique est impuissant à décrire un art vocal de ce niveau [6]. Même si une légère baisse vocale est indéniable (les aigus sont moins généreux, le souffle un peu plus court qu'il y a 10 ans, le grave un rien fragile [7]...), qui donc est capable de sortir des ré bémol avec la facilité d'un sol chez Domingo, ou d'enchaîner les vocalises sans sembler jamais reprendre sa respiration ? Et que dire de ces variations stupéfiantes ou de cette virtuosité dans le jeu des registres de tête ou de poitrine? Enfin, si la voix est moins puissante, elle suffit amplement dans le cadre du Teatro Malibran. Mariella Devia est une Elena de très grande classe et on reste confondu devant une telle aisance vocale : certes, la tendance à couvrir systématiquement les sons est un peu frustrante, les suraigus sont plus rares que par le passé ... mais la voix a gagné en épaisseur dramatique et les vocalises restent hallucinantes. Sutherland est plus impressionnante ? Les sons filés et le timbre de Caballé sont supérieurs ... Peut-être: en attendant, c'est aux plus grandes que l'on doit comparer Mariella Devia. En putchiste, Roberto Servile est un chanteur frustre en situation: même si cela gène moins le personnage, on attendrait quand même un chant d'une autre qualité dans ce contexte musical; la vocalisation est imprécise (à la première, Servile frôle le désastre à son entrée, obligé de marquer de la main le tempo dans l'espoir de chanter en mesure avec l'orchestre). Parmi les seconds rôles bien tenus, mentionnons Massimiliano Tonsini, excellent en Leoni : je ne sais pas si ce chanteur saura ultérieurement aborder de grands rôles, mais nous serions amplement satisfaits si nous trouvions en lui un nouveau Piero di Palma. Enfin, les choeurs sont proprement exceptionnels, avec un Conseil des Dix qui résonne comme 100!

Les choses se gâtent un peu avec l'orchestre. Sans gâcher le spectacle, Campanella reste inférieur à ses interprètes, besogneux là où l'on attend des nuances, sans toutefois être franchement mauvais. C'est d'autant plus dommage qu'il dispose d'un orchestre de grande qualité (on est loin de La Fenice d'il y a 20 ans), carrément irréprochable pour cette série.

La mise en scène, assez conventionnelle, a le mérite de donner un maximum de consistance dramatique à l'oeuvre. En ce qui concerne les décors, les plus beaux sont directement inspirés de l'Otello de Pier Luigi Pizzi. En définitive, le grand mérite de ce spectacle, c'est de finalement nous prouver que tous les ouvrages de Donizetti méritent certainement une reprise de qualité : malgré ses défauts, Marino Faliero demeure une belle oeuvre recelant quelques perles uniques du génie donizettien qui valent d'être sorties de l'ombre.

----------
[1] D'accord, c'est pas tout à fait ça mais c'est l'esprit...
[2] A quoi tiennent les révolutions!
[3] C'est à dire par un air suivi d'une cabalette.
[4] Contrairement à ce que pourrait laisser supposer mon bref exposé, la partition recèle maintes surprises.
[5] J'ai l'air de prendre des risques, mais dans 10 ans, qui se souviendra de cette critique !
[6] Je ne peux pas ne pas faire le rapprochement avec le chant d'Alfredo Kraus: avec le temps, celui-ci perdait en souffle et en richesse de timbre mais, de la même manière, progressait dans sa maîtrise vocale, touchant lui aussi, quoique dans un ordre différent, au sublime. A noter toutefois qu'une poignée de spectateurs ont injustement chahuté Blake à l'issue de a première cabalette : sans doute une conséquence stupide d'un anti-américanisme de saison...
[7] Dans les rôles trop exposés dans le grave, Blake peut avoir tendance à "graillonner": peut-être est-ce la raison pour laquelle la seconde s ne comprend qu'un couplet, ornementé directement dans l'aigu?

