Corriere della Sera
mercoledì, 22 dicembre 2004

ELZEVIRO. Massenet alla Fenice

Quando il Re va in Paradiso

Sulla scena dame eleganti, ballerini e un elefante d' argento Venezia, Teatro della Fenice. Prima esecuzione, dopo non so quanti anni in Italia, del Roi de Lahore di Massenet. Oserei dire che, dopo la Traviata, dovuta soprattutto a incombenze storiche per la riapertura del Teatro, sia questa la vera inaugurazione della attuale stagione, col segno del direttore artistico Sergio Segalini. Si tratta, anche per l' eccellenza esecutiva, di una delle più importanti inaugurazioni italiane di stagione. Tento di spiegarne il perché, di là dal fatto che Massenet è uno dei genî del teatro musicale ottocentesco e che il Roi de Lahore, 1877, è l' Opera che in tutt' Europa lo consacra tale, innanzitutto in Italia, con manifesto sdegno di Giuseppe Verdi. Innanzitutto, se posso parlare in prima persona, il Roi mi ha fatto scoprire il Paradiso ove, post mortem, vorrei soggiornare. La mia elezione primaria sarebbe il Nulla. Ma se fossimo condannati ad avere una vita oltre la morte fisica, certo non vorrei il Paradiso cristiano, cogli Angeli, coi Santi, a cantare il perpetuo Inno di Gloria e Misericordia, in aggiunta ai Salmi. Che noia! Nel III atto dell' Opera di Massenet, vediamo il Paradiso siccome concepito dal dio indoeuropeo Indra. Complice l' astuta regia di Arnaud Bernard, ci troviamo in un padiglione vitreo del genere delle Esposizioni Generali di Parigi. Dame elegantissime intrattengono il pubblico, il Dio accetta, quale monarca, la presentazione degli ospiti, offre da bere a tutti e con tutti amabilmente s' intrattiene. Ballerini d' ambo i sessi promettono agli ospiti stessi piacere. Il fondo sono gli squisiti Airs de Ballet di Massenet. Comprendo allora quanto assurde siano le pretese di premettere alla Costituzione Europea presunte radici "giudeo-cristiane". Io non le sento proprio in me. Aggiungo un particolare: san Gennaro viene annesso quale Santo a tale Weltanschauung. In realtà è una divinità in proprio, come Indra. Se quel coglione di genio come Julius Evola, invece di cercare nel mondo iperboreo il Santo Graal (Sang Realis) si fosse fermato a Napoli, l' avrebbe trovato nel Sangue del Santo. Ma torniamo a Massenet. Quest' Opera può essere affrontata sotto diversi profili critici. Il primo è quello della voga dell' Orientalismo musicale: ma del tema tante volte ci si è occupati che non vale la pena tornarvi, tanto più che l' Autore non pare dedicarvi più che un ossequio dovuto. Ben più conta la novità stilistica dal Roi rappresentata, in particolare nei rispetti dell' Opera italiana. Giacché il Roi, dopo aver percorso la nostra penisola, fu uno dei massimi successi della Scala, e proprio ad opera di Ricordi, l' editore di Verdi. Ora, se in qualsiasi brano di Verdi da ogni singola nota della melodia emana severa eticità, il tipo melodico di Massenet è d' un' innocenza etica assoluta, vale a dire prende posizione solo sul piano estetico: e quivi il genio dell' Autore è del tutto vincente. Ciò non significa manchi una drammaturgia, anche, come nel Re di Lahore, potentissima: solo che la ricca invenzione melodica e armonica non è per principio sottoposta a un criterio etico-drammaturgico. Donde l' aspetto rivoluzionario che un' Opera del genere poteva alla fine del decennio ' 70 avere sui compositori italiani: a prescindere dalla totale alienità del conio melodico di Massenet rispetto a quello verdiano, dalla sua genialità di orchestratore e armonista. Ed era solo il primo suo capolavoro.... Questa meraviglia è allestita alla Fenice con la regia di Arnaud Bernard, le scene di Alessandro Camera, i costumi di Carla Ricotti. Cosa a sé rappresenta il Paradiso di Indra, ambientato con grande chic in una sorta di Terza Repubblica, il Dio che giunge su di uno splendido elefante argenteo. Il resto dell' Opera si svolge invece con grande austerità secondo didascalia storica. La drammaturgia registica è di somma efficacia. Dirige il maestro Marcello Viotti, di sicuro un talento di atto pratico. Il suo esser presente quasi ogni sera sui podî di tutt' Europa e al tempo stesso aver curato un' "edizione critica" della partitura di Massenet deve avergli sottratto tempo per una rifinita concertazione, il risultato essendo così strepitoso da costringere anche l' ottima compagnia di canto a sforzarsi ultra vires pur di farsi ascoltare: né si parli di quelle nuances che sono uno dei tratti tipici dello stile di Massenet. La protagonista femminile è Ana Maria Sanchez, che sarebbe eccellente se non dovesse fare sforzi disumani per sormontare l' orchestra; il tenore Giuseppe Gipali si amministra con ben maggior prudenza, esibendo il massimo del volume e il brunito del timbro solo alla fine. Una vera rivelazione baritonale è Vladimir Stoyanov, non fosse la manchevole dizione francese; laddove il basso rodigino Riccardo Zanellato si mostra di pari valore vocale ma padroneggia perfettamente la lingua. L' elegante dio Indra è Deyan Vatchov, mentre i couplets della parte travesti sono ammirevolmente cantati da Cristina Sogmaister. Successo superiore a ogni attesa.

