IL GAZZETTINO
Martedì, 16 Gennaio 2007

L’OPERA
Un "Crociato" tra progresso e tradizione

Venezia. "Il Crociato in Egitto", creato per la Fenice e riproposto scenicamente per la prima volta dopo le rappresentazioni ottocentesche, è un'opera monumentale e affascinante, anche se discontinua, e chiarisce un fondamentale momento di trapasso tra il Rossini serio e il melodramma romantico. Siamo nel 1824. Alle spalle ci sono due opere veneziane di Rossini, il "Maometto II" e la "Semiramide" del 1823 - i testi che più influenzano questo Meyerbeer lagunare -, ma Bellini, Donizetti e Verdi, talora prefigurati, erano ancora di là da venire.

Di conseguenza ci troviamo di fronte ad un'opera insieme tradizionale (con nostalgie persino del "Così fan tutte" mozartiano) e progressiva. La convenzione vive nell'approfondimento di nuovi strumenti linguistici. L'euritmia solenne del Rossini serio si apre ad accalorate tentazioni espressive creando una sorta di paradossale, e duplice, piano drammaturgico. La coerenza è bandita come un peccato originale e questa partitura fluviale rispecchia una temperie culturale ancora mal nota. Il tedesco Giacomo Meyerbeer , ma musicalmente quasi italiano per un decennio, prima della sua trentennale dittatura parigina, si dimostra, come dicevamo, un seguace di Rossini.

Il compositore trentatreenne collabora con il librettista della "Semiramide", Gaetano Rossi, l'onnipresente "coautore dell'opera" (Miggiani) e sviluppa una vicenda in cui si intrecciano gesti amichevoli e contrari tra saraceni (siamo nell'Egitto medievale) e crociati. Il protagonista è un crociato che ha tradito la patria e milita tra i mussulmani; ha abbandonato la sua fidanzata Felicia e ha sposato segretamente Palmide, figlia del sultano Aladino, da cui ha avuto un figlio. Ma poi si assiste alla inaspettata rigenerazione del protagonista che, aggredito dallo zio Adriano, Gran maestro dei Cavalieri di Rodi, riprende i panni del crociato, in un'ansia di eroismo. Si susseguono scontri, prigionie e un finale catartico, con generale riconciliazione tra saraceni e cristiani.

Lo spettatore stenta ad orientarsi nelle vertigini del romanzesco, che puntano deliberatamente sull'incongruenza narrativa. E' un successione spettacolare di momenti affettivi e di sorprese teatrali che vanno goduti in sé. Più che nelle arie solistiche, spesso manierate, "Il Crociato in Egitto" emerge nei grandiosi duetti, molto elaborati nelle singole sezioni, che estremizzano e amplificano i modelli rossiniani, talora intercalando i recitativi accompagnati a toccanti cantabili. Il terzetto Palmide, Felicia e Armando, "Giovinetto Cavalier" dimostra come Meyerbeer , costruttore di imponenti macchine teatrali, amasse anche la strumentale finezza cameristica: in questo brano paiono incontrarsi memorie liederistiche e schubertiane con la grazia del canto italiano. Il poderoso "Inno alla morte" per tenore e coro del secondo atto presenta una tensione drammaturgia preverdiana, è preceduto però da un mirabile quartetto che sembra alludere al "Fidelio": tipico esempio del sincretismo musicale dell'autore. I doppi cori virili dimostrano come Meyerbeer prediligesse l'iperbole rappresentativa che poi avrebbe sviluppato a Parigi. Uno dei punti di forza della partitura è la magistrale orchestrazione, degna di Berlioz, trasparente o sontuosa, con ottoni clamorosi e effetti spaziali. Comunque un'opera difficile per il pubblico di oggi che forse, in un'eventuale ripresa, andrebbe qua e là tagliata: il personaggio di Felicia, per esempio, è pleonastico e musicalmente irrilevante.