 

mundoclasico
4 de Julio 2003

Anibal E. Cetrángolo
La gran ocasión para Marin Faliero

Un tipógrafo monárquico francés escapa de los revolucionarios de 1789. Encuentra aún un ambiente borbónico en Nápoles. Allí se establece y forma familia. Nace un hijo que, a fuerza del aire local, será cantante de opera: Luigi Lablache. Luigi formará parte de un cuarteto ideal que con sus límites y sus excelencias habrá de condicionar agudos, los graves, los virtusismos y los fiatti que para sus personajes escriben Vincenzo Bellini y Gaetano Donizetti. Para el grupo formado por la soprano Giulia Grisi, el tenor Giovanni Battista Rubini, el baritono Antonio Tamburini y el bajo Luigi Lagrache, Bellini escribirá a medida I Puritani, que se presentará en 1835 en el Théâtre des Italiens; y Donizetti Marin Faliero, su ópera de presentación en Paris, que subirá al mismo escenario apenas tres meses después que la opera del siciliano. Donizetti es ayudado en esta empresa (¡estos italianos!) por Rossini. El libreto será del novato Giovanni Emmanuele Bidéra. Donizetti encuentra para Marin Faliero un Labrache célebre, pero ya cansado y su protagonista responderá a tales características: el doge Faliero morirá decapitado después de haber dicho muchas cosas pero sin haber cantado grandes arias.

Una gran oportunidad

Por todo esto, apenas supimos que La Fenice había programado este titulo sentimos una enorme curiosidad para ver 'de qué se trataba' y corrimos al Teatro Malibran, donde la chamuscada ave provisoriamente reside, para ver esta última representación veraniega.

¿Quien tiene razón? Era la gran pregunta. El olvido en olvidar o la Fenice (y no sólo para ser justos) en reponer este titulo. El reparto prestigioso, de todas maneras, nos hacia desear una previsora grabación en vivo de cuanto estábamos por escuchar por parte del resucitante teatro veneciano. Nunca mejor dicho: tal operación habría de cubrir una laguna en el mercado discográfico. La producción veneciana compartía la responsabilidad con el Regio de Parma, que cuidó el allestimento.

Vayan dos palabras sobre el argumento de esta ópera que aprovechaba y nacía de un éxito teatral sobre el mismo tema: la tragedia que en 1829, siempre en Paris, había presentado Casimir Delavigne. Marin Faliero es el dux y estamos en 1335. Es el bajo y está casado con la soprano (Elena), que es una buena persona pero ama (en secreto) al tenor (Fernando). Marin Faliero (el esquema tan ibérico del rey aliado con su pueblo contra los nobles arrogantes) es amado en las tabernas: es un ex-héroe de guerra (conquistó Zara para los venecianos). Al lado de esta relación Dux / pueblo están los nobles, que en Venecia, con dos grupos colegiados, equilibran el poder. Un miembro de este grupo patricio (Steno: barítono y resentido) tiene problemas personales y políticos con los anteriores. Fue rechazado por Elena y sabe lo que no tendría que saber: Steno primero insulta al dux, quien ignorando mayores detalles entiende perfectamente cual es la zona de su personalidad que esta en juego ('Come l'onta lavar della mia fronte?'), y después humilla al jefe del arsenal porque no tenia lista una góndola. Obreros y dux deciden organizar un golpe (populista y, a no olvidar, anti republicano). La gran conspiración tiene como fondo un baile en casa de otro noble, Leoni. Como si esto fuese poco, contemporáneamente a la revuelta, se desarrolla un duelo entre Fernando (que defiende el honor de su amada) y el malvado Steno. Fernando cantará una frase que tendrá (pocos meses después) destinos donizettianos análogos en boca de otro tenor moribundo: 'Tombe degli avi miei...' (la celebérrima Lucia, siempre en 1835, 'nacerá' en Nápoles entonando versos del prestigioso Salvatore Cammaranno). Los nobles vencen. Faliero es condenado y antes de morir se despide de su mujer que le confiesa su culpable amor por Fernando. El dux (lírico destino de bajo ex- poderoso) la perdona antes de ser ejecutado y perder la adornada testa.

