CORRIERE DELLA SERA
lunedì, 8 dicembre 2003

IN PLATEA
L'esaltazione del coro e una nuova tenerezza
Il regista Ronconi interpreta il lavoro come una tragedia classica, ma la coreografia è deludente

di Paolo Isotta

Troppo spesso ho sentito farmi un'osservazione da musicofili veri o presunti. Una parte di loro desidera ascoltare quel che già conosce; paga il biglietto per l'Opera o la Sinfonia che ha già sentito. Si ribella anche solo quando un interprete metta in programma un capolavoro classico da troppo tempo non eseguito: ossia adempia un suo preciso dovere di coscienza.

Ogni anno la stessa solfa: e che cos'è questa Ifigenia, ma perché quello scocciatore di Muti va cercando cose che piacciono solo a lui, noi vogliamo una bella Bohème, etc.; i più perversi si spingono a richiedere una delle più abominevoli partiture mai scritte, La Gioconda di Ponchielli. Muti ha questo brutto difetto di “andare scavando” roba vecchia e inutile: tuttavia ciambelle col buco gli riescono quasi sempre. Così l'Ifigenia fu uno dei suoi massimi trionfi personali, beninteso a Milano, così stasera il Moïse, come per buona creanza filologica siamo costretti a chiamare il vecchio caro Mosè. Si noti trattarsi in ambedue i casi di opere corali, ove la preghiera e l'invettiva e lo stupore sono espresse da interi popoli simboleggiati dal coro. Proprio dal coro vogliamo incominciare questi frettolosi appunti dettati dopo la fine dello spettacolo, giacché la perfezione tecnica alla quale l'ha portato il maestro Casoni si accompagna, in questo Mosè, a una gamma quasi infinita di sfumature timbriche e dinamiche, di accenti d'espressione, di trasparenza e violenza. Non v'ha dubbio che il matrimonio Muti-Casoni sia tra i meglio riusciti al mondo.

La tradizione interpretativa del Mosè, che ha avuto la ventura di passare quasi sempre sotto grandi bacchette, tende a concepirlo come un possente blocco oratoriale. Domani spiegherò meglio come il maestro Muti, avuto riguardo allo sviluppo delle psicologie individuali, alla foga alterni una delicatezza e una tenerezza sia tecniche sia espressive che innovano assai rispetto alla tradizione suddetta. Lascio immaginare che ovazione sia scoppiata dopo un “Dal mio stellato soglio” diverso da tutti quelli prima ascoltati, col protagonista Ildar Abdrazakov che attacca la prima strofe con uno struggente pianissimo.

La concertazione dei “ballabili”, che ricordiamo per inciso essere tra i fondativi del balletto classico (Adam viene di qui) è un ricamo di raffinatezza musicale. La coreografia di Micha van Hoecke ci lascia semplicemente esterrefatti. In cinquantatré anni di vita e trenta di marciapiede mai abbiamo visto cosa siffatta. Tra i meriti storici del fascismo, se ce lo concede l'intrepido on. Fini, v'è quello di aver aperto al sesso femminile lo sport, che il mezzocalzettume piccolo-borghese gli inibiva. Ebbene, credo che nemmeno il peggior saggio ginnico di Giovani Italiane dato a Vairano Scalo nel 1937 possa esser stato più inutile e ridicolo di questo, in costume egizio. Rispetto al fascismo, tuttavia, van Hoecke concede accesso alla ginnastica anche alle mummie: non gli si può negare coscienza democratica.

L'impianto scenico di Gianni Quaranta è molto “francese”, e l'uso, intelligentissimo, di organi stile Madeleine, o forse sinagogale, accoppiati ad arredi egizi mostra la fondamentale contraddittorietà della prospettiva cattolica onde la vicenda è dipinta. La regia di Luca Ronconi vede, appunto, l'Opera siccome Tragedia classica, ed errato sarebbe rimproverarle una presunta staticità.

Sonia Ganassi, a noi carissima, è semplicemente strepitosa nella dizione e nella Cabaletta fiorita, che il Maestro la costringe a cantare a velocità mozzafiato, con spirito lucidamente dionisiaco, senza che però glie lo si mozzi. Barbara Frittoli esegue con decoro il suo ruolo; arrivati alla grande Aria del IV atto, che richiede un soprano drammatico di coloratura, comincia male e finisce peggio. Il pubblico la sopravvaluta. Il tenore Giuseppe Filianoti fa letteralmente miracoli: a parte la perfetta fonazione e dizione francese, egli interpreta un ruolo scritto su misura per il tenore Nozzari che Lodovico Spohr nelle sue Memorie definisce “la perfezione stessa”: occorre dunque sapere che tale ruolo rispetta la tessitura di Nozzari stesso, che è praticamente baritonale e si spinge a note acutissime del tenore, anche con abbellimenti, che all'epoca venivano cantate con emissione cosiddetta mista o vulgo “falsettone”. Filianoti canta tutta la parte con omogeneità e graduale trapasso di registri. Non so chi altri ne sarebbe capace, o per lo meno, così.

 

CORRIERE DELLA SERA
martedì, 9 dicembre 2003

Una sfida di tecnica, gusto, ritmo:
da Muti un «Moïse» per la storia
Nessuna altra orchestra poteva rispondere così alle sue sollecitazioni. Coro fondamentale, bene quasi tutti i cantanti, un’ombra sulla regia

di Paolo Isotta

Il Mosè inaugurale della stagione della Scala resterà, con le sue repliche, una serata storica per varî motivi. Il primo: essersi inconfutabilmente dimostrato che Milano, tra le più incolte città al mondo musicalmente parlando, non lo è affatto in assoluto ma solo, guarda caso, nella sua cosiddetta borghesia illuminata. La quale, tramite i suoi organi di stampa, naso suspendit adunco sopra un’intera sala rea solo d’essere venuta ad ascoltare il Mosè con interesse, concentrazione, passione, senza appartenere al suo ceto e al suo censo. Ma si vergognassero quelli che fanno sputare addosso a degli indifesi di buona fede. E speriamo di non vederli proprio più, alla Scala, costoro. Costoro (generalizzati in atti) hanno solo il dovere etico di aprire i portafogli e sovvenzionare un teatro che ha l’audacia di iniziare la stagione con un capolavoro severo e capace di far pensare chi di pensiero è dotato: aprire i portafogli affinché i piccolo-borghesi possano ascoltare il Mosè e altre Opere dello stesso livello. Corollario al primo motivo: quale piacere si prova a veder rompersi le corna metaforiche e materiali tutti i soloni e le solonesse che guaiscono sostenendo doversi dare Opere «popolari» e non titoli difficili che costituirebbero una ostentazione di non posseduta cultura da parte del maestro Muti. Un record di biglietti venduti, un forte successo.

Secondo: si è trattato di una delle supreme prestazioni del Maestro, il quale, lo dico a costo di ripetermi, si trova in un periodo di ascesa artistica e culturale sbalorditivo. Con alcuni opportuni ritocchi questo Mosè andrebbe inciso, essendo un peccato mortale che un’edizione dal punto di vista musicale del capolavoro quasi inarrivabile non resti quale documento, esempio e lezione. Credo che nessuna orchestra al mondo, e lo affermo in senso letterale, sarebbe capace di rispondere alle disumane richieste provenienti da un’inflessibile coscienza artistica. La velocità dei piedi dattilici coi quali, al Finale IV, Muti realizza ciò con che Rossini intende raffigurare l’incalzare a cavallo degli Egiziani credevo fosse tecnicamente impossibile; come il canto meraviglioso dei violini all’ottava che fa seguito alla tempesta, allargato insensibilmente il tempo senza che il pubblico se ne accorgesse, il calare degli accordi di Do maggiore delicato quale mano carezzevole, non lo raggiungerebbe un’altra orchestra. In altre parole, Muti stringe l’eterogeneo finale sinfonico a un punto tale da farne un autentico Poema Sinfonico.

Per lodare Muti basterebbe parlare solo degli Airs de danse: bellissimi, sono realizzati da lui con un’eleganza, un gusto, una tonicità, che nella Storia ha posseduto solo Gino Marinuzzi: egli portò infatti alla Scala il Mosè con Gina Cigna quale Anaide: altri tempi. Darei dieci anni di vita per ascoltare quella recita. Gli Airs de danse ci consentono di citare gli straordinarî solisti che per tutto il resto dell’Opera comunque si prodigano oltre misura: il I corno, dal suono rotondo e morbido sì da sembrare una fusione delle tre scuole, italiana, francese e tedesca; il I clarinetto, virtuosissimo nel grave; il davvero cantante I oboe. Il blocco degli ottoni tutto, che nell’invocazione «Tremendo, immenso, incomprensibil Dio» crea attorno a Mosè una vera aura. Le arpe. Il serico tappeto steso dalle viole, tacendo i violini, in uno dei primi pezzi della musica italiana aperti al sentimento della Natura, «Celeste man placata».

Ancora Muti. Lo scatto ritmico, la precisione espressiva, gl’improvvisi abbandoni, l’elasticità e la tensione nell’accompagnamento dei Recitativi, la lucidità intellettuale onde lo stile è inquadrato: mi fermo qui perché più facile è assistere a un miracolo che descriverlo. Ho già fatto cenno al contributo fondamentale del coro in quella che è una vera e propria Opera corale: sfumature timbriche e dinamiche, precisione, intensità, trasparenza contrappuntistica, colore perfetto nell’emissione delle vocali. Casoni porta alla prova il suo strumento in uno stato quale sortirebbe dopo la concertazione aggiuntiva d’un altro direttore: ma qui subentra il Maestro.

Il protagonista Ildar Abdrazakov è molto giovane, e non ha il peso vocale dei grandi Mosè classici; ha un bel timbro e una dizione francese accettabile. Ma il Maestro gli costruisce un personaggio meno ferrigno e tremendo, meno, a dir così, michelangiolesco, ma soccorrevole e tenero coi suoi al tempo stesso ch’è minaccioso coi nemici: il risultato è così coerente che possiamo solo ringraziare cantante e maestro per tale prova d’intelligenza e musicalità. Il pianissimo onde principia Dal tuo stellato soglio resterà un momento di commozione in tutti quelli che l’ascoltano. Sonia Ganassi è la perfezione stessa nella tecnica, nello stile, nell’espressione, nella dizione: ed è così modesta da non comportarsi come una diva laddove è e sarà una delle prime dive nel campo del vero mezzosoprano. Di Giuseppe Filianoti abbiamo spiegato ieri la particolarissima situazione, aver egli con temerità affrontato un ruolo scritto ad personam pel tenore Nozzari, ch’è un misto di baritono e tenore acuto. Ma Nozzari, come Nourrit, cantava gli acuti con emissione mista («falsettone»), laddove Filianoti si spinge allo spasimo, ma non spinge, per cantare il lunghissimo ruolo con omogeneità di tecnica. Nessun altro al mondo ci riuscirebbe: sono però tanto ammiratore di questo giovane artista che desidero continui a cantare quando io sarò già cenere, e non vorrei che sottoponesse il suo organo a eccessi, quod deus auertat , da scontarsi in futuro.

Cantante e attore impressionante è Erwin Schrott, Faraone, quello che si dice una personalità; e con garbo Nino Surguladze canta la piccola parte di Maria; con un po’ d’affanno, ma da artista promettente, Tomislav Muzek l’ingratissimo ruolo di secondo tenore; e, degli altri comprimarî, va ricordato il terzo basso, Maurizio Muraro.