Se "Il Crociato" non ha circolato nel nostro tempo ciò dipende anche dal virtuosismo delle ardue ornamentazioni di tipo rossiniano e dal caleidoscopio delle cabalette. La Fenice è riuscita a realizzare una distribuzione vocale rilevante. Il protagonista alla prima veneziana del 1824 era impersonato da un celebre evirato, Giovanni Battista Velluti, ma poi Meyerbeer preferì utilizzare un contralto "en travesti". Alla Fenice si è optato per un controtenore (il bravo Michael Maniaci) che artificialmente simula la voce di un evirato: suggestivo il timbro ma inevitabilmente limitato il corpo sonoro. Magnifiche le due voci femminili, il sensibile e colto soprano di coloritura Patrizia Ciofi e l'ardente, impeccabile contralto Laura Polverelli (Palmide e Felicia). Il basso Matteo Vinco regge efficacemente gli ardui ornamenti e la declamazione come Aladino, personaggio che è quasi un calco di Maometto II. Il tenore Fernando Portari emerge nella aggressività drammatica dell'"Inno alla morte", ma forza talora le colorature. Il direttore Emmanuel Villaume sottolinea felicemente la varietà stilistica dell'opera dalle levigatezze cameristiche alla imponente gestualità.

Pier Luigi Pizzi ha tenuto conto con accortezza dei limiti finanziari del teatro, optando per una scenografia minimalista e stilizzata in cui lo splendore dei costumi evoca il colore rinascimentale marciano attraverso un'ottica ottocentesca (i tessuti sono di Rubelli). L'impianto scenico è ridotto a pochi eleganti elementi: sipari bianchi e neri con la scritta di Allah e una nave nera con immagini della croce: quanto dire "uno scontro di civiltà" tra islamismo e cristianesimo che evita ogni attualizzazione. Luci molto raffinate di Sergio Rossi per uno spettacolo che rinuncia alla molteplicità dei piani teatrali a favore di un'essenzialità oratoriale. Molto ben preparato, da Emanuela di Pietro, l'eloquente doppio coro maschile; efficace la resa dell'orchestra sia negli episodi solistici che nella pienezza sinfonica.

Applausi piuttosto spenti dopo il primo atto, calorosi alla fine dell'esecuzione.

Mario Messinis

 

Corriere della Sera
16 gennaio, 2007

OPERA. Successo alla Fenice per "Il Crociato in Egitto". A parte la scelta del "contraltista"
Il genio bambino che superò Rossini

Giacomo Meyerbeer, gigante dell' 800 a lungo sottovalutato Nacque a Berlino nel 1791. Era figlio della più alta aristocrazia ebraica della finanza e della cultura. Per tutta la vita fu, di suo, uno degli uomini ricchi d' Europa. Dai quattro anni si vide da quanto potente vena musicale fosse posseduto. Fu uno sommi pianisti del suo tempo. Diede il primo concerto a undici anni. Clementi rifiutò di dargli lezioni, quasi terrorizzato. In questo delizioso olio di Fr. G. Weitsch, lo contempliamo abbigliato con l' eleganza e, nel collo aperto, lo studiato disordine dell' artista: connubio perfetto di arte e aristocrazia. La mano destra stringente un rotolo di carta da musica, la sinistra poggiata sulla tastiera del pianoforte, sul leggio la partitura in oblungo di un Concerto di Mozart. Se riesco a leggere, il rotolo è un esercizio di contrappunto: res severa verum gaudium. Avverte chi guarda che non si prostituirà mai a dare concerti pianistici e gare d' improvvisazione: il suo avvenire è nella composizione. Gli occhi, in un ritratto che dovrebbe sancire un trionfale esordio nella vita e nella felicità, sono velati da un' invincibile melancolia che si aggraverà, destinata a diventare malattia dell' anima, fino al giorno d' una morte solitaria, avvenuta a Parigi nel 1864, imperfetta l' ultima sua Opera, L'Africana.