Paolo Isotta

 

IL GAZZETTINO
20 dicembre 2004

Il ritorno del "Roi di Lahore" alla Fenice

Venezia. La Fenice continua nella illustrazione del repertorio romantico francese ancora mal noto. La ripresa di "Le Re di Lahore" di Massenet costituisce un ulteriore interessante tassello conoscitivo. È un'opera di larghe dimensioni, in cinque atti, che presenta una "tinta" esotica, anzi indiana, prediletta dalla cultura parigina del tempo. In questo lavoro giovanile del 1877, costruito sull'eccentrico libretto di Louis Gallet, aperto abilmente al colore romanzesco e all'illusione teatrale, Massenet può agevolmente spaziare nelle iperboli sinfonico-corali, e nelle introspezioni melodrammatiche - come d'altronde esigeva un genere al crepuscolo, il "grand-opera".

L'intreccio prevede persino una doppia morte del protagonista, il Re di Lahore Alim, che ascende al Paradiso degli Indù (in cui si svolge l'intero terzo atto) e che ottiene una temporanea resurrezione per potersi riunire all'amata sacerdotessa Sità, insidiata dall'ambizioso Scindia. Gli scontri bellici tra musulmani e indù e gli affreschi sacrali si sovrappongono al consueto triangolo melodrammatico, un soprano, un tenore e un baritono, con la morte per amore di Sità e Alim, concepita come edulcorato ingresso nel mondo celestiale del dio Indra. C'è di conseguenza una continua oscillazione tra languore delle passioni e ardori guerreschi e mistici. Il personaggio più definito è quello di Sità, tipica eroina massenettiana; lo stesso ardente protagonista, il Re di Lahore, vive nell'orbita della sacerdotessa al pari della figura crudele di Scindia. Si scorgono i riverberi di un humus europeo-condiviso da Berlioz, Gounod, Bizet, Verdi e Wagner - cui Massenet aderisce con una lingua melodica accattivante e con un personale ricorso allo stile recitativo, all'arioso e al cantabile sottilmente intrecciati, in funzione dell'inquieto vagare dei sentimenti. Nelle evasioni liriche, negli incontri dei due innamorati e persino nelle effusioni perverse di Scindia, si coglie la vera natura di Massenet, con doni melodici che lasceranno una traccia nel gusto nevrotico di Ciaikovskij e di Puccini. In particolare emerge la maestria compositiva non solo nelle arie patetiche, ma anche nei sinuosi, elaborati duetti che costellano la partitura. L'orchestrazione sapiente è rotta a tutte le seduzioni romantiche e persino protesa verso il nuovo secolo. Naturalmente questo giovane Massenet rende anche omaggio alle convenzioni del genere e cede più di qualche volta ad una enfatica cornice decorativa.