E veniamo al caso della protagonista femminile, Barbara Frittoli. È costei artista seria e rispettabile. Tuttavia: un vibrato eccessivo infesta ormai tutta la gamma di che ella dispone; la dizione francese è modesta; se canta con decoro e nulla più i primi tre atti, giunta alla grande Aria del IV fa palese a tutti di aver osato troppo. Questa richiede un soprano drammatico di coloratura e le colorature hanno da essere sgranate e di forza: ella ci dà una sorta di saponata. L’incapacità di autocritica, l’egotismo, conducono ai peggiori precipizi: «nosce te ipsum» ammonisce l’oracolo di Apollo, per giunta dio della musica: se ne stesse contenta la Frittoli alle sue Desdemone e lasciasse le professioniste a Rossini.

Ho detto le coreografie di Micha van Hoecke esser peggio del peggior saggio ginnico femminile di Giovani Italiane del 1937 a Vairano Scalo, senza offesa per questo Comune. È incredibile pensare che dove la musica ti chiede imperiosamente una danse academique ti si mostri un minestrone fra ginnastica e conato di modern dance danzato da due solisti con energia da bambine. Non credo che la coreografia non vada ricompresa nelle responsabilità del regista: a causa sua Luca Ronconi inquina un suo lavoro pregevole. Che sarebbe inoltre meno inqui nato se nei bozzetti di Gianni Quaranta non ci fosse un troppo capace di annullare il buono di quest’insalata di stili. A pochi giorni di distanza debbo ancora ricordare la somma Coco Chanel: la vera arte consiste nel togliere.

 

il manifesto
9.12.2003

Un magnifico Mosè che non sa danzare
«Moïse et Pharaon ou le passage de la mer rouge» ha inaugurato la stagione al Teatro della Scala. Il capolavoro di Rossini nelle due interpretazioni di Luca Ronconi e Riccardo Muti trionfa a Milano ma l'allestimento scenico vieta il movimento dei ballerini

ARRIGO QUATTROCCHI

MILANO. Dopo le polemiche estive e il nuovo assetto dei vertici, il Teatro alla Scala, nella serata tradizionale di Sant'Ambrogio, ha inaugurato la propria stagione, presso la sede provvisoria degli Arcimboldi, con Moïse et Pharaon ou le passage de la mer rouge di Rossini; uno spettacolo di quasi cinque ore per una partitura straordinaria, che impegnava, sotto la direzione di Riccardo Muti, un cast di rinomati cantanti e danzatori, coro orchestra e corpo di ballo, mentre la parte visiva era affidata a Luca Ronconi, con le scene di Gianni Quaranta, i costumi di Carlo Diappi e le coreografie di Micha van Hoecke. Le grandi ambizioni dello spettacolo tuttavia hanno avuto un esito non perfettamente riuscito, soprattutto visivamente, e nell'insieme non risolto sotto il profilo della coerenza, come si cercherà di argomentare. L'opera è di importanza capitale nella produzione di Rossini, in entrambe le versioni pervenuteci. La prima, intitolata Mosè in Egitto, data a Napoli nel 1818 e ritoccata l'anno successivo, non nacque affatto come oratorio (come affermato più volte da Ronconi), bensì come opera quaresimale, ovvero di soggetto biblico, dato il divieto di trattare soggetti profani durante la quaresima; e indubbiamente costituisce una partitura chiave nel grande progetto di rinnovamento del teatro drammatico italiano intrapreso da Rossini nei suoi sette anni napoletani (1815-1822), per l'impianto corale e le molte soluzioni avveniristiche.

A Parigi, nel 1827, Rossini prese il meglio della vecchia partitura e, con il titolo di Moïse et Pharaon, lo adattò alle esigenze assai diverse del teatro francese, che richiedeva un apparato di grande spettacolarità. A differenza di Mosè in Egitto, Moïse et Pharaon rimase in repertorio per tutto l'Ottocento, sia pure in ritraduzione italiana con il titolo semplificato di Mosè, non mancando di influenzare per molti decenni moltissimi operisti italiani e francesi, inclusi Verdi (con Nabucco, 1842) e Saint-Saêns (Samson et Dalila, 1877). Tuttavia stabilire una graduatoria di merito fra le due versioni è improprio, poiché esse rispondono a tradizioni diverse all'interno delle quali si stagliano come capolavori.

Dunque, in che prospettiva guardare a Moïse, come approdo francese del Rossini italiano o come premonizione del romanticismo? Ronconi non ha dubbi, e sceglie la prima strada. Il suo spettacolo però non è del tutto nuovo, è anzi un vero remake del Moïse che inaugurò, nel 1983, la gestione Bogianckino dell'Opéra di Parigi. L'impianto scenico di Quaranta, (stesso scenografo dell'83 per bozzetti assai simili) è di grande suggestione; mostra l'ambiente, rialzato e circoscritto, di un oratorio, un luogo di preghiera neoclassico sovrastato da un grande organo, che è presenza divina, e si spacca a metà al momento del prodigio delle tenebre; mentre i costumi di Diappi sono bianchi per gli egiziani e neri per gli ebrei.

Ci sono inoltre, nel terzo atto, riferimenti a tutte le religioni monoteiste. Ronconi dunque coglie nel profondo l'aspetto rituale e sacrale dell'opera. Tuttavia in questo remake - come disse Rossini di un giovane operista - c'è del bello e del nuovo, ma il bello non è nuovo e il nuovo non è bello. Se la versione 1983 si chiudeva con un gioco di ombre, immaginando che il mar Rosso attraversato dagli ebrei in fuga fosse idealmente collocato verso la platea, nella versione 2003 abbiamo una scena molto più tradizionale, anche se risolta in modo non realistico, secondo il gusto barocco del «meraviglioso»: le onde del mare si aprono obliquamente lasciando un corridoio libero che si richiude al passaggio degli egiziani. Inoltre piuttosto banale sembra la recitazione, che lascia ai cantanti movimenti convenzionali e spontanei; così il dramma privato della fanciulla Anaï, divisa fra le ragioni del dovere verso Dio e il suo popolo, e dell'amore verso l'amato principe egiziano, rimane poco approfondito. Ma il vero clamoroso errore dell'allestimento consiste nella scena del terzo atto, che Rossini costruì tutto intorno a un grande divertissement di danze, circa 18 minuti di musica (non eseguiti nell'83). L'atto del danzare presuppone uno spazio piatto e congruo in cui i ballerini abbiano facoltà di muoversi; qui invece abbiamo uno stretto corridoio sul proscenio e un quadrilatero rialzato ingombro di dune in rilievo.

Risultato: i bravissimi Roberto Bolle e Desmond Richardson sono impossibilitati a muoversi. Si aggiunga che Micha van Hoecke prova a risolvere l'inadeguata situazione logistica con un campionario di banalità egizie, quali i movimenti geometrici e bidimensionali delle braccia di Luciana Savignano di fronte a una mummia semovente. Un siffatto non-balletto uccide la danza e uccide anche la musica pensata per la danza. La quale invece è assai finemente eseguita dall'orchestra. Riccardo Muti però ha di Moïse et Pharaon un'idea del tutto opposta a quella di Ronconi, ovvero tutta proiettata verso le premonizioni del romanticismo. Non a caso gli spunti ritmici vengono piuttosto smussati (vedi il tema dell'Introduzione desunto dall'Armida) in favore di un gioco di colori molto calibrato; non c'è la ricerca di un equilibro neoclassico in questo Rossini, ma piuttosto l'accensione emotiva di grandi momenti religiosi collettivi e privati, accarezzati nei dettagli senza mai perdere di vista il disegno complessivo. Il che porta quasi sempre ad esiti di grande fascino, come la mirabile scena delle tenebre, o i finali del primo e del terzo atto, condotti impeccabilmente a un tempo molto rischioso; curiosamente è sembrata meno incisiva e quasi dimessa la famosa preghiera.

L'impressione è che Muti non abbia di Rossini una visione storiograficamente del tutto aggiornata (ma, sul piano stilistico, tutte le riprese sono finalmente variate con grande gusto); tuttavia occorre dire che la sua lettura del Moïse è assolutamente legittima, e realizzata in modo encomiabile con grande tensione espressiva. La partitura ne emerge per quello che è, un capolavoro. Merito anche di una compagnia di canto di prim'ordine; Ildar Abdrazakov è un Moïse dall'accento incisivo e scultoreo; Giuseppe Filianoti mette la sua voce argentea al servizio di un fraseggio molto rifinito (meno attenta la pronuncia francese); Barbara Frittoli, come Anaï, si impone soprattutto nella grande aria del quarto atto, eseguita con grande partecipazione; Sonia Ganassi offre grande rilievo al ruolo non centrale di Sinaïde con bellissima voce e virtuosismo impeccabile.

E davvero molto centrata è la scelta di tutte le altre voci: Erwin Schrott, un Pharaon ben cantato e molto rifinito, Tomislav Muzek, perfetto nel ruolo difficile e ingrato di Eliézer, Giorgio Giuseppini nelle frasi ieratiche del sacerdote Osiride, Nino Surguladze, voce bellissima per gli interventi di Marie, e poi ancora Antonello Ceron e Maurizio Muraro.Alla fine grande successo con qualche dissenso piuttosto isolato ma ben sonoro. La cronaca segnala un profilo piuttosto basso della mondanità e della politica (tre ministri, senza, naturalmente, quello della cultura) e le manifestazioni esterne, a debita distanza, dei Cobas del latte e dei lavoratori dell'Alfa di Arese, oltre al brindisi di Luigi Veronelli con i ragazzi del Leoncavallo.

 

IL GAZZETTINO
martedì 9 dicembre 2003

Dopo aver aperto con successo la stagione lirica milanese, Riccardo Muti è corso subito a Venezia
È tornata la musica nella rinata Fenice
Il direttore d’orchestra ha guidato ieri le prime prove del concerto inaugurale

NOSTRO INVIATO

MILANO. Rossini ha approfondito le vicende bibliche di Mosè in due versioni teatrali: il "Mosè in Egitto" del 1818, scritto per il San Carlo di Napoli e il "Moïse et Pharaon", un rifacimento francese andato in scena all'Opèra di Parigi nel 1827. La versione napoletana, fino ad un ventennio fa, era scomparsa dal repertorio; mentre l'originale francese ebbe una larga divulgazione nella traduzione italiana di Calisto Bassi. Il "Mosè in Egitto" venne riabilitato al Festival di Pesaro nel 1981, e da allora gli studiosi in genere lo preferiscono alla successiva, e largamente ampliata, edizione. Oggi in realtà sappiamo che si tratta di due opere diverse, anzi di due capolavori dotati di vita autonoma. Il primo "Mosè" di fatto è una melodrammatizzazione dell'oratorio sacro, sulla linea di una tradizione non soltanto napoletana ma anche romana; quello parigino, invece, recepisce il gusto impero francese, è un affresco di impronta teatrale. Di conseguenza accoglie le spettacolari suggestioni parigine: chiaro l'accostamento al cosiddetto "Grand Opèra", cui il Pesarese dà un contributo personale e fortemente sintetico; le danze fanno parte dell'azione. In definitiva il "Mosè in Egitto" è più compatto ed unitario, mentre il "Moïse" tende a diluire il ritmo melodrammatico, ad appagarsi della Bellezza sinfonica - corale, con un largo intervento coreografico.