Notable escenografía

Vamos a cuanto vimos y escuchamos en el Malibrán. Ante todo una constatación: esta ópera debe pertenecernos y de manera cotidiana. Hay dúos, arias de la soprano (¿y del tenor?) que deberían formar parte del repertorio de los solistas de ópera. El argumento tiene toda la tensión que un tema que interesó a Delacroix y a Byron. La versión, en muchos sentidos, fue memorable. La dirección musical de Bruno Campanella fue muy digna y la conducción escénica de Daniele Abbado respetó y entusiasmó. El trabajo del reggisseur fue original y justificado, y eso, con los tiempos que corren es, por lo menos, sorprendente. Un fondo ondulante y que reflejaba y aludía a la Venecia turbia e intrigante que los románticos amaban. Ingeniosos movimientos de paneles creaban juegos de dentro / fuera con eficacia y sorpresa, dos elementos que son la esencia del teatro: nada fue gratuito. La idea de los autores de esta ópera fue servida de manera excelente por Abbado continuando la danza incluso cuando la didascalia del libretto no lo exigia y trabajando siempre con infalible intuición de dramatúrgia musical

En esa escena de complot y baile de fondo parecía que teníamos como compañeros de palco a Somma y a Verdi tomando apuntes para Ballo. Tal delicia en el Malibrán hacía recordar el ambiente que Kubrick consigue en Eyes wide shut. Los operadores escénicos de esta versión imaginan un siglo XIV sin exagerar con la filología: los nobles del Consiglio dei dieci parecen austriacos de la época de la ocupación de Venecia, los soldados recuerdan los uniformes de la SS y Steno, con capa larga y cabeza engominada, se parece muchisimo a De Niro en Angel heart. Dio la sensación que el movimiento de los solistas fue librado demasiado a la iniciativa personal lo que en algún caso fue bueno y en otro no.

Marin Faliero sin tenor

Vamos al reparto. Escuchamos y vimos con verdadero entusiasmo a los dos protagonistas de esta ópera y esto ya es mucho. Michele Pertusi canta su larguísima parte con absoluta solvencia vocal y escénica. Se está constantemente en presencia de un gran artista que permite adagiarsi en sus medios de intérprete con tranquilidad y confianza. Ellos son un puente seguro y sobre ellos, Pertusi nos lleva de la mano a conocer una obra de arte. Ante gente así uno puedo solamente disfrutar. ¿Qué decir de la grande, grandísima Mariella Devia? Es, con toda seguridad, una de las mejores cantantes de estos años y especialmente su Donizetti es siempre esperado con ansiedad. Los nostálgicos de la ópera, ante cantantes así, non tienen más remedio que aceptar que la Devia y otros pocos como ella, pertenecen a otra época, a 'aquella época'. Hay algún agudo tirato, pero siempre en medio de una línea de canto infalible, musical y llena. Sabe lo que es el teatro y se añoraban los momentos en que el libreto la hacía estar con su marido.

¡Bellísimo el final!

¡Qué dificil hablar de Rockwell Blake! El norteamericano es cantante de gran trayectoria. Antes de escribir este texto consulto cuanto mis colegas han escrito sobre esta página: el programa asegura triunfos suyos en La Coruña. Todo esto me impone tratar de ser muy parco en esta difícil obligación de hablar de él. Creo que lo menos que puedo escribir sobre su Fernando es que arruinó este Marin Faliero. Su vocalidad y su movimiento escénico pertenecían a otro mundo que no era el del teatro de ópera sino al del cabaret que desde el Village caricaturiza al Met. Apenas escrito esto me apresuro a decir que la parte es tremenda y que esta dificultad puede haber descentrado totalmente al intérprete en su trabajo porque todo era olvidable. Sea claro no son ni los falsetti ni los agudos tirati lo que molestan: la emisión sin apoyo y la artificiosidad en abordar la nota eran difícilmente descriptibles.

El Israele de Roberto Servile fue cantado con fervor, pero la voz no tenía cuerpo. Esto no impidió momentos de gran intensidad en su trabajo, como el hermoso dúo con Faliero 'Odio, sdegno, vi sento, vi ascolto.' Muy bien el Steno de Enrico Giuseppe Iori y excelente el tenor Massimiliano Tonsini que, con bella voz, canta la parte secundaria de Leoni, haciendo esperar en él una carrera brillante. Bien los otros roles. Excelente el coro y muy bien la orquesta.