Difficile la realizzazione scenica e musicale di quest'opera a suo modo importante sul piano storico, ma anche discontinua e a tratti ripetitiva, specie nel quarto e nel quinto atto. Il regista Arnaud Bernard intende evocare l'esotismo con l'occhio parigino del secondo Ottocento. Questa scelta funziona benissimo nel terz'atto: il paradiso indù vive in una serra ottocentesca, in cui i beati non sono altro che gli spettatori di una esibizione di balletto. È ancora l'artificio del teatro nel teatro, con coreografie accortamente stilizzate di Gianni Santucci, che esaltano la qualità musicale delle danze. C'è anche un ironico film muto, molto divertente, una specie di India tropicale inizio di secolo che contrappunta le danze. Curioso poi l'ingresso parodistico del dio Indra su un elefante di cartapesta. Anche la battaglia mimata tra musulmani e indù rivela il segno di una forte personalità registica. Ma per il resto lo spettacolo ricade nel consueto orientalismo archeologico e di maniera, anche per la resa disuguale della scenografia di Alessandro Camera e dei costumi di Carla Ricotti. Marcello Viotti è il magistrale rievocatore di questo dramma orientalistico e tocca tutte le corde massenettiane: gli empiti marziali e l'epicità narrativa, come il lirismo divagante e mobilissimo. A Viotti dobbiamo la cura dell'edizione critica per Hengel, che ha messo ordine tra fonti contraddittorie. La ripresa veneziana presenta dunque una singolare attendibilità filologica. Orchestra compatta, vigorosa, ma anche trasparente; vibrante il coro preparato da Emanuela di Pietro.

La distribuzione vocale è nel complesso notevole. Spicca il soprano Anna Maria Sanchez, nonostante qualche transitoria forzatura, nell'impervio ruolo appassionato da lirico spinto di Sità (una voce da Aida); il corretto tenore Giuseppe Cipali (Alim) aspira forse troppo a emissioni eroiche; splendide le voci gravi di Vladimir Stoyanov (Scindia), di Riccardo Zanellato (bronzeo sacerdote Timur) e di Federico Sacchi (Indra). Molto elegante il mezzosoprano Maria Josè Montiel nel piccolo ruolo di Kaled, il paggio che nel secondo atto canta con la principessa un duettino e poi una solistica serenata "repose o belle amoreuse", degni di Berlioz. Pubblico numeroso e cordiali consensi.

M. M.

 

La Nuova Venezia
20 Dicembre 2004

LA RECENSIONE
Tragiche voci d’Oriente
Applausi per "Le roi de Lahore" riletto da Viotti

di Mirko Schipilliti

VENEZIA. Marcello Viotti e l’opera francese: con la sua venuta alla Fenice ha rinforzato la linea avviata in precedenza da Samson et Dalila di Saint-Saëns, per proseguirla con Thaïs di Massenet, Les pêcheurs de perles di Bizet e ora con Le roi de Lahore, grand’opéra, ancora di Jules Massenet, ambientato fra induisti e musulmani, nuovo allestimento della Fenice e prima italiana di una nuova edizione critica curata dallo stesso Viotti.