Riccardo Muti, per la stagione della Scala agli Arcimboldi, ha proposto il "Moïse" nell'originale francese integralmente, incluse le belle danze del terz'atto, in genere omesse. Ne ha offerto una versione di grandioso respiro, in cui si sente il conoscitore delle monumentali macchine teatrali di Spontini. O, più esattamente: una interpretazione che coniuga disciplina classicista ed empito romantico, tra Cherubini e la "Jerusalem" verdiana, passando attraverso, appunto, la lezione di Spontini. Muti chiarisce i misteri di questo "Moïse", meno drammatico ed essenziale del precedente "Mosè in Egitto", ma musicalmente più rigoglioso, sia sotto il profilo corale (si ampliano i superbi concertati drammatici, con solisti e coro, in cui la polifonia si risolve nel canto e nella severità sacrale), sia sotto il profilo della onnipresente declamazione. Muti, con il sapiente maestro Casoni, lavora prima di tutto sul coro, puntando sull'armonia tra la pienezza esecutiva e pianissimi stemperati nella dolcezza cantabile, guidati e quasi levigati nel suono dalle mani del maestro che dirige senza bacchetta. L'orchestra di Muti stringe l'opera colossale e inevitabilmente dispersiva (Rossini non era ancora Verdi, nonostante le molte profezie) in una rigorosa maglia strutturale: i singoli quadri - pur tra loro non molto correlati dal compositore - emergono con impressionante evidenza. Anche in orchestra le dinamiche sono molto differenziate: si trascorre dalla severa immobilità alla massiccia irruenza sinfonica, preverdiana appunto, nel finale terzo. Nei balletti Muti invece punta sulla leggerezza quasi ciaikovskiana.

La compagnia di canto, concertata con minuziosa cura, è eccellente, anche se non è costituita, all'infuori della adamantina Sinaide di Sonia Ganassi, da rossiniani. Ciò consente di conciliare il patetismo napoletano con l'affabulazione prebelliniana, evidenziata dalla bravissima Barbara Frittoli, inopportunamente contestata da qualche burbero loggionista. Ammirevole anche il tenore Filianoti, passato dal Rossini e Donizetti comici all'accento eroicizzante, quasi da "Norma", nell'arduo ruolo di Amenofi. E poi l'ardente basso Abdrazakov impegnato nei vistosi recitativi e negli slarghi melodici della figura di Mosè. Esemplari tutti gli altri ruoli che non possiamo ricordare singolarmente.

La sobria regia di Luca Ronconi, meno estrosa del solito, è pensata in funzione della musica (cori spesso al proscenio e sempre rivolti al direttore, in una statica immobilità) e unisce efficacemente un'idea dell'Egitto visto attraverso la Parigi ottocentesca, quasi engres «contaminato» da risentimenti cattolici e controriformisti (gli unici aspetti visivi in cui affiora l'ironia ronconiana). L'esperto scenografo Gianni Quaranta realizza l'austera prima scena con colonnati neoclassici, un tempio che sorge tra paesaggi desertici, e un immenso organo sul fondo, quasi dovesse risuonare una pagina di Franck; gli ebrei, accovacciati al proscenio, indossano tuniche nere (costumi di Carlo Diappi), ovviamente non datate. Gli egiziani, invece, biancovestiti con decorazioni dorate, sono molto stile impero. Nel second'atto l'organo si divide in due troni del faraone, in una concezione intimistica della scena delle tenebre, mentre nel terzo l'allestimento accoglie la decorazione ornata nei pulpiti di un barocco cattolico e ottocentesco. Invece il finale, con enormi onde lignee e bluastre, non riesce ad evocare il miracolo del Mar Rosso che lascia transitare gli ebrei e inghiotte gli egiziani, ed è meccanicamente effettistico. La coreografia intellettuale di Van Hoecke non ricorre ai canonici balli sulle punte, ma alla danza prevalentemente gestuale e simbolica di solisti della statura della Savignano (bellissima e snodata), di Bolle e di Richardson. Insomma un «Moïse» senza ombre, testimonianza della potenza produttiva di un grande teatro. Consensi naturalmente illimitati.

Mario Messinis

 

IL GIORNO
9 dicembre 2003

PRIMA ALLA SCALA
Con Muti Mosé arriva in paradiso
Uno spettacolo di quattro ore e mezzo costellato di prodigi, con una straordinaria unità d'intenti tra la direzione musicale e la regia. Passerella di vip

di Lorenzo Arruga

MILANO, 8 DICEMBRE 2003 - El primm teater del mund!, li prendeva già in giro Verdi, quelli che lavoravano alla Scala, incuranti di ritardi e di intoppi. E ancora adesso a parlare del loro teatro, fra problemi economici e logistici e baruffe istituzionali sconcertanti, alzano il naso e socchiudono gli occhi: el primm teater del mund. Beh, non andate a dirglielo, ma in queste ore serpeggia il sospetto che abbiano ragione.

L'apertura della stagione nel provvisorio e problematico Teatro degli Arcimboldi con "Moïse et Pharaon" di Rossini è folgorante. Ci vada chi prova la nostalgia per gli spettacoli alla grande, con un'orchestra e un coro favolosi; ci vadano i giovani direttori che credono utile far le prove del gesto davanti allo specchio più che non studiare drammaturgia e composizione, e i cantanti Lucignoli che si lasciano sedurre dal Paese dei Balocchi promesso dai loro agenti, e ignorano a quale seducente bravura si può arrivare con lungo e giusto studio, con accanita passione.

Naturalmente, ci vadano leggeri, e si prendano tutti un buon caffè, perché il "Moïse" dura circa quattro ore e mezzo, e non vi succedono molte cose. È la storia di Mosè, col suo carisma e i suoi prodigi, e del suo popolo che crede in lui e nel Dio che egli annuncia, al punto di sfidare gli Egizi minacciosi oppressori seguendolo fin nei flutti del mare: e il mare aperto miracolosamente al loro passaggio richiudendosi travolge i nemici inseguitori.

Riccardo Muti, direttore, e Luca Ronconi, regista, concordano che quest'opera di Rossini, nella versione del 1827 ha i caratteri dell'oratorio sacro : non la nascita d'un'azione, ma la sua rievocazione e la meditazione sul suo significato. Poi, proprio i fatti che sono rievocati portano anche allo spettacolo; i prodigi delle tenebre quando il Faraone si rimangia la promessa di lasciare partire gli Ebrei verso la Terra Promessa, delle fiamme dal cielo, e del Passaggio del Mar Rosso sono così coinvolgenti che portano anche al dramma per conto loro.

Luca Ronconi rielabora con lo scenografo Gianni Quaranta l'impianto che inaugurò le felici stagioni di Massimo Bogianckino a Parigi, quasi vent'anni fa, con un deserto immaginario steso in pendenza fra pareti d'un luogo sacro dove un organo campeggia, e pone il coro, quasi sempre fermo, in un piano sottostante; i protagonisti, nei felici costumi di Carlo Diappi legati alle immagini delle storie bibliche, si muovono con spicco. Quando, secondo l'uso parigino, entrano i ballerini, il coreografo Micha van Hoecke si arrangia sulle dune: come proiezioni dei personaggi vivono in gesti stilizzati il fuoriclasse afroamericano Desmond Richardson e l'autorevole Roberto Bolle; Luciana Savignano, Iside, è una mitica apparizione con leggendarie ali preziose.

Non va chiesto a Ronconi di comporre una regìa sulle pulsioni della musica; ma questo spazio e quest'idea le assecondano. La novità sta nell'ultimo atto: un macchinario alza tra nuvole i flutti neri del mare, che al muover degli Ebrei si levano maestosi in verticale e tornano al loro posto per sommergere gli Egizi. Un salto nel Barocco, ed anche un tuffo nell'emozione.

E l'emozione è forte, a cominciare dalla preghiera famosa con le voci trepide e sommesse di Mosè e della sua famiglia, che sfocia nel brivido trionfale dell'ultima invocazione del coro "in maggiore". Qui meritiamo tanta gioia per avere seguito fedelmente il cammino che Muti ha tracciato: un Rossini sinfonico che nasce da Mozart e dalla civiltà tedesca, un Rossini classico che vive l'era di Gluck, di Cherubini, di Spontini: trionfo della forma; stupefazione dei pezzi d'insieme, miracolosamente spaziosi, vita in prima persona degli artisti del coro preparati da Bruno Casoni.

Un Rossini che esalta il canto. Entusiasmante la lotta fra Mosè, l'autorevole, caloroso, ispirato Ildar Abdrazakov, e il Faraone, l'impressionante Erwin Schrott: eloquenti nei "piano", e nei "fortissimo" dove non tuonan mai, ma intonano con pienezza. Tenerissima la vicenda d'amore fra il figlio del Faraone e la nipote di Mosè: interpretata come fanno Barbara Frittoli e Giuseppe Filianoti, non è proprio un ingrediente sentimentale per compiacere il pubblico, ma l'apparire d'un orizzonte irraggiungibile, la struggente tenerezza d'un amore che rifiuta le divisioni tra popoli; anche se l'accorato e possessivo affetto delle madri, una delle quali è l'assolutamente favolosa Sonia Ganassi vi si contrappone ardentemente.

C'è un problema arduo, nel Rossini serio, il recitativo: quando non vi sono arie o pezzi d'insieme, si canta una declamazione a un pelo d'essere ingombrante. Muti ha scavato invece nel rapporto con la parola ed il colore delle voci e ne è sorta come una confessione costante, rivelatrice, intrisa di timore sacro e segreto. Fra tanti prodigi, strappati con tanta sicurezza dalle mani di Dio, s'intravvede, inquieta nelle coscienze, l'altra faccia di Dio, misterioso e inaccessibile. Tanto che questa volta quando Rossini arriva alla fine a soccorrerci, non gli basta più uno dei suoi magici, esaltanti "crescendo": a scena vuota, nella nitida pace del ricomposto mare, ci sussurra la sua pagina più alta ed innocente e ci rimanda a casa a pensare.

 

Il Messaggero
Lunedì 8 Dicembre 2003

Sul palco il famoso passaggio del Mar Rosso si realizza grazie ad una macchineria barocca
Una grande epopea corale e mistica

di ALFREDO GASPONI

MILANO - A prima vista sembra un organo che spunta da dune e rocce. Poi, a guardare meglio, si capisce che la scena, sul palcoscenico degli Arcimboldi, raffigura una chiesa o un tempio: organo e pulpiti servono a identificarla come luogo sacro. Il deserto? E' perché Luca Ronconi regista e Gianni Quaranta scenografo hanno allestito nel tempio un altro palcoscenico su cui si recita Moïse et Pharaon ou Le passage da la Mer Rouge di Rossini, l'opera che ieri ha inaugurato la stagione della Scala.

Come una sacra rappresentazione, insomma, per raccontare la storia degli ebrei in Egitto, dalla schiavitù alla liberazione. Con una oratoriale staticità che si rifà al taglio, tra opera e oratorio, di Moïse (la prima versione italiana, Mosè in Egitto , fu scritta a Napoli per il periodo quaresimale).

Niente oleografia, comunque. La scena famosa del passaggio del Mar Rosso è una macchineria barocca: il finto mare si apre per lasciar passare gli ebrei e si richiude per travolgere gli egizi. Altrove, sono visioni: quando, ad esempio, l'arcobaleno e il fuoco (vero) si stagliano sulle canne dell'organo, che si spezza in due mentre Mosè fa scendere le tenebre punitive. Tutto, fin nei costumi di Carlo Diappi (neri gli ebrei, bianchi gli egizi) è chiaro e un po' didascalico, elegante, con qualche affievolimento della tensione narrativa.