Aveva molti nomi. Quando, nel 1819, si trasferì in Italia per essere, per un periodo, compositore italiano, ne assunse uno per sempre: Giacomo Meyerbeer. Per tutta la prima metà dell' Ottocento, fu il più importante operista mondiale: il che non significa necessariamente il più grande. Ma la rivendicazione dell' autentica grandezza del compositore è compito ancora da svolgersi da parte della Storia della Musica e della critica estetica. Egli fu vincitore in fatto, modello, se non generalissimo, certo sotto rispetti fondamentali a tutti gli altri, nessuno escluso: eppure visse i continui trionfi come sconfitte. Aveva tutto, pochi uomini furono infelici quanto lui: distinto, gran signore, generoso. Non amarlo anche in quanto uomo è impossibile. Per lo più era invidiato, spesso odiato: da un numero altissimo di colleghi. Certo non eccepiamo Verdi, che odiava ogni vivente; ma Wagner, che falsamente credette di esserne perseguitato, fu indotto a compiere contro di lui l' unica sua azione infame, il libello sul Giudaismo nella Musica. Quando il giovane Meyerbeer si trasferì in Italia, gl' idoli su che si era formato erano Bach, Haydn, Mozart, Beethoven, e naturalmente i polifonisti classici. Ma in Italia il Giove della musica era Rossini, il quale, peraltro, lo era già divenuto in Europa: spinta potentissima, la sua partecipazione al Congresso di Vienna. La duttilità più unica che rara di Meyerbeer, in seguito creatore d' uno stile proprio, lo rese una sorta di super-rossiniano. In quanto tale, scrisse la sua più importante partitura italiana, il colossale Crociato in Egitto, su libretto di Gaetano Rossi, autore, tra l' altro, di quello della Semiramide, rappresentato alla Fenice di Venezia nel 1824 e di lì circolato, in edizioni sempre difformi, per buona parte dell' Ottocento. Oltre che di bellezza e fantasia supreme, si tratta d' un' Opera d' importanza fondamentale, onde erra tutta quella letteratura che fa risalire ai francesi Ugonotti la presa di potere dell'Autore sul mondo musicale e la totale mutazione del gusto, che vanno retrodatate al Crociato. Ma facile è affermarlo dopo una rappresentazione dal vivo.

Ineseguito per tutto il Novecento, Il Crociato è ora rappresentato proprio dalla Fenice in un' esecuzione musicalmente memorabile diretta da Emmanuel Villaume: credo questa serata l' avvenimento musicale più importante del 2007. Ora, cadere in inganno col considerare Il Crociato un calco rossiniano, pur impeccabile e insuperabile nello stile, e di dimensioni monstre, è scusabile: chi commette codesto errore mostra tuttavia di sconoscere la differenza fra l' imitazione priva di originalità, con l' aggravante che fu la costante maledizione di Meyerbeer, l' accusa d' inseguimento cinico del successo, e l' omaggio a un Grande. Il segno rossiniano di quest' Opera, in gran parte della linea esterna e del canto, con la sua profluvie di colorature, è innegabile. Ma se si studia l' Opera analiticamente e poi la si considera nella sua potente sintesi, una personalità del tutto autonoma e, quanto a tal genere, addirittura superiore a Rossini proprio perché a lui tributaria, agevolmente si apprezza.

Principiamo dal secondo punto: la sintesi. Le proporzioni del Finale I sono gigantesche ma non velleitarie nella di lui complessa forma, fatta anche d' incroci e ritorni: non esiste alcun precedente storico di qualcosa di così grandioso ove, e questo vale per tutto il resto dell' Opera, la tensione drammatica procede con coerenza pur nel succedersi delle immagini ideali del sentimento. Qui è la differenza massima con Rossini, autore di pagine d' altezza tragica imparagonabile ma incapace di mantenere, o addirittura render crescente, tale tensione. Egli procede per dislivelli: non uno nel Crociato. E qui solo un esame minuto della partitura e della drammaturgia darebbe conto dell' affermazione, giacché ogni pagina sarebbe degna di commento, anche le più freddamente calligrafiche. Se ricordo il doppio coro del Finale I, ove le voci, dapprima contrapposte, dei Maomettani e dei Cavalieri, vengono sovrapposte in contrappunto doppio, lo faccio perché tale esibizione di dottrina mette capo a una delle più commoventi pagine dell' Opera dell' Ottocento. Sotto il profilo analitico, l' armonia di Meyerbeer, assai diversa da quella di Rossini e ben più varia, attribuisce diverso profilo alla stessa linea melodica. Battuta per battuta, all' aureo sviluppo dell' Aria rossiniana si alterna un drammatismo abrupto e pieno di sorprese il quale poggia anche sopra una concezione orchestrale tanto geniale quanto anticipatrice: si pensi solo che, nell' ambito del Finale I, una complessa forma di Romanza trobadorica è incastonata in un omaggio alla Sinfonia Concertante di Haydn in Si bemolle!