En corredores alguien del teatro nos habla de una posible edición en dvd de este Faliero. Esperemos sea cierto. Usaremos poco el avance veloz y ya pueden imaginar cuándo. Una última palabra para el excelente volumen, que incluye no solamente el libreto, que La Fenice entregaba con esta función, sino también documentos gráficos de gran interés y muestra textos de altísimo valor firmados por Paolo Fabbri, Michele Girardi, Francesco Bellotto y Guido Paduano, así como aparatos cuidados por Giorgio Pagannone, Gianni Ruffin, Roberto Campanella y Mirko Schipilliti.

Un clamor por la investigación

En este momento va un pedido a la solidaridad de nuestros lectores: los amigos atentos de Mundoclasico.com saben que este diario integra un gran proyecto sobre el fenómeno de la migración y la ópera (quien quiera saber más, escriba Imla en el buscador de esta página). Gracias a ese proyecto, que pone en contacto investigadores ubicados en las Américas y en Europa, hemos hallado muchísimas agujas en los pajares más disparatados. Y bien, una de esas agujas es ésta: encontramos que cierto bajo Lagrache en 1866 cantaba óperas en Caracas. Este señor es citado por los excelentes Daniele y Brito Stelling, que no encuentran su nombre de pila pero sí descubren que actúa con una soprano llamada Braida de Lagrache, seguramente su mujer. El Lagrache de Venezuela no es el que cantó Marin Faliero en Paris (ya había muerto ocho años antes) pero... estoy convencido que algún amigo curioso, venezolano o no, nos podrá ayudar a perfeccionar estos datos y descubrir otro de los tantos circuitos que estamos encontrando gracias a la red de investigación. A propósito, este título de Donizetti, ahora extrañísimo en nuestros teatros, era en el siglo XIX uno de los que más se cantaban y es uno de los que más frecuentemente encontramos en las cronologías no sólo en Europa sino en América Latina. Tanto para no salir de Caracas, la ópera de Donizetti llega alli en 1843.

Venecia, 29 de junio de 2003

 

Opera News Online
SEPTEMBER 2003
Vol. 68, No. 3

VENICE: MARINO FALIERO

Marino Faliero marked Donizetti's Paris debut, which took place in 1835, not long after the premiere of Bellini's I Puritani, with which it shared a stellar cast. Marino Faliero did not match Puritani's success, but it was appreciated by the exiled republican Giuseppe Mazzini, and one can understand why: no other Donizetti work so clearly looks forward -- particularly in its cabalettas -- to the rousing Risorgimento spirit of Verdi's early works, and the fact that the Doge Faliero joins the populace of Venice in rising (unsuccessfully) against a corrupt oligarchy clearly was perceived at the time as a political statement. The plot, however, is too confused to have a similar effect today, and the love story that intertwines with the affairs of state (Faliero's wife, Elena, is in love with his nephew, Fernando) is equally awkward in its pacing and motivation. And while the music is clearly crafted with the confidence of a mature composer, it never attains the consistently inspired level of Donizetti's major works -- or so it seemed, as staged by La Fenice at the Teatro Malibran (seen June 29).

The production by director Daniele Abbado and designer Gianni Carluccio, set in a singularly gray Venice with costumes of varying epochs, lacked conviction throughout, and the cast, though prestigious, failed to bring the characters to life. As Fernando (originally sung by Rubini), Rockwell Blake did some appropriately spectacular singing, including a stratospheric messa di voce, and displayed remarkable reserves of breath; he was vociferously applauded by some in the audience. However, nothing in his timbre, phrasing and stage deportment suggested a man sincerely in love; indeed, his preening stage presence and continual, mannered nudging at the vocal line lent the character a strangely sinister, sarcastic dimension. Mariella Devia's Elena was less out of focus, but although her virtuoso technique enables her to overcome even the most formidable obstacles of an extremely difficult role, the voice tends to become blowsy and even jittery in loud passages (and there are many), and she expressed genuine pathos only when she kept to her still-beautiful mezza voce.

Baritone Roberto Servile used his bluff, vibrant tone to slightly wearying effect in trying to lend credibility to Israele, a fiery supporter of Faliero's, sentenced like him to death in the end. Michele Pertusi proved dignified but unmemorable as the Doge himself, his bass-baritone voice too soft-grained in the lower reaches to project imposingly in ensemble. The chorus seemed unconvinced, and Bruno Campanella's undeniably flexible accompaniments lacked persuasiveness in intimate scenes.