Per la prima volta alla Scala approda il rifacimento francese del Mosè in Egitto, finora eseguito nell'inadeguata ritraduzione italiana. Mosè in Egitto è più conciso e originale, Moise più imponente e spettacolare (e un tantino diseguale) in ossequio al gusto del nascente grand-opéra . Nel primo, la scena delle tenebre posta in apertura marchia subito di sublime l'opera; nel secondo c'è il ballo, e tra la musica rossinina nuova o autoimprestata spicca la ruggente "stretta" del terz'atto. Epopea corale umana e mistica prima che ritratto di Mosè, la intende Muti. E la vive: nei cori dalla gran vena risorgimentale ante litteram, nelle concitate inflessioni del canto, nei momenti patetici e toccanti. Orchestra pronta, scattante. Il coro, dolente e furioso, è un prodigio di verità.

Sa commuovere, il protagonista Ildar Abdrazakov: un Moïse giovane, dalla voce non ancora imponente nel grave, ma di grande nobiltà. L'umanità di Sinaide vibra nel canto di Sonia Ganassi. Il conflitto tra amore e fede di Anaï è risolto in crescendo da Barbara Frittoli, anche se alla fine un lieve affaticamento vocale le ha procurato qualche immeritato dissenso tra grandi applausi. Giuseppe Filianoti supera bellamente le difficoltà del ruolo di Aménophis. Si sarebbe voluto più imperioso il Pharaon di Erwin Schott. Bene gli altri. La sinuosa Luciana Savignano e le atletiche figure di Roberto Bolle e Desmond Richardson deliziano il pubblico nelle danze del terz'atto, dove il coreografo Micha van Hoecke fa ballare anche una mummia. Dieci minuti di applausi e una vera ovazione per Muti.

 

Giornale della Musica
8 dicembre 2003

Rossini alla Muti

Cinque ore fitte di spettacolo (anche gli intervalli ne fanno parte, a S.Ambrogio), per quella che viene annunciata come l'ultima Inaugurazione scaligera agli Arcimboldi. Tocca a "Moïse et Pharaon", un megalìte denso di cori, balli, scene grandiose e interventi soprannaturali, con cui sia Muti sia Ronconi si trovano a perfetto agio. L'uno tiene le fila dello spettacolo con la consueta acribìa, ma rinunciando a certi abituali estremismi, a favore di tempi ben misurati, sonorità morbidissime (sarà la suggestione nel vederlo dirigere senza bacchetta?) e lasciando persino liberi i cantanti di prodursi in quei liberi interventi sul testo dettati dalla coeva prassi esecutiva che solitamente rifiuta nel giovane Verdi e non pretende in Mozart. L'altro ottiene dalle scene di Gianni Quaranta il pieno inveramento della propria poetica, con un coacervo di elementi simbolici storicamente e stilisticamente eterogenei, dove le dune del deserto convivono con l'interno di un'ideale sinagoga, gli organi barocchi coi violinisti klezmer, le onde e le nuvole di cartapesta coi passi stilizzati delle ormai classiche coreografie di Micha van Hoecke (primi ballerini d'eccezione: Luciana Savignano, Roberto Bolle, Desmond Richardson).

Quasi sempre dislocato al proscenio, il cast vocale può far brillare le proprie prerogative, in una partitura che offre ben poco spazio a esibizioni personali: ed ecco l'efficace declamato del protagonista Ildar Abdrazakov, in una parte quasi priva di frasi cantabili, la solarità canora mai troppo lodata di Giuseppe Filianoti (se solo nei momenti di maggior tensione non arrivasse così spesso a un passo dall'incrinarsi...), la potenza sonora di Erwin Schrott (subentrato nel ruolo di Pharaon all'annunciato D'Arcangelo), la grazia tenorile di Tomislav Muzek (come fratello di Mosè). Su tutti svettano le due donne. Sonia Ganassi s'impone per l'eleganza aristocratica con cui veste i panni vocali della regina egizia, riscuotendo un particolare successo nella grande aria originariamente scritta per Isabella Colbran e dimostrandosi così l'interprete oggi più idonea a riproporre quei ruoli vocalmente ambigui. Barbara Frittoli (checché abbia voluto esprimere un paio d'impenitenti contestatori) eccelle per perfezione vocale e intensità espressiva nella sua non meno impegnativa aria di conflitto interiore, dimostrando ch'è ormai tramontata l'epoca degli specialisti di Rossini, autore finalmente tornato a essere appannaggio di tutti i grandi belcantisti.

Il plauso finale è dovuto sopra ogni misura a Bruno Casoni e al suo assistente Alberto Malazzi per la perfezione ottenuta dalla compagine corale, vera protagonista della serata.

Marco Beghelli

 

IL MATTINO
Martedì 9 Dicembre 2003

«MOÏSE ET PHARAON» ALLA SCALA
Muti riscopre un Rossini «europeo»

di Giovanni Carli Ballola

Milano. Napoli e Parigi sono i due poli entro cui prende vita l'opera di un Rossini che, posta fine alla propria imperfettibile esperienza giocosa, affronta quel genere tragico che quasi esclusivamente coltiverà sino alla conclusione della propria carriera teatrale. Non casualmente, prima di affrontare il supremo cimento del «Tell», il Maestro riprenderà per le scene francesi due tra i capolavori creati nel miracoloso settennio dedicato al San Carlo. Dopo «Maometto II», divenuto «Le siège de Corinthe», sarà la volta del «Mosè in Egitto», un'azione tragico-sacra composta nel 1818 per il tempo quaresimale: Rossini la porta da tre a quattro atti mediante la trasposizione di alcune scene e l'addizione di nuove espressamente composte o riprese da spartiti precedenti, nonché del divertissement coreografico, di prammatica per le scene dell'Opéra. Riciclaggio dal quale uscirà nel 1827 «Moïse et Pharaon, ou Le Passage de la Mer Rouge», che, denominato «Mosé» tour court in versione italiana, si manterrà saldo nel repertorio per ricordare, insieme con il «Tell», che Rossini non era soltanto quello del «Barbiere».

Dal mondo tassesco di «Armida» a quello scespiriano di «Otello» si passa qui all'epos biblico di uno scontro di popoli attraversato da ambasce private, quelle della passione corrisposta del figlio del Faraone per una fanciulla ebrea, un amore che diviene causa di lacerazioni politiche e religiose. La novità e la sublime temperie di pagine come la Scena delle Tenebre, l'invocazione successiva di Mosé seguìta dal radioso ensemble, gli accorati duetti della coppia amorosa, la celebre preghiera che precede la sorprendente pagina sinfonica descrittiva posta a epilogo, fanno di Rossini una presenza europea senza pari, che esorbita dagli orizzonti del melodramma non meno francese che italiano.

Anche se decisiva risulta la matrice del «Mosè» napoletano, non per questo il ripensamento parigino sembri accessorio. Ad esso dobbiamo molta della grande musica reinventata per il primo e il terzo atto, la vibrante aria di Anaï nel quarto, la riscrittura che conferisce una dimensione classicamente sinfonica al già ricordato episodio orchestrale che conclude l'opera. La quale da tempo attendeva un grande direttore che la ricollocasse al posto che di diritto le spetta: non tanto quello del grand-opéra, quanto del Classicismo. Che dietro una pagina quale la scena delle Tenebre, strutturata in una rigorosa forma-sonata, s'intravvedano le ombre dei Padri viennesi (di Haydn in particolare, e della sua «Creazione»), ce lo ha fatto ricordare Riccardo Muti in una rilettura che non esitiamo a definire storica. Esaltazione ritmica ed intimistica delicatezza, ma anche pura gioia nell'immergersi nei tripudii coloristici delle danze, e cura nell'evidenziare il lavorìo tematico, la sua sottile espressività nascosta anche in un semplice accompagnamento ad accordi ribattuti.

La compagnia di canto annoverava almeno tre egregie voci di basso nelle persone di Ildar Abdrazanov, protagonista, Erwin Schrott, Pharaon e Giorgio Giuseppini, Osiride; smaglianti nel belcanto e nel raptus drammatico l'Anaï di Barbara Frittoli e la Sinaïde di Sonia Ganassi; quanto a Giuseppe Filianoti, Aménophis, il suo posto è ormai tra i grandi tenori del momento. Completavano degnamente il cast Tomislav Muzek (Eliézer), Antonello Ceron (Aufide) e Nina Surguladze (Maria). Ma questo «Moïse» si distingueva anche per la partecipazione di Luciana Savignano, Roberto Bolle e Desmond Richardson quali prime parti eccellenti nella bella coreografia di Micha van Hoecke del terz'atto e per il determinante contributo di un coro diretto da Bruno Casoni. Possiamo invece dire che lo spettacolo di Luca Ronconi, con scene di Gianni Quaranta e costumi di Carlo Diappi, è stato al disotto delle aspettative? Appannati risultavano certi risaputi simbolismi; senza infamia e senza lodo gli andirivieni di personaggi e masse corali, decisamente goffa, nella sua incertezza tra simbolo e realismo, l'apertura delle acque del Mar Rosso. Esito trionfale.

 

GAZZETTA DI PARMA
8 dicembre 2003

ARCIMBOLDI: Festosa inaugurazione col «Moïse et Pharaon» di Rossini
E il Mar Rosso si aprì
Effetti speciali e grande intesa tra Muti e Ronconi

MILANO. E' la stessa coerenza con cui Muti aggiunge, da anni ormai, ogni volta una nuova tappa al proprio percorso interpretativo, ad offrire il senso più pregnante di questo Moïse et Pharaon che ha inaugurato la stagione scaligera, l'ultima inaugurazione, si sottolinea con aspettativa generale, decentrata nel problematico Arcimboldi. Occorre, infatti, snodare retrospettivamente quel lungo filo che ci riporta ai Gluck, agli Spontini, ai Cherubini proposti dal nostro direttore per ritrovare alcune delle linfe che irrorano la grandiosa partitura rossiniana prescelta quest'anno; oggetto, ben si sa, di infinite dispute nate dalla circostanza che vede quest'opera, destinata al pubblico di Parigi, come una trasformazione di quella scritta quasi dieci anni prima per Napoli. Ma quale trasformazione? Il nostro Paër, che in quegli anni dopo aver fatto il buono e il cattivo tempo a Parigi come direttore del Teatro Italiano era stato messo in ombra dalla luce irresistibile del nuovo astro rossiniano, così commentava maliziosamente l'operazione: «Il Rossini è tutto intento a impiastrare di nuove parole francesi sopra il suo Vecchio Moisé».

Quale sia stata la portata di questo «impiastramento» ha appunto offerto questa nuova proposta scaligera, accompagnata dal solito interrogativo che consegue ad ogni rifacimento: meglio l'originale o il nuovo prodotto? Operazione questa non da poco perché nell'allargamento da tre a quattro atti Rossini ha impiegato tutta la sua ben nota disinvolta abilità nel tagliare, magari arie di qualche suo «negro», nel prendere a prestito, nell'invertire tra i vari personaggi alcune parti, ma anche nell' aggiungere nuove pagine, alcune fondamentali come le grande aria di Anaï nell'ultimo atto, straordinaria premonizione di quel fuoco romantico che Rossini, pur disorientato di fronte all'avvenire, covava in sé.

Così si è giunti a due opere sostanzialmente diverse, non solo per l'obbligante rispetto delle istanze poste dalla tradizione francese, la pretesa irrinunciabile del balletto soprattutto, ma per lo stesso passo narrativo che tende a dilatarsi e in certo qual modo a decantarsi entro la campitura oratoriale. Contrassegno che ha trovato il riscontro, appunto, nella intesa tra Muti e Ronconi il quale già aveva affrontato il Moïse una ventina d'anni fa a Parigi, quando Massimo Bogianckino volle suggellare il suo ingresso alla guida dell'Opéra con quest'opera bifronte.