Secondo titolo della stagione lirica 2004-2005 al Teatro La Fenice, in scena da sabato scorso e ieri (repliche il 22, 23, 28 dicembre, 2, 4 e 5 gennaio), Le roi de Lahore, seppure ben scritta, non sembra un capolavoro, non rappresentata in Italia da più di un secolo, fatto capolino alla Fenice nel lontano 1878, opera sontuosa e fluviale, nell’orchestrazione e negli interventi delle masse corali, pochi i temi principali, orientalismo stilizzato e bozzettistico. Ma il bravissimo Viotti possiede per fortuna un grande senso del teatro, e dall’opera di Massenet sa estrarre tutta ka drammaturgia necessaria, senza dare l’impressione di punti deboli né di lungaggini, evidente soprattutto nella concertazione dei recitativi accompagnati, dove l’orchestra, con ottima risposta, rispecchiava tutta la psicologia scenica. Una visione, quella di Viotti, che nell’incombente e costante fatalismo che anima l’opera giungeva a toccare il tragico, lungo una vivida tensione dove lo slancio lirico dell’orchestra si fondeva con le voci senza prevaricazioni. Emergeva una scrittura orchestrale accesa da Viotti escludendo qualsiasi pesantezza, facilitando invece trasparenze ai fiati, soprattutto, e sostenendo il canto con raffinatezza esemplare. Coro compatto e ben preparato da Emanuela Di Pietro. Nel corposo doppio cast primeggiava Giuseppe Gipali (Alim) ricco di slancio eroico e brillante tenuta vocale. Bella presenza scenica anche in Riccardo Zanellato (Timour), impegnato in un’interpretazione carica di tensione, e in Vladimir Stoyanov (Scindia), pulizia vocale di spiccata cantabilità. Meno convincente Mara Sanchez (Sita), che non mostrava sempre una sicura tenuta vocale, nell’intonazione soprattutto e nel generico lirismo poco calato nella finzione operistica del momento. Molto bella invece la prova di Cristina Sogmaister, nella difficile parte per mezzosoprano per Kaled. Ricordiamo Federico Sacchi e alle repliche anche Giorgio Casciarri, Annalisa Raspagliosi, Marcin Bronikowski, Deyan Vatchkov, Barbara De Castri, Francesco Verna. La regia abbastanza tradizionale di Arnaud Bernard prediligeva pose statiche e poco dinamismo, le scene di Alessandro Camera porgevano un oriente intuito senza esagerazioni, con un paradiso di beati in versione primo ‘900 e giochi di luce; discreti i costumi di Carla Ricotti e le coreografie di Gianni Santucci. Applausi molto calorosi.

 

IL GIORNALE DI VICENZA
Venerdì 24 Dicembre 2004

Lirica. Ironica regia di Bernard, Viotti sul podio
"Le roi de Lahore": esotismo ed eleganza
Massenet, il paradiso è una festa parigina

di Cesare Galla

Venezia. Il re di Lahore, antichissima città dell’India esotica e misteriosa, ama in incognito la sacerdotessa del tempio di Indra (amore proibito, per le regole dettate dal dio) e deve guardarsi da un subdolo usurpatore, che vuole soffiargli la donna e il regno. Scoperta la relazione, per espiare va alla guerra, ma non riporta la vittoria, e anzi l’usurpatore ne approfitta per ucciderlo a tradimento. Eccolo allora nel Giardino dei Beati del dio Indra, al quale chiede di poter tornare subito sulla terra per realizzare una buona volta il suo grande amore. Richiesta accordata, con un paio di condizioni: la reincarnazione non sarà più in panni regali, ma in quelli di un mendicante, e soprattutto la nuova vita durerà quanto quella della persona amata. A Lahore, intanto, l’usurpatore è diventato re, e si appresta a impalmare la sacerdotessa, che non ne vuole sapere. La ricomparsa del vero re, ora mendicante, crea un comprensibile scompiglio e qualche illusione sentimentale, presto tramontata: il potere ormai sta da un’altra parte. Per evitare di dover sposare il traditore, lei si uccide; per volere del dio, lui cade morto al suo fianco.