STEPHEN HASTINGS

Copyright © 2003 The Metropolitan Opera Guild, Inc.

 

Il Giornale della Musica
Parma, 2 gennaio 2002

Il Marin Faliero ritrovato

di Alessandro Rigolli

La nostra recensione. Ormai archiviate le celebrazioni verdiane dello scorso anno, il Teatro Regio di Parma ha aperto la stagione lirica invernale 2002 con il recupero del Marin Faliero di Donizetti, opera di rara esecuzione che nel 1835 ha portato la musica del compositore bergamasco a Parigi, grazie al diretto interessamento di Rossini, allora direttore della musica e della scena del "Théatre Italien". Un'operazione contornata da una meritoria azione divulgativa, concretata nell'incontro che ha preceduto di una decina di giorni la prima di ieri sera, rappresentato dal convegno internazionale di studi titolato, appunto, "Attorno a Marin Faliero". E quanto sia valsa la pena soffermarsi a levar la polvere delle pagine di quest'opera è emerso in maniera concreta e tangibile da questo nuovo allestimento parmigiano, caratterizzato da una lettura musicale e drammaturgica complessivamente efficace. Originariamente ambientato nella Venezia del 1355, il Marin Faliero narra la vicenda del protagonista, Doge della città lagunare, che si trova, in una rigorosa unità di tempo che abbraccia un'intera notte, a perdere il potere - a causa di una sommossa da lui stesso caldeggiata ai danni dell'aristocrazia rappresentata dal Consiglio dei Dieci - l'amata moglie, amante di suo nipote Fernando, il nipote stesso e la propria vita. Un dramma completo, insomma, con ben miscelati i contenuti amorosi e patriottici, ma che nell'economia complessiva della resa scenica pare far emergere quale vera protagonista - e a discapito di una presenza scenica in partitura alquanto sacrificata - la moglie del Doge, Elena. Infatti, è lei che, alla fine, rimane in scena, sola, senza il marito, senza l'amante. Dichiarando in extremis la propria infedeltà a Faliero - il quale, prossimo alla morte, magnanimo la perdona - Elena perde anche la nobiltà dell'onore, conservata al contrario dal Doge che accetta (più eroico che stoico) il supplizio. Significativo in questo senso il fatto che Donizetti ha riservato proprio per la voce di soprano di Elena alcune della pagine più intense dell'intera opera, in quest'occasione interpretate da una Mariella Devia che è riuscita a rendere a pieno la disperata solitudine del suo ruolo, animata dalla struggente impotenza di una donna che vede la propria vita sfaldarsi, sciogliersi nell'arco di poche ore. Una tessitura impegnativa quella della protagonista, a tratti impervia, come peraltro quelle dell'intero quartetto dei protagonisti. Ecco, quindi, il Faliero tratteggiato con convinzione da Michele Pertusi, la cui voce di basso ha saputo rendere evidente la nobiltà del personaggio, delineata attraverso un controllo vocale sempre puntuale ed efficace, affiancato da Raffaele Servile, un Israele Bertucci (guida dei sovversivi) intenso nel ruolo univoco del patriota, e da Fernando che ha preso corpo grazie alla bella voce di tenore di Rockwell Blake, il quale ha fatto fronte ad una tessitura irta di virtuosismi con sicura padronanza. Il dato musicale è stato gestito dalla direzione di Ottavio Dantone attraverso una scelta di tempi adeguata, ma soprattutto con un gusto per il suono e per gli equilibri coloristici particolarmente curato, assecondato dalla resa dell'orchestra e del coro del Regio di Parma. Interessante la regia di Daniele Abbado, che ha trovato negli spazi ampi ma lividi ed essenziali delle scene di Giovanni Carluccio, soluzioni efficaci per far muovere - nei bei costumi di Carla Teti - i personaggi (eccezion fatta per le forzature coreografiche di Giovanni di Cicco), riflessi sul grande specchio inclinato che sovrastava il palcoscenico, quasi a rievocare il liquido sguardo della laguna che, impassibile, vede scorrere nella calma piatta delle sue acque immobili il dramma che si consuma tra i suoi canali. Convinto e caloroso il successo decretato dal folto pubblico.