Naturalmente quell'idea scenica è stata ora ricreata, con la collaborazione dello scenografo Gianni Quaranta e del costumista Carlo Diappi, ma sostanzialmente ha riconfermato l'intendimento emblematico, riconoscibile nella stessa impaginatura che colloca il personaggio coro con la staticità propria dell'antica tragedia e pure dal variegato gioco dei rimandi stilistici: il monumentale organo della tradizione francese ottocentesca a suggerire la dimensione sacrale, i sottili cortocircuiti tra i motivi egizi e il gusto neoclassico e pure lo stesso ritmo allegorico dei tanti «effetti speciali», l'apertura spettacolare del Mar Rosso soprattutto. Soluzioni che potevano anche essere percepite come un freno all'azione ma che in realtà trovavano corrispondenza con il passo musicale innescato da Muti, il quale ha saputo mediare con una sensibilità acutissima l'idea del grandioso propria alla vicenda biblica con l'intimità che vi circola dentro; calibro che ha evitato anche i rischi insiti nell'incastonarsi entro le fibre della narrazione della vicenda amorosa tra la nipote di Mosé e il figlio del Faraone, così da farla invece vivere organicamente della stessa pressione emozionale che governa il conflitto tra ebrei e egizi.

Lasciando a riposo eccezionalmente la bacchetta Muti, con il prensile gesto delle mani ha plasmato letteralmente la creazione sonora, graduando in tutta la sua ricchezza il tessuto corale, assicurato dalla ottima prestazione della compagine scaligera, e pure filtrando quello sensibile e agguerrito dell'orchestra, lasciando così emergere tutto il potenziale sinfonico della partitura, toccando esiti di grande coinvolgimento, lontani dal più diretto gigantismo sonoro, come quello straordinario spegnersi in piano dell'opera. Indirizzi che hanno trovato complessiva risposta anche sul versante vocale, nella sua dilatata complessità: eloquente e autorevole, pur senza la gravità di certi accenti, il Mosé di Ildar Abdrazakov, contrappesato da un efficace Erwin Schrott nei panni del Faraone; Giuseppe Filianoti ha dato voce, seducente quanto mai anche se forse stilisticamente un po' generica, al giovane egizio innamorato, corrisposto da una Anaï, Barbara Frittoli, garbata ma un po' sotto calibro rispetto alle sollecitazioni belcantistiche, specie nella grande aria finale, mentre eccellente la prova di Sonia Ganassi nel ruolo della madre Sinaïde.

L'innesto del balletto in un «grand-opéra», si sa, è sempre un momento traumatico per l'inevitabile arresto dell'azione, stacco che in questa occasione è stato reso meno violento grazie al senso di continuità con cui Muti ha gestito la sinuosa arcata musicale delle danze e la non troppo artificiosa coreografia di Micha van Hoecke amministrata con misura da Luciana Savignano, Roberto Bolle, Desmond Richardson insieme al disciplinato corpo di ballo scaligero. Serata festosa con molti applausi, appena incrinati da qualche dissenso rivolto alla Frittoli.

Gian Paolo Minardi

 
delteatro.it
15 dicembre 2003

Moïse et Pharaon
di Piero Gelli

Dal Teatro degli Arcimboldi, La Scala propone come primo titolo della stagione 2003-2004, Moise et Pharaon ou Le passage de la mer rouge, di Rossini, variante francese del Mosè in Egitto, che il compositore aveva dato a Napoli, al San Carlo, nel 1818. Dico variante per semplificare, perché in realtà il passaggio dall'edizione italiana alla francese del 1827 implica profondi e numerosi cambiamenti, che nel voluminoso programma di sala, Philippe Gosset illustra puntualmente. Per semplificare, se la storia è sostanzialmente la stessa, cambiano i nomi dei personaggi e aumentano, la musica è rielaborata profondamente, con innesti da altre opere (per esempio, Bianca e Faliero), e molta composta ex novo, come il finale del terzo atto; infine il balletto come imponeva L'Acadèmie Royale de Musique, meglio nota come Thèatre de l'Opera a Parigi. Insomma da oratorio a Grand Opera; e in tale veste La Scala l'ha presentata per la prima volta, come ha strombazzato con ammirata aggettivazione la stampa del regime scaligero, dimenticandosi di dire che Moise et Pharaon altri teatri italiani l'avevano già programmato da tempo; anzi, un cd di un pregevole allestimento bolognese di pochi anni fa era acquistabile nel Foyer degli Arcimboldi. Ciò detto, l'edizione che abbiamo appena vista, lascia stupefatti e ammirati. In primis, perché siamo di fronte a un capolavoro, degno di situarsi tra Semiramide e il Guillaume Tell, allo stesso livello e come esemplare union tra l'opera (sua) italiana e il repertorio (suo) francese; inoltre perché Riccardo Muti ha diretto l'orchestra in modo perfetto, con una perfetta adesione alle complesse architetture rossiniane, sempre in bilico tra il sublime e l'astratto, tra la magnificenza corale e la perspicuità delle arie e dei duetti. Il rapporto instaurato dal maestro tra l'orchestra i solisti e il coro è stato a un tale livello di mirabile qualità che sarà difficile superare una tale fusione stilistica, dimenticare simili emozioni.

Naturalmente Muti era coadiuvato dal coro di Bruno Casoni semplicemente magnifico, e da solisti del calibro di Ildbar Abdrazakov (Moise), Erwin Schrott (Pharaon), Thomislav Muzek (Elièzer), e giustamente applauditissimi, Giuseppe Filianoti (Amènophis) e una splendida Sonia Ganassi (la faraona Sinaide). Quanto a Barbara Frittoli (Anai), accompagnata da una gran cassa mediatica americana che ha irritato i melomani loggionisti, è stata accolta gelidamente e sbeffeggiata dall'irruento viscerale e acutissimo Paolo Isotta sul Corriere della Sera. A mio parere, se l'è cavata bene, e non meritava un tale prevenuto atteggiamento.

Rimarrebbe da parlare della regia di Luca Ronconi, una regia più intelligente della realizzazione scenica, talvolta un po' da guardarobierato, affestallato e generico, con soluzioni fiacche, tipo lo scendere delle tenebre risolto con un semplice diminuzione di kilowatt, o il fuoco dietro le canne dell'organo, davvero un focolare domestico. L'ultimo atto con le onde e le nubi di cartapesta ottocentesche era però bellissimo e funzionale, così come l'idea di salvare il Faraone dalla sommersione generale del suo esercito e figlio schizoide compreso, solo a disperarsi mentre l'opera si chiude con un commovente geniale brano sinfonico. Atto, per altro, che era cominciato con il celebre meraviglioso coro Des cieux où tu rèsides (alias Dal tuo stellato soglio), per cui alcuni sconsiderati in sala strillavano bis, naturalmente non concesso dal severo filologico maestro (però se l'avesse fatto, l'avremmo volentieri riascoltato. Unici nei della serata: le danze, insopportabili nonostante la bravura delle tre étoile; e la mania del pubblico di uscire prima della fine, senza applaudire, prima ancora che si chiuda il sipario e termini la musica, per la corsa al guardaroba e il posto a sedere sulla navetta. Quella sera, poi, molte dame «operaie» nonostante i fremiti di passione rossiniana e mutiana, se ne erano andate per un cenone alla fine del terzo atto (ore dieci e trenta), chez Armani. Nonostante tutto Milano è la capitale della moda!

 

Financial Times
December 8, 2003

Theatre: Moïse et Pharaon

By Andrew Clark

It has taken Moïse (Moses) the best part of 180 years to reach Italy in the form in which Rossini finally envisioned it. Sunday's performance by La Scala, now in its final year of temporary "exile" while its historic home is renovated, was a triumph by any standards but particularly for those who believe in respecting what the composer wrote.

That means performing the opera uncut, in French, and with numerous improvements to the vocal lines made by Rossini when he revised and re-ordered his biblical drama for Paris in 1827.

This is just the kind of show that throws into perspective the debate engulfing La Scala in recent months, a debate about purity versus populism.

The question is how far the great Milanese theatre can afford to decide its policies purely according to artistic principles, and how far it must bend to the market. It's a debate that is raging all over the opera world, but has a particular force at La Scala, which considers itself the repository of Italian operatic tradition.

And it has become intensely personalised, with Riccardo Muti, La Scala's music director and de facto artistic chief, in one corner, and Carlo Fontana, the company's administrative head, in the other.

Moïse is above all a triumph for Muti. Even at four-and-a-half hours, Sunday's season-opening performance without the slightest longueur. What we witnessed was a demonstration of extremely high musical standards, with majestic and often thrilling contributions from orchestra and chorus, supported by a staging (by Luca Ronconi) that frames the story in didactic parentheses.

Rossini composed two versions of his Moses opera, and they are best regarded as separate works. The original Mose in Egitto, written for Naples in 1818 and revised the next year is a "sacred theatrical action" that follows the forms of late Italian opera seria. In 1827, having installed himself in Paris, Rossini converted Moïse into Moïse et Pharaon, ou Le Passage de la Mer Rouge, adapting it to French text, taste and talents.

It was an important step in the development of 19th-century grand opera. Expanded from three acts to four, Mose has more ensembles, fewer arias, a ballet and a more monumental personality. No one who has heard both versions can say one is "better" than the other, but either is superior to the bowdlerised edition Italian theatres have traditionally used an ill-fitting translation of the 1827 version, ignoring Rossini's improvements to the soloists' parts.

The opera, in either version, is a rarity outside Italy, but this is its fifth staging at La Scala since 1950. It requires the most careful and unstinting preparation, and that's exactly what it received from Muti without the "drilled" effect that has sometimes characterised his work here in the past. Indeed, the music came across with a freedom that ignited the great choral crescendos and enhanced the atmospheric instrumental colouring above all in the act three ballet and quasi-Mendelssohnian finale. Rossini may not do profundity, but in Muti's hands he certainly does charm, dignity and, yes, economy.

Ronconi first staged Moïse 20 years ago in Paris, in a shortened version without ballet. This new production, also designed by Gianni Quaranta, follows much the same lines but the basic idea now seems simpler and its execution more sophisticated. The desert-like playing area is enclosed in baroque trompe l'oeil walls, with the suitably drab Hebrews on one level and their ornate Egyptian oppressors on another. It's a stimulating scenic commentary on the Old Testament of Rossini's time one that respects Mose as dramatic oratorio, keeps the strands of the story clear and leaves room for the music.

Ildar Abdrazakov's Moses has film-star looks tall and virile, with flowing locks matched to a majestic stage presence and a beautifully even bass voice. Erwin Schrott and Sonia Ganassi held their ground well as Mr and Mrs Pharaoh; Giuseppe Filianotti and Barbara Frittoli supplied the tenor/soprano love-interest, the latter coping admirably with Rossini's florid embellishments. Even in French, even camping on the northern outskirts of Milan, Moïse proves that La Scala is still the standard-bearer of Italian opera.

 

International Herald Tribune
17 December 2003

Milan's La Scala Opens Its Final Season at the Arcimboldi with a Rossini Rarity

by George Loomis

Can La Scala afford to remain elite at any cost? The question underlies the long-running dispute between the opera house's music director, Riccardo Muti, and its superintendent, Carlo Fontana.

For now, Muti's patrician, uncompromising artistic standards have prevailed, but you can't blame Fontana for trying to address the theater's problems: a 9 million euro (about $11 million) deficit, declining governmental support and perennial union difficulties. Among other things, he has suggested giving La Scala a more popular, even populist orientation.