Quando Massenet portava al debutto a Parigi - anno 1877 - Le roi de Lahore , il genere del "grand-opéra" aveva vissuto momenti migliori. Non si era però ancora spento il gusto del "kolossal" a numeri chiusi, e si comprende come quest’operona abbia incontrato il favore del pubblico: grandiose scene di massa e ampi balli guarnivano la ricca torta, cui l’elemento esotico garantiva una certa quale "attualità", essendo la curiosità per il lontano, specialmente orientale, elemento sempre più evidente nella cultura dell’epoca. Massenet sciorinava il suo stile rifinito e raffinato, padrone delle forme operistiche, sontuoso nei colori orchestrali, conscio della rivoluzione drammaturgica dettata da Wagner ma non in grado di seguirlo fino in fondo; non lesinava in cori e marce, ma si ritagliava anche lo spazio per quegli intimistici ed estetizzanti confronti sentimentali che sarebbero presto diventati la sua più autentica specialità drammaturgica.
Opera di enorme successo per qualche decennio, arrivata in Italia, anche a Venezia, già pochi mesi dopo la prima assoluta, Le roi de Lahore è uscito dal repertorio da oltre un secolo, singolare reperto di un’epoca nella quale attuale e inattuale stavano fianco a fianco. Lo riesuma ora la Fenice, sempre curiosa di rarità, a qualcosa come 126 anni dall’ultima - e unica - apparizione sul suo palcoscenico. E l’operazione dimostra che non sono poche le frecce all’arco di Massenet, un autore che aveva genio melodico ma anche scienza formale, e che qui esprime in fondo una sintesi non banale fra suggestioni d’ambiente, esigenze formali, sottigliezza d’invenzione, in equilibrio fra parola cantata e sinfonismo meditato, di notevole impatto.

Esalta profumi e colori della partitura Marcello Viotti, che è anche l’autore dell’edizione critica, e dal podio propone una lettura di buone sfumature, dal fraseggio cangiante e mobile, ricchissimo di colore. Un’interpretazione capace di rendere ragione delle multiformi istanze stilistiche di Massenet, riunendole in sapido equilibrio complessivo. Adeguata la compagnia di canto, con lo svettante re di Giuseppe Gipali, l’appassionata sacerdotessa di Ana Maria Sanchéz e l’usurpatore di Vladimir Stoyanov esemplari per la precisione della linea di canto, la misura dell’espressione, l’attenzione alla parola. Musicali anche tutti gli altri, e cioè Cristina Sogmaister (il servo Kaled), Deyan Vatchkov (il dio Indra) e Riccardo Zanellato (il gran sacerdote Timour). Attento e preciso il coro istruito da Emanuela Di Pietro.

Spettacolo di impostazione essenziale ed elegante, dal punto di vista scenografico (Alessandro Camera) con largo impiego di cornici ed elementi lignei, giocati a volte anche secondo spostamenti complessi, verticali e orizzontali. Il regista è Arnaud Bernard, che si concede una spettacolarità controllata, passando dall’opera di personaggi a quella di masse con fluidità e giocando con sostanziale incisività luci e movimenti. La scena nel paradiso indù, al terzo atto, è raccontata in termini di straniamento: ci si ritrova all’epoca della composizione, nella Parigi della Terza Repubblica, a una festa esotica, fra tremolanti proiezioni di spezzoni cinematografici e fotografi che impazzano con i loro lampi al magnesio. La società che amava e cercava l’esotismo sciorinato da Massenet è "immortalata" in un’istantanea ironica e ammiccante.

Successo, molti applausi a scena aperta, numerose chiamate alla fine. Le repliche proseguono fino al 5 gennaio.

 

Forum Opéra
Venise, Teatro La Fenice,
le 5 janvier 2005

Venise: Le Roi de Lahore

D'aucuns prétendront que Le Roi de Lahore n'est pas du bon Massenet, ce qui expliquerait l'oubli dans lequel est tombé ce "grand opéra". Pourtant, malgré ses invraisemblances, un orient de pacotille et les conventions du genre, l'oeuvre contient de beaux passages comme les deux duos Sitâ-Alim à la fin des deuxième et cinquième actes. Et puis découvrir la nouvelle édition critique réalisée par un amoureux de Massenet, le chef titulaire de La Fenice, Marcello Viotti, laissait entrevoir une soirée plus originale qu'une énième reprise de Manon ou de Werther.