Insomma: la modernità connota soprattutto il capolavoro. Non avrei sperato questa "prima" fosse per essere un trionfo; il merito va in primis al maestro Emmanuel Villaume, in grado di stringere il passo drammatico, governare pagine con due bande più orchestra e cori, piegarsi con sensibilità alle delicatezze patetiche. Patrizia Ciofi, Laura Polverelli, il tenore Fernando Portari, campeggiano; vada tutto il mio dissenso alla scelta del "contraltista" Michael Maniaci nel ruolo scritto per il grande Velluti: l' ovvio risultato è il ridicolo scenico e la miseria musicale. Regia, scene e costumi di Pierluigi Pizzi.

Paolo Isotta

 

Il giornale di Vicenza
martedì 16 gennaio 2007

Alla Fenice riesumato "Il crociato in Egitto"
Il belcanto per la pace fra islamici e cristiani

di Cesare Galla
inviato a Venezia

Una rarità per l’inaugurazione della stagione alla Fenice. Una rarità e un puntiglioso recupero. Il crociato in Egitto di Meyerbeer era in locandina l’anno scorso, ma i tagli delle sovvenzioni pubbliche alla lirica italiana lo avevano sacrificato: ora coraggiosamente ritorna, a sostenere la problematica sfida che sempre si accende quando in scena va un’opera sulla quale da oltre un secolo è sceso l’oblio.

Accolta da pieno successo, anche se non senza qualche stanchezza per uno spettacolo di assai lunga durata, quella di domenica era la prima esecuzione in tempi moderni di un lavoro che appartiene a pieno titolo alla storia gloriosa del "gran teatro" veneziano, visto che per questo palcoscenico venne scritto nel 1824. Allora Giacomo Meyerbeer, il futuro dominatore a livello europeo del genere kolossal chiamato "grand-opéra", era un giovanotto di belle speranze che da qualche anno mieteva consensi nei teatri della penisola. Il Crociato fu la sua ultima esperienza italiana e gli servì anche come trampolino per affermarsi a Parigi, perché ebbe immediato e ampio successo per qualche decennio prima di svanire dal repertorio senza lasciare tracce.

Ora dunque l’occasione di verificare alla prova scenica una partitura dalle caratteristiche in effetti assai peculiari. Vi si legge in filigrana la "devozione" per Rossini, che finisce per specchiarsi nella singolare inattualità della scrittura vocale, irta di virtuosismo e di "coloratura", ma vi si coglie anche una ricchezza di soluzioni strumentali negli accompagnamenti davvero affascinante per varietà e fantasia, tale da delineare in molti passaggi un’autonomia quasi sinfonica della partitura, che restituisce e sottolinea le radici germaniche del compositore. Vi s’intravvede il calco della tradizione seria italiana addirittura pre-rossiniana, ma si trova anche una tensione alla monumentalità dell’invenzione, alla dilatazione delle scene con sostanziosi supporti corali, che preannunciano la non lontana svolta stilistica e di genere di quello che sarà appunto il "grand-opéra".

Purtroppo il libretto - che sembrava promettere assonanze di attualità nel raccontare una storia di islamici e cristiani a confronto, di amori che vanno oltre le confessioni religiose, di segrete conversioni, di vocazioni pacifiste salvate a dispetto di tutto e di tutti - è di assoluta farraginosità e di complicazione esagerata. Ne risulta una drammaturgia nello stesso tempo pletorica e zoppicante, pretestuosa e vuota, che la felice invenzione musicale non riesce a surrogare quasi mai: l’opera resta una lenta successione di quadri in cui la vicenda si aggroviglia su se stessa, lasciando spazio solo a squarci di grande intensità espressiva che certo dovettero fare sensazione all’epoca, ma che oggi ci sembrano appartenere a un gusto troppo tipico (e di transizione) per riuscire a suscitare qualcosa di più della curiosità.