If Fontana was the force behind 15 performances of West Side Story last July in the Teatro degli Arcimboldi (La Scala's temporary home while the 18th-century theater undergoes renovation), this season's initial offering, Rossini's grand biblical opera Moïse et Pharaon, epitomizes Muti's vision. French operas of seminal importance and Moïse is one turn up with some frequency at La Scala, in part because Muti recognizes how tightly bound they are to the Italian tradition. And Italian composers were at their best when writing for Paris.

Setting a pattern that Donizetti and Verdi would follow, Rossini's first ventures for the Paris Opera, in the late 1820's, were retooled versions of Italian operas fitted with new French librettos and giving ample space to the choruses, ballets and spectacle beloved of the French. Moïse, Rossini's second opera for the Opera, is based on Mosè in Egitto, written for Naples in 1818, but is best known in an unauthentic third version translated back into Italian. This time it was given in its pure French form, including even the lengthy ballet sequence.

The result was revelatory, and, ironically, a huge popular success. Rossini's treatment of the story of Moses leading his people to the Promised Land shows a noble side of the composer we rarely see. The tone is established at once with a moving choral ensemble in which the Hebrews ask the Lord for deliverance. The opera continues for four-and-a-half swiftly moving hours, weaving a network of ensembles, choruses and connective recitative but only two arias.

Luca Ronconi's production bluntly stressed the opera's religious theme by setting the action in a churchlike framework with a huge pipe organ, although mounds of simulated sand suggested the Egyptian desert. The latter made things tough for the dancers, and the church idea seemed contrived, but Ronconi compensated with the simple dignity of his treatment of the characters.

The sets by Gianni Quaranta, who collaborated with Ronconi on a production for Paris 20 years ago, met the challenge of the opera's final coup de théâtre in which the Red Sea waters part to allow the Hebrews to escape, then swallow up the pursuing Egyptians. Ronconi left the Pharaoh behind to witness in horror and despair the destruction of his men as the orchestra played a long descriptive postlude.

While Rossini took much from French tradition, his gift to France was florid, Italianate vocal writing, and La Scala's cast did it proud. The excellent young bass Ildar Abdrazakov gave Moses a welcome human dimension and his reflective singing in the fourth-act prayer, the opera's most famous number, was telling. Another bass, Erwin Schott, was a powerful menace as Pharaoh. Barbara Frittoli was in gleaming voice as Anaï, Moses's niece, who loves the Pharaoh's son Aménophis but gives him up to remain with her people. The frustrated Aménophis was sung by Giuseppe Filianoti in clear, ringing tones. The Pharaoh's wife, Sinaïde, who tries to mitigate tensions between Hebrews and Egyptians, has a highly charged aria that Sonia Ganassi dispatched with dazzling flair.

Muti brought out the glories of the score. Once again, the unflagging respect he shows a composer seemed not the result of pedantry but of a determination to let the music achieve maximum effect. The triumph of Moïse is heartening for those who react instinctively against any dumbing-down process. There are two more performances, but don't count on getting a ticket.

(C) 2003 International Herald Tribune
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Süddeutsche Zeitung
9. Dezember 2003

Der Schmerzensmann vom roten Meer
Dirigent Riccardo Muti und Regisseur Luca Ronconi eröffnen mit Rossinis „Moïse et Pharaon" die Scala-Saison

Bei der diesjährigen Scala-Eröffnung – zum letzten Mal vor der Wiedereröffnung des historischen Haupthauses im schicken Teatro Degli Arcimboldi am scheußlichen Industrie-Stadtrand Mailands – ging es zu wie immer. Die Ehrenwache hoch zu Ross glänzte, enorm viel Polizisten regelten, ein paar ferne „Demonstranten" verloren sich. Mittlerweile mutierte diese Mailänder „Inaugurazione" fast gänzlich zum Fernseh-Ereignis. Unzählige Teams raubten dem eher zurückhaltend elegant und grade nicht provokant luxuriös gekleideten Premieren-Publikum im Foyer alle Bewegungsfreiheit, verschafften ihm aber dafür das Gefühl, an einem Event mitzuwirken.

Nach alledem aber vermittelte die Aufführung selbst – die von Riccardo Muti dirigierte, in französischer Sprache gesungene Zweit-Fassung von Rossinis „Moses"-Komposition – eine erstaunliche, manchmal überwältigende, wenn auch überlange und wenig opernhafte Erfahrung.

Deutsche Opernfans bewundern Rossinis genialischen melodiösen Zauber, seinen trefflich sicheren Witz. Braust in den Finali seiner komischen Opern der Wirbel los, dann scheinen die verwirrten Figuren zu Ballett-Puppen zu erstarren. Das muss selbst den alten Beethoven, der Rossini nicht sehr leiden konnte, derart beeindruckt haben, dass er dem jüngeren Kollegen riet, er solle noch viele „Barbiere von Sevilla" komponieren.

Was Beethoven nicht wusste, und was sich sogar bis heute noch nicht wirklich überall herumgesprochen hat: Rossini fand auch bezwingende eigene Ausdrucksformen für Erhabenheit und Schmerz. Und zwar vor allem eben in dieser Oratorien-nahen „Moses"-Oper, die in zwei Fassungen (1818 und 1827) existiert. Man hört sie selten. Sawallisch setzte sich in München für die spätere „Moses"-Komposition passioniert, aber folgenlos ein. Auch der Dirigent und Scala-Chef Riccardo Muti dürfte gewusst haben, dass bei „Moses"-Aufführungen meist nur Achtungs-Erfolge herauskommen. Wer lechzt schon nach einem frömmelnden Rossini?

Aber Muti hat Mut. Er verbindet leidenschaftliche Vehemenz mit aggressiver Pedanterie. So wie er den Mailändern 1998 zur Scala-Eröffnung sechs Stunden deutschsprachige „Götterdämmerung", oder – vielleicht noch kühner – im Jahre 2000 ihnen einen „Troubadour" ohne hohes Stretta-C zumutete, so wagte er nun eine Auseinandersetzung mit Rossinis Ausflug in Erhaben-Alttestamentarisches. Wir hörten eine Komposition, die sich aus verschiedenen Stil-Dimensionen zusammensetzt. Dass Riccardo Muti, Süditaliener und Spezialist für den gestrengen, ernsten „Seria"-Ton, den getragenen, manchmal meditativ-schmerzlichen, manchmal wild klagenden Chor –Partien Gewachsen sein würde, war zu erwarten und beeindruckte sehr.

Das Werk enthält aber nicht nur großartige Chöre. Die Komposition handelt von den Leiden der in Ägypten gequälten Juden, vom unerschütterlichen, strengen Gott-Vertrauen des Moses. Sein Gegenspieler ist der eher zwiespältige Pharao, den seine Priester antijüdisch aufhetzen, während seine mittlerweile zum Judentum konvertierte Gattin beschwichtigt. Pharaos Sohn aber liebt die Nichte des Moses – welche sich keineswegs für ihn entscheiden will, sondern getreulich bei ihrem Volk und Moses bleibt, was aus dem prinzlich ägyptischen Tenor einen wütenden Rächer macht.

Inspirations-Mirakel

In der Partitur stehen Perlen, die zum Großartigsten gehören, was Rossini je schuf. Das Duett zwischen dem Prinzen und seiner Mutter im ersten Akt, das triste motorische Kreisen des Leitmotives, welches die „ägyptische Finsternis" darstellt, ein wunderbares Quintett am Ende des zweiten Aktes und natürlich jenes berühmte Gebet des Moses im Schlussakt: Es sind Inspirations-Mirakel sondergleichen, schmerzlich schön und unwiderstehlich.

Wie wurde der manchmal vielleicht zu rasche Muti fertig mit den eigentlich weit schwierigeren Anforderungen der anderen Dimensionen von Rossinis Partitur? So oft Rossini rezitativisch, „am Text entlang", komponiert und sich dabei Wagners musikdramatischem Konzept erstaunlich nähert, artikulierte Muti sorgfältig und einleuchtend. Aber wie näherte er sich jenen Klagestellen, wo man vom Text her Moll-Esspressivo erwartet, die aber bei Rossini italienisch-marschhaft-beschwingt klingen? Und keineswegs germanisch-depressiv. Dergleichen wirkt in diesem Werk nicht albern! Trauer äußert sich nämlich hier keineswegs bloß direkt, sondern auch rein ästhetisch: nämlich in der Differenziertheit des opulent gesetzten Klanges (so spielte Michelangeli später Beethoven). Allerdings gibt es in der „Moses"-Partitur auch ein paar regelrecht buffohafte Rossini-Flottheiten, die zweifellos mehr auf Effekt zielen als auf biblischen Sinn.

Nicht nur, weil die „Moses"-Oper nach der Rettung der Juden und dem Untergang der Ägypter verhalten lyrisch schließt, dürften alle Aufführungen kaum je stürmischen Erfolg erzielen. Sondern: Weil das Werk ein Zwitter ist, eine Mischung aus Handlungs-Oratorium und genialischen Opern-Effekten. Luca Ronconi, der Regisseur, tat gut daran, hier nur wenig zu dramatisieren. Er bot kostümiertes Oratorium, statuarisch ruhige Bewegungen in Gianni Quarantas sinnvoll gegliedertem Bühnenbild. Es wurde ohne Mätzchen, klug und durchaus konventionell vorgeführt, wie das rote Meer sich für die Juden öffnet und über den Nachfolgern, den Ägyptern, dann tödlich schließt. Wie sich die weiße Welt der Pharaonen vom Dunkel der gequälten Juden abhebt. Warum freilich das Bild einer großen Altar-ähnliche Orgel den Hintergrund ausmacht, blieb unklar. Und jedes Mal, wenn Ronconi der Versuchung nachgab, allzu realistisch zu pointieren – bei einer pfiffigen Violin-Melodie sah man einen Fiedler auf dem Felsen –, dann wirkte das gleich unpassender als die verhaltene Statuarik.

Oratorien-Sänger sind nur in geringerem Maße auch dramatisch handelnde Figuren. Das heißt, es kommt weniger auf ihr charakteristisches Verhalten an als auf die stimmliche Präsentation. Muti und Ronconi zogen daraus den Schluss, leiteten die Berechtigung ab, Moses und Pharao mit sehr jungen Sängern zu besetzen. Der Darsteller der Titelrolle war erst 27 Jahre alt, da hat sich Gott aber eine erstaunlich junge Vertrauens-Person ausgesucht! Ildar Abdrazakov besitzt eine kräftig-schöne Stimme, und bemerkenswert leise bot er den fast mystisch-angstvollen Beginn seines „Gebets" in verzweifelter Situation. „Interessant" freilich kann eine Figur stetiger strenger unanfechtbarer Gläubigkeit kaum sein. Pharao, der 31-jährige Südamerikaner Erwin Schrott, besaß nicht ganz die darstellerischen Mittel, Zerrissenheiten des Herrschers vorzuführen: wohl aber einen koloratursicheren Bass-Bariton.

Für Dramatik sorgen hier die Liebenden, also Barbara Frittoli, Nichte des Moses, die sich dem Pharaonensohn Amenophis verbunden fühlt. Diese Anai ist gewiss die operndramatisch-menschlich fesselndste Figur des Werkes. Sie fügt oft kleine melancholische Sexten oder Moll-Terzen in die Ensembles, leidet unter dem Zwiespalt zwischen religiöser Pflicht und amouröser Neigung. Vielleicht blieb und wirkte die vorzügliche Frittoli doch etwas zu kühl. Glühende Verliebtheit sprach keineswegs aus ihren Tönen und Gebärden. Und die religiöse Gehirnwäsche, der sie von ihren Angehörigen unterworfen wird, konnte nur allzu leicht glücken. Trotzdem blieben die Pfiffe des Mailänder Premieren-Publikums für die Frittoli mir unverständlich. Wer weiß, welche Claquen-Verstrickungen dahinter stecken. Als Entdeckung im hoch akzeptablen Solisten-Team (Sonia Ganassi, Nino Surguladze, Giorgio Giuseppini) wurde der Tenor Giuseppe Filianoti gefeiert. Eine strahlende, schmetternde, klug beherrschte, vielleicht noch des lyrischen Schmelzes entbehrende Stimme. Der Sänger ist erst 29 Jahre alt.