La partition est donc donnée dans son intégralité avec le ballet, l'air de Kaled, le duo Sitâ-Timour de l'acte IV. Seul disparaît l'air difficile du V récupéré par Joan Sutherland : "Viens ô mon bien aimé". Le seul problème est que les oeuvres rares et délaissées - voire méprisées - ont besoin d'interprètes excellents pour pouvoir les défendre. Nous y reviendrons.

La mise en scène d'Arnaud Bernard ne s'écarte pas de la lisibilité et de la tradition, ce qui est compréhensible pour une oeuvre hors répertoire, qui ne se prête guère à une lecture révolutionnaire ou au troisième degré. Elle s'appuie sur des éléments de décors indiens : dômes, tentes de campagnes militaires, grille "moucharabieh", et sur des costumes comme on les imagine dans l'Inde coloniale de l'époque de Massenet. La mise en scène se fait par moments esthétisante (mouvements de combats au ralenti à l'acte II) ou se teinte d'humour à l'acte III. En effet, les bienheureux dans le paradis d'Indra se font photographier par un vieil appareil sur pieds et la divinité Indra apparaît sur un éléphant argenté à roulettes. Dire que la chorégraphie nous a transportés serait mentir...

L'orchestre et les choeurs sont d'un bon niveau, même si ces derniers pourraient chanter un francais plus intelligible. D'une manière générale, les interprètes sont peu compréhensibles, mais cela gêne-t-il les Vénitiens qui bénéficient du surtitrage en italien ou le public très international qui remplit la Fenice ces jours-ci ? La direction de Marcello Viotti, toujours soucieuse des chanteurs, connaît des moments un peu léthargiques (ainsi la valse avec saxophone de l'acte III pourrait être plus enlevée) mais gagne en intensité dramatique pour devenir vigoureuse et nerveuse aux actes IV et V. Le public peu concerné jusque là semble enfin sortir de sa froideur et applaudira plus longuement au rideau final.

Giorgio Casciarri est un ténor petit par la taille mais grand par la voix. Le rôle d'Alim n'est pas facile et il se tire fort bien de l'air éprouvant "O Sitâ ma bien aimée". Notons parmi les invraisemblances du livret qu'il chante, tout comme Sitâ plus tard, de longues minutes durant, des airs hérissés d'aigus... alors qu'il est mortellement blessé ! Annalisa Raspagliosi n'a pas froid aux yeux pour avoir chanté Valentine des Huguenots et maintenant Sitâ. Le rôle est fatigant mais elle le mène courageusement jusqu'à bon port.

Heureusement que le ténor et la soprano sont là, car les choses se gâtent avec le reste de la distribution. Le pauvre Marcin Bronikowski n'est qu'un pâle reflet de ce qu'on attend dans le rôle de Scindia. Projection faible, pas de mordant, aigus fragiles voire inaudibles; Scindia est un traître ambitieux qui devient roi, il lui faut donc une autorité vocale qui fait défaut ici. Son air de l'acte IV passe inaperçu et l'aigu final de l'acte V ("Dieu me frappera") est pitoyable. Deyan Vatchkov est un Indra correct, sans plus. Francesco Verna souffre lui aussi d'une projection insuffisante pour ce rôle de grand prêtre. Quant à Barbara Di Castri, on se réjouissait d'entendre son air exotique de l'acte II "Ferme les yeux ô belle maîtresse"... Las ! Le mezzo peine dans les aigus, le souffle est court et donc le phrasé chaotique.

Au final, un plaisir mitigé, celui d'avoir pu entendre une oeuvre rare, mais pas toujours bien défendue. Pour entendre un Scindia de légende, on recommandera de réécouter Sherill Milnes, parfaite incarnation du baryton exigé pour le rôle.

Valery FLEURQUIN

 

FINANCIAL TIMES
Thursday, December 23, 2004

Smoke and mirrors at the revamped Fenice
By Shirley Apthorp

Le Roi de Lahore is one of those operas that you just have to hear. Where else does the tenor get to die twice? Today, Massenet's opera is at best obscure, but it was his first big hit in 1877, and for a while it was all the rage. It is heartening to note that La Fenice, risen from the ashes, can dare to stage the work in its first post-reconstruction season and still sell out.