Es war eine durchaus authentische Aufführung der französischen Fassung des Rossini-Werkes, das man in Italien doch eher in italienischer Rückübersetzung bietet. Zur französischen Oper gehört natürlich auch, gewiss mehr als zum alten Testament, ein Ballett: „Ägyptologisches" Tanzen wegen der Bühnenbild-Schräge ein wenig behindert (Choreographie: Micha van Hoecke). Man lernte kennen und fand recht hübsch. Alles in allem dauert die Aufführung dadurch viereinhalb Stunden. Großer Beifall. Wer weiß, ob die musikalischen Mirakel, die Perlen der Partitur, in einer rücksichtslos gekürzten Fassung nicht vielleicht sogar einen Sensationserfolg hätten erwirken können.

JOACHIM KAISER

 

Neue Zürcher Zeitung
9.12.2003

Rossini serio
Saisoneröffnung an der Mailänder Scala

«Il turco in Italia», «Il barbiere di Siviglia», «La Cenerentola» - damit ist Gioachino Rossini in seinen jungen Jahren wie ein Komet aufgestiegen: am Himmel Italiens, aber auch an jenem vieler anderer Länder Europas. Der leichte Witz seiner komischen Opern, das Tempo, um nicht zu sagen der Drive seiner Musik, seine Art des Spannungsaufbaus und nicht zuletzt die virtuose Faktur der Vokallinien, das alles führte zu einer regelrechten Manie, wo immer seine Werke erschienen. Noch nicht dreissig, konnte sich Rossini aussuchen, was er wollte, und so suchte er sich Neapel aus, das Teatro San Carlo, wo er zwischen 1815 und 1823 zusammen mit dem Impresario Domenico Barbaja zu künstlerischem und - da im Foyer ein Spielkasino betrieben wurde, an dessen Ertrag er teilhatte - finanziellem Grosserfolg kam.

Aus der Schublade gezogen

In Neapel nahm Rossini freilich auch eine Änderung seiner kompositorischen Ausrichtung vor. Er wandte sich der Opera seria zu, und in diesem Zeichen entstand - von «Elisabetta, regina d'Inghilterra» über «La donna del lago» und «Zelmira» bis hin zu «Semiramide» - ein bedeutender Teil seines Œuvre, der heute allerdings weit weniger gespielt wird und darum kaum bekannt ist. Zu diesem Umfeld gehört auch «Mosè in Egitto», die «azione tragico-sacra», die Rossini zur Fastenzeit 1818 schrieb und im Jahr darauf in einer bearbeiteten Version vorlegte. «Israel in Ägypten», die Auseinandersetzung zwischen Moses und Pharao und der Gang durchs Rote Meer, das ist das Thema, und formal handelt es sich um ein szenisches Oratorium mit dementsprechend hohem Anteil des Chors. Und genau dieses Werk hat Rossini 1827, als er auf der Höhe seines Ruhms in Paris an seinem so lukrativen wie umstrittenen Vertrag mit dem Königshaus arbeitete, aus der Schublade gezogen.

«Moïse et Pharaon ou Le Passage de la Mer Rouge» heisst das Werk nun - und es ist weit mehr als eine Übersetzung von «Mosè in Egitto» ins Französische. Auch mehr als eine Anpassung an die Gepflogenheiten der Pariser Opéra, zu denen etwa das ausführliche Ballett in der Mitte des Stückes zu zählen ist. Weil «Mosè in Egitto» nach Aufführungen im Théâtre italien bekannt ist und weil Rossinis Vertrag die regelmässige Produktion neuer Stücke vorsieht, ist der Komponist fast ängstlich darauf bedacht, «Moïse et Pharaon» nicht als Zweitauflage erscheinen zu lassen. So erhält das Stück einen zusätzlichen Akt, den ersten, in dem das Geschehen verankert und gleichzeitig der wiederum neue Ton exponiert wird, den sich Rossini für Paris aneignet. Es ist der Ton der Tragédie lyrique mit ihren grossen und doch so bewegten Chören. Betont wird auf der anderen Seite die private Intrige, die Liebesbeziehung zwischen dem ägyptischen Prinzen Aménophis und Anaï, der Nichte von Moses - und hier herrscht die vertraute, allerdings auf einsame Höhen getriebene Koloratur. Auch in dieser Pariser Fassung stösst das Werk sogleich auf Zustimmung, weshalb es, unter dem simplen Titel «Mosè», rasch wieder ins Italienische zurückübersetzt wird. Wenn das Stück in der jüngeren Vergangenheit gespielt worden ist, so in dieser sozusagen vierten Version. Für die festliche Saisoneröffnung der Mailänder Scala, der letzten im Ausweichquartier des Teatro degli Arcimboldi am nördlichen Stadtrand, hat Riccardo Muti nun aber auf das französische Original zurückgegriffen. Ein echtes Verdienst, denn mit «Moïse et Pharaon» kann eine grossartige Partitur des reiferen Rossini entdeckt werden, und das auf musikalisch erstklassigem Niveau. Obwohl in dem akustisch ungünstigen Raum des Teatro degli Arcimboldi alles merklich entfernt klingt, setzt Muti nicht auf die grosse Wirkung, sondern vielmehr auf die klangliche Differenzierung - und das Orchester der Scala mit seinen erlesenen Holzbläsern und dem agilen Streicherkorps folgt dem Dirigenten bis in die letzten Verfeinerungen der Phrasierung und der Farbgebung. Prächtig auch der mit gegen einhundert Mitgliedern versehene Chor der Scala, der von Bruno Casoni zu sorgsamer Artikulation des Leisen wie zu üppiger Kraftentfaltung geführt worden ist.

Steifer Klassizismus

Im Übrigen gibt es auf der Bühne einige italienische Erscheinungen. Deren erste und bedeutendste betrifft die Diktion, die nach allem, nur nicht nach dem Französischen klingt - angesichts der expliziten Absicht, «Moïse et Pharaon» in der französischen Originalfassung aufzuführen, ein Paradox der eigenen Art. Auch stimmlich scheint nicht das Optimum getroffen. Die Bässe von Ildar Abdrazakov (Moïse) und Giorgio Giuseppini (Osiride) bleiben schwer und nur schwer; mehr Beweglichkeit legt der Bariton Erwin Schrott (Pharaon) an den Tag, während Giuseppe Filianotti (Aménophis) einen herrlichen italienischen Tenor ins Spiel bringt. Unter den Sängerinnen treten Sonia Ganassi (Sinaïde) mit ihrem hellen Sopran und vor allem Barbara Frittoli heraus, welche die ebenso ausdrucksstarke wie virtuose Partie der Anaï souverän meistert. Die szenische Seite aber - nun ja. In auffälligem Kontrast zu der modernen Architektur des Hauses, in dem die Scala ihre erste und zugleich letzte Neuinszenierung der Saison 2003/04 präsentiert, herrscht auf der Bühne monumentaler, steifer Klassizismus. Die mächtige Orgel, die der Bühnenbildner Gianni Quaranta in diversen Konstellationen erscheinen lässt, steht wohl für den religiösen Dogmatismus, von dem das Stück handelt, aber auch als Verweis auf seine oratorischen Quellen. Der Boden, gewellt und sandbeige, deutet auf die Wüste, behindert aber in erster Linie die Darsteller und bindet dem Choreografen Micha van Hoecke die Hände. Den Regisseur Luca Ronconi, der an seine Pariser Inszenierung von 1983 anschliesst, lässt er dagegen kalt; er hat sich ohnehin aufs blosse Arrangieren beschränkt.

Peter Hagmann

 

Berliner Zeitung
10.12.2003

Die Ordnung der Pfeifen
Luca Ronconi und Riccardo Muti bringen Rossinis "Moïse et Pharaon" in Mailand heraus

von Klaus Georg Koch

Es ist vielleicht nur eine glückliche Illusion, die den Deutschen das Bild der Orgel vor allem mit dem Anheimelnden der Ordnung verbinden lässt, verlässlich umweht von einer Idee von Lebkuchenduft und wohlsortierter Knabenchöre. Die Kunst der Gegenaufklärung hat es überdies verstanden, in den Orgelprospekten die militärische Aufstellung der Pfeifen durch die schwungvolle Auflösung der Konturen zu konterkarieren; wie sich hier Herrschaft und Gefälligkeit verbinden, das macht die ausgeleierte Metapher von der Orgel als der "Königin der Instrumente" verständlich. Aber es gibt sie doch, die kalte Herrschaftsgeste, die gnadenlose Repräsentation der Ordnung, und sie hat der Regisseur Luca Ronconi im dritten Akt seines neuen "Moïse" am Teatro alla Scala zitiert, blankes Empire, durch ägyptische Wächterfiguren eher verschärft als verziert. Diese Orgel beherrscht die Bühne, während die Ägypter mit neu erstarktem Selbstvertrauen das Lob ihrer Göttin Isis anstimmen. Bereits im Libretto von Balocchi und de Jouy erinnern die Anrufungen der "Himmelskönigin" an den katholischen Marienkult, Ronconi stellt zusätzlich eine Gestalt mit Bischofsmitra und Stab auf eine Empore am Bühnenrand.

Wenn es in dieser Neuproduktion eine Frage gibt, die spannend genannt zu werden verdiente, dann die nach diesem kreidefarbenen Kirchenfürsten. Denn der Mann geht, anders als die gottlosen Ägypter, im Roten Meer nicht unter. Er tut den Hebräern nichts, zieht mit ihnen aber auch nicht durchs Meer. Er west nur an, um es mit Heidegger zu sagen, zu viel, als dass man von ihm absehen könnte, zu wenig, als dass etwas daraus folgte. Vermutlich versteht man das nicht, ohne die Natur der Öffentlichkeit in Italien in Betracht zu ziehen. In Deutschland ist neben dem Dirigenten der Regisseur von Interesse, an seine Arbeit knüpft sich die Möglichkeit öffentlicher Diskussion. In Italien, das seine feudalen Strukturen weit kräftiger erhalten hat, läuft indessen alles auf den Dirigenten zu: Er, in diesem Fall Riccardo Muti, soll bewundert werden. Und so hat das, was auf Ronconis vollgestellter Bühne diskursfähig genannt werden könnte, seinen Platz auf der gesellschaftlichen Seitenempore: Die kalt blitzende Empireorgel erscheint als das Symbol einer Restauration in direkter Zeitgenossenschaft mit Rossinis Pariser Komponieren, nachdem ein im ersten Akt aufgestelltes Vorgängermodell den durch Moses hervorgerufenen schrecklichen Zeichen Gottes zum Opfer gefallen ist.

In dieser Lesart von der Seite wirkt der Exodus der Juden aus dem falschen, ihrem Glauben feindseligen Leben wie eine Anspielung auf moderne eschatologische Theologien, etwa der Jürgen Moltmanns, und die vertikale, den Ägyptern zugewiesene Ordnung der Orgelpfeifen erschiene jener horizontalen der Meereswellen entgegengesetzt. Aber Rossinis Grand Opéra, die schon die Librettisten lieber als Oratorium bezeichnet hätten, ist in ihrer endlosen Folge ergreifender Anrufungen von Gott und Göttern selbst eine ausgesprochen statische Sache. Dieser Statik, dem frontalen Blick auf die Szene, arbeitet Ronconi zu. Das Bühnenbild ist vertikal gegliedert, unten tut sich, wie später in "Aida", ein gruftartiger Raum auf, das Heim der Sklaven, diesem vorgelagert stehen steinerne Piedestale, auf denen die Solisten posieren, über der wüstenhaft angewehten Hauptebene erheben sich die Orgel-Throne für den Pharao und seine Frau.

Versammeln sich alle, Protagonisten und Chöre, zum gemeinsamen, ineinander verflochtenen Gesang - und das ist, gegen alle hergebrachte Arienseligkeit, das eigentümlich Neue dieser Oper gewesen -, dann entstehen klangliche Tableaus von eindrucksvoller Komplexität. Wie eindrucksvoll, das hat Balzac in "Massimilla Doni" bis ins Detail geschildert. Aber heute, wo die Seelen sich gegen die Wirkung der Musik abgehärtet haben und die Begeisterung für Völker im Befreiungskampf verflogen ist? Im Riesenkino des "Teatro degli Arcimboldi", dem neu erbauten Ausweichquartier der alten, sich im Umbau befindenden Scala, sieht man nur noch die Sänger selbst, die sich in den immer gleichen Priestergewändern vor das Publikum stellen.

Die Musik und ihre Darsteller werden zu etwas Sakralem, das vor allem ist der Eindruck, den Muti mit seinen musikalisch und gesellschaftlich prunkvollen Saison-Premieren gibt. Vor fünf Jahren hat Muti den Opernbesuchern das Textbuch zur "Götterdämmerung" nach Hause schicken lassen; ohne Vorbereitung, so der Dirigent, habe das Hören wenig Sinn. Und in eben dieser Absicht, seine Landsleute zu disziplinieren, wählt er für die großen Saison-Premieren solch ausgedehnt feierliche Werke aus wie dieses.

Nur hat die Repräsentation dieses Sakralen eben auch etwas Autoritäres und sozial Erstarrtes. Musikalisch ist alles so kunstfertig richtig, dass leicht auch die Grenze zur Langeweile überschritten wird; aus dem Spiel der Instrumentisten, aus dem Gesang der Solisten ist alles Spontane verbannt im Namen des Schönen. Aber sollte es das Gleichgewicht als Endzustand der Musik überhaupt geben, so bringt es bei Muti auch die Gefahr mit sich, dem gelegentlich Mechanischen in Rossinis Musik zum Opfer zu fallen. Und das gilt auch für die Sänger: Ihre Besetzung ist so erlesen, dass sie staunen lässt, Giuseppe Filianoti etwa ist einer jener ganz seltenen Tenöre, in denen sich lyrische Beweglichkeit und baritonale Kraft verbinden, den bis zur Lächerlichkeit unentschlossenen Helden stellt er mustergültig dar. Auch Sonia Ganassi bringt das Dekor der Koloraturen mit dem eindringlich getragenen Ton, die Beweglichkeit mit der Kraft zusammen. Dass die Sänger im Luxus aber auch eingesperrt sind, das zeigt sich bei Barbara Frittoli deutlich, die in ihrer Arie im vierten Akt zu spitz artikuliert, Koloratur und Volumen nicht richtig verbindet. Es ist nur nicht einfach ein technisches Problem. Jene Subjektivität, mit der Frittoli sonst ganz hinreißend überzeugt, findet sich in der objektiveren Schreibweise Rossinis schon weniger, und Muti macht seine Musik auch noch von diesen Spuren rein.

 

>Mundo Clasico
19.12.2003

Un gran Rossini inaugura la temporada de La Scala

Jorge Binaghi

La prueba de que se puede, cuando se quiere. Cuando se piensa con seriedad y responsabilidad y se trabaja de la misma manera. La Scala ha conseguido una de sus grandes noches, de sus grandes inauguraciones, y sin apelar a títulos conocidos ni a algún divo que no siempre responde a las expectativas. Por supuesto la dirección del espectáculo correspondía a Riccardo Muti, que a su vez se mueve en este repertorio -el Rossini serio francés- con un dominio soberano. Capaz de hacer hablar a la notable partitura hacia el futuro, pero sobre todo, de mostrarla como el intento de comprensión de todo lo que ha precedido y estaba más o menos vigente en el teatro lírico francés de la ópera: prueba concluyente de la capacidad, la seriedad y el genio de Rossini.

Hemos escuchado los ecos de la tragedia lírica francesa, Gluck y en ciertos momentos el romanticismo incipiente que en algún fragmento hace pensar que una década después llegaría el terremoto de Nabucco. La orquesta era inmejorable y tocaba con reales ganas, además de capacidad. Y qué decir del coro preparado por Casoni? Pues que estaba a la altura de su fama. Tal vez la puesta de Ronconi no haya sido la mejor de él, y haya parecido un tanto apagada, lenta, estática, reiterativa y algo déjà vu. Pero no en vano el director es uno de los grandes del teatro italiano y hubo detalles, momentos, escenas enteras de absoluta perfección (lástima los decorados poco funcionales y poco bellos de Quaranta). La coreografía fue en cambio absolutamente desdichada, y sólo la salvaron los solistas y en particular el magnífico primer bailarín, Roberto Bolle.

Pero Rossini, serio y francés o cómico e italiano (y con todas las combinaciones posibles sobre estas dos), escribía para voces, y también aquí hacen falta. A algún crítico y a algunos espectadores de la primera (transmitida por radio) les pareció poco adecuada la Frittoli. El rol de ‘Anaï’ tiene un aria final dificilísima y en el resto es técnicamente complejo y requiere una gran musicalidad y una alta escuela. La Frittoli las posee; el timbre será algo liviano y ciertamente es una parte -que abordaba por primera vez- en la que no le convendría prodigarse (no creo que tenga oportunidad, vista la escasez de reposiciones). Dicho esto, estuvo en gran forma; cantó con su voz y no se inventó otra, no forzó ni desafinó, ni exigió a su grave imposibles. No creo que en Italia o fuera de la península haya muchas (si hay alguna) que canten con la misma consistencia y resultados parejos.

Sonia Ganassi es, por su parte, una cantante rossiniana nata y donde puede exhibir mejor, desde mi punto de vista, sus cualidades. El papel de ‘Sinaïde’ no es largo, pero tiene frases y sobre todo el aria final del segundo acto -con coro y tenor acompañantes- que le permitieron obtener un legítimo triunfo (la ovación mayor de la noche) con unas variaciones, una agilidad, una homogeneidad y flexibilidad en su extenso registro de veras de antología. Filianoti es un excelente elemento, aunque aquí el agudo denote que tiene límites (que jamás sobrepasa y que utiliza además en su favor para lograr efectos expresivos). Tiene que cantar mucho una parte ingrata por donde se la tome, y también él, sin ser un especialista en el autor, logra adecuarse al estilo y a cumplir con las exigencias del rol. Erwin Schrott, llamado a sustituir a un enfermo Ildebrando D’Arcangelo, cantó con su voz de bajo cantante, pastosa y sonora, el ‘Faraón’ que es más bien un bajo-barítono o un barítono. No se le puede pedir entonces el brillo en el agudo que hubiera sido deseado, pero si se descuenta eso (y las notas las dio), su intervención fue memorable y denotó una alta escuela de canto y un excelente dominio del francés (como por otra parte el resto, salvo el protagonista).

Justamente, Ildar Abdrazakov, que por suerte no tiene aquí coloraturas, pudo dejar expandir su timbradísima voz en las amplias frases de ‘Moïse’, aunque el volumen pareció irregular en la entrada y en la gran escena de conjunto del segundo acto. Pero empezó la famosa plegaria del final (esa que Toscanini quiso que resonara en la Scala en la reapertura de 1945, después del bombardeo) en pianísimo y fue perfectamente audible. Cuando se dice que los comprimarios, todos, hicieron más que cumplir, se dice mucho. Fueron la ‘Marie’ de Nino Surguladze, una mezzo que promete, los bajos Maurizio Muraro (‘voz misteriosa’) y Giorgio Giuseppini (el papel más importante de los nombrados, el sacerdote de Isis). Pero cuando se advierte que el segundo tenor (que también tiene que cantar, mucho y qué parte: este Éliézer fue, por ejemplo, cantado por Francesco Merli en este mismo teatro) es un para mí desconocido Tomislav Muzec y resulta formidable, uno tiene que descubrirse ante quien ha preparado este reparto. Con el agregado de que habrá una función en la que todos los papeles, menos el de Frittoli, se confiarán a jóvenes cantantes prometedores, y eso también es una excelente política artística.

De todos modos, lo principal es que la Scala ha podido responder a su nombre y, más importante, que ha servido a Rossini. Las circunstancias de estos días, por lo demás, vuelven la elección del título absolutamente actual, demuestran la vigencia que pueden tener estas óperas olvidadas o abandonadas y hacen aún más admirable ese final nada triunfal, más bien pensativo con que la orquesta rubrica el episodio del paso del Mar Rojo. Si ese breve posludio final y la ya mencionada plegaria pudieran servir para lo que la música tendría que servir siempre, que es unir a las personas en la hermandad de su condición -que no sabe ni de religiones, ni de sexos, ni de colores- tal vez la contribución de la Scala al "patrimonio de la humanidad" sería aún mayor y un buen regalo de fin de año. Pero sin pedir imposibles (que siempre se deben pedir o desear al menos), ya con esto tenemos mucho.

 

EL MUNDO
Lunes, 08 de Diciembre de 2003

OBRA DE ROSSINI
La ópera 'Mosé' abre la temporada de La Scala con gran éxito

EFE


Una escena de la representación en la Scala. (Andrea Tamoni)

ROMA.- 'Mosé in Egitto', de Gioachino Rossini, abrió la temporada del Teatro de La Scala de Milán con un gran éxito, resumido en los más de 10 minutos de aplausos ininterrumpidos con los que el público reconoció el trabajo de músicos e intérpretes.

"Mágico", "colosal" o "potente" son algunos de los epítetos con los que los críticos de diversos medios han saludado la primera representación de la temporada en el Teatro degli Arcimboldi milanés, sustituto todavía este año de La Scala, sometida a obras de rehabilitación.

Estrenada en el Teatro San Carlo de Nápoles en 1818, la versión llevada anoche el escenario milanés es la que el propio Rossini rehizo en 1827 y ayer estuvo dirigida por Luca Ronconi, con Riccardo Muti al frente de la orquesta y Ildar Abdrazakov (Moisés), Erwin Schrott (el faraón), Giuseppe Filianoti (el príncipe) y Barbara Frittoli (Anaide) como principales intérpretes.

Una obra de gran dificultad

Los críticos han destacado la fuerza en la actuación de la orquesta, magnífica ejecutora de la partitura de Rossini en manos de Muti, que como director artístico de La Scala fue quien eligió esta obra difícil para inaugurar la temporada.

La ópera de Rossini cuenta con partes de danza, que subrayaron el valor de todo el conjunto de la obra, mientras las dudas sobre el montaje de Ronconi quedaron rápidamente suprimidas, en especial en el sugerente pasaje de las aguas del mar Rojo que se abren al paso de los judíos errantes.

La gran triunfadora es la música de Rossini, según la opinión general, en una noche que vio en Gli Arcimboldi a los famosos habituales de este tipo de eventos, como artistas, personas de la moda y políticos.