Luis Gallet's libretto tells the fantastic tale of the innocent priestess Sita, who is loved both by the king, Alim, and his minister, Scindia. Scindia manages to dispatch Alim in the course of a battle but the god Indra takes pity on him in paradise and allows him to return to earth as a beggar to find his beloved. Scindia discovers the lovers, Sita stabs herself, and Alim must die (again) along with her.

The opulent orientalism of the late 19th century is awkward in our time. But La Fenice, a house that makes no apologies for sumptuous excess, can tackle the piece without blushing. Questions of modernity were debated and abandoned in the process of rebuilding La Fenice exactly as it was before, minus the patina of age, and the result has something of the feel of a stage set, like a reproduction of itself - yet the aura of the place is so strong that what would elsewhere be kitsch seems here like magic.

Certainly the stage director, Arnaud Bernard, does not trouble his head with questions of how the story of Le Roi de Lahore could be translated for modern viewers. This is opera in the good old-fashioned Italian style. Singers plant themselves firmly in the footlights, the chorus wear skirts of matching wallpaper, and high emotion is expressed by the placing of both hands on the heart.

It is madly decorative. Indra's temple is an opening onion dome with sparkly lights that would do Baz Luhrmann's Moulin Rouge proud (sets: Alessandro Camera). Paradise is a summer-house full of supple young creatures in body-stockings (costumes: Carla Ricotti), and the god himself appears astride a silver elephant. Smoke machine and gauze are used liberally.

Never mind. It's the music that matters, and Marcello Viotti indulges us generously in Massenet's intoxicating, perfumed fantasy. The score is a torrent of memorable melodies and faux-Asiatic harmonies, and lush, often accurate orchestral playing underscores singing that makes up for the dramatic shortcomings of the protagonists.

The cast is consistently strong, with Giuseppe Gipali taking a meaty approach to Alim (of the multiple fatalities), belting out heroic top notes and gripping his heart every few bars. Ana Maria Sánchez sings a whisker sharp as Sita, but with a creamy, robust tone, while Vladimir Stoyanov brings unexpected tenderness to the role of the love-smitten usurper Scindia. Riccardo Zanellato's Timour is deliciously dark and smoky, and Cristina Sogmaiser makes Kaled's gentle second-act aria into one of the evening's musical highlights, full of expressive colour.

Applause for the musicians, boos for Bernard and his team. Perhaps, after all, they could have done more.

 

Opera Japonica / Reports
Silvia Luraghi's Letter from Milan

Massenet’s Le roi de Lahore opened at another renovated house, La Fenice, on December 18, for its first Italian performance since a Verona staging of 1923, at which time it was already a rarity. Le roi de Lahore is Massenet’s first important opera, successfully premiered at the Palais Garnier in 1877 when the composer was 35 and brought triumphantly to Turin a year later. The music has several interesting motifs, many recycled in later operas (such as Le Cid, which uses part of the music of the first act) as well as traces of the work of Massenet’s contemporaries in music suggesting Samson et Dalila. The finale in particular lacks the refinement of orchestration that Massenet displayed in later works, and the plot is most unlikely: the King of Lahore, killed by a rival who had fallen in love with his own lover Sitâ, is brought back to life by the god Indra, but expires again when Sitâ dies.

The best of an uneven cast was baritone Vladimir Stoyanov as Scindia; bass Riccardo Zanellato proved up to the role of the priest Timour, and Ana Maria Sanchez managed to come to terms with Sitâ’s high tessitura. However, Giuseppe Gipali was disappointing in the title role: he sang correctly, but was short on volume and had to force his voice. The cast was completed by Federico Sacchi, a good Indra, and Cristina Sogmaister, an anonymous Kaled. Arnaud Bernard’s production highlighted the kitsch aspect of 19th-century orientalism, with an ironic take on the third act, set in paradise and featuring a rather ugly ballet. Marcello Viotti conducted the orchestra of the Teatro La Fenice with a deep, refined and detailed reading of the score.