Di fronte alle problematiche della rappresentazione - e certamente avendo a mente la necessità del contenimento dei costi - Pier Luigi Pizzi (come sempre scenografo e costumista, oltre che regista) ha scelto la strada del minimale, quasi dell’astratto. Lo spettacolo sottolinea la giustapposizione tra le fedi giocando sul bianco-nero, con monacale povertà di soluzioni sceniche. Il mondo dell’Islam è un grande telo-sipario bianco che reca in gigantografia una sacra scritta (a volte, in negativo, il telo diviene nero e la scritta bianca). Il mondo cristiano è la nave dei cavalieri di Rodi che scivola maestosa sul fondo (unico elemento scenografico d’impatto) e innalza la vela con la grande croce della Compagnia dei cavalieri. Per soprammercato, un grande crocifisso s’innalza a prua, quasi polena che poi però viene un po’ faticosamente trasportata qua e là in scena. Costumi come sempre di raffinata eleganza e di precisa caratterizzazione; stucchevole e insistita, raramente necessaria visto che il taglio è quello della semplificazione scenica, la presenza di un gruppetto di mimi che roteano minacciose scimitarre.

L’esecuzione moderna del "Crociato" comporta un problema fondamentale, per la vocalità: la scelta dell’interprete principale. Nel 1824 Meyerbeer scrisse la parte di Armando d’Orville per l’evirato Giovanni Battista Velluti. E fu quella l’ultima volta che sulle scene operistiche accadde una cosa del genere (a conferma dei singolari elementi di inattualità di quest’opera). Fra le due opzioni possibili oggi per sostenere quella parte (una donna con voce di mezzosoprano o un uomo con tecnica di sopranista), alla Fenice si è scelta la seconda e dunque in scena è andato il raffinato sopranista americano Michael Maniaci. Il quale ha timbro interessante, tecnica rilevante, eleganza nella linea di canto, non abbastanza peso nella fondamentale parte bassa della tessitura, tenuta complessiva (comprensibilmente) alquanto scarsa: dopo oltre tre ore di maratona, tenere peso ed espressione specie nei concertati è un’improba sfida persa. Il tenore Fernando Portari è andato migliorando smalto e incisività nel ruolo di Adriano di Monfort, dopo un inizio alquanto appannato, mentre impeccabili belcantiste si sono confermate sia Patrizia Ciofi (l’islamica convertita Palmide: agile e svettante) sia soprattutto Laura Polverelli (la cristiana Felicia), colore seducente, fraseggio raffinato, duttile e preciso. Marco Vinco ha dato nobili accenti e un buon peso vocale al ruolo del sultano Aladino, incline alla pietà e al buon senso; ben distribuiti i ruoli comprimari, impetuoso e puntuale il coro.

Dal podio, Emmanuel Villaume ha letto la partitura con grande e giusta attenzione per la tavolozza dei timbri, sempre in evidenza, proponendo accesi contrasti nelle dinamiche e nei fraseggi, con larga e morbida evidenza per i numerosi passaggi lirici.

Con questa compagnia di canto lo spettacolo si replica oggi, il 18 e il 20 gennaio; una seconda compagnia sarà in scena il 17, 19 e 21.

 

LA STAMPA
20/1/2007

Un Crociato alla Fenice
PAOLO GALLARATI

VENEZIA. Erano anni che La Fenice di Venezia desiderava mettere in scena Il Crociato in Egitto di Giacomo Meyerbeer, il re del "Grand-Opéra" francese, che da giovane venne in Italia ad imparare il mestiere dell’operista e raccolse, a Venezia, appunto con Il Crociato, nel 1824, il suo più grande successo prima della conquista di Parigi. Il progetto, saltato l’anno scorso per i tagli alla Finanziaria, ha potuto essere realizzato ora, con lo spettacolo di Pier Luigi Pizzi e la direzione orchestrale di Emmanuel Villaume.

Il lavoro è grandioso, lunghissimo, richiede grandi virtuosi e uno spettacolo che faccia da degna cornice alla vicenda del crociato provenzale, Cavaliere di Rodi che, per salvare la pelle, si traveste da musulmano, entra alla corte del sultano, ne sposa segretamente la figlia da cui ha un bambino, indi, riconosciuto come traditore, viene imprigionato e condannato a morte insieme ai Cavalieri di Rodi, ma, alla fine, è salvato da un atto di clemenza del sultano che gli permette di riunirsi all’amato bene e festeggiare, insieme a tutti gli altri, la libertà. Il libretto di Gaetano Rossi è convenzionale nelle peripezie mal preparate: quasi un destino, per Meyerbeer, che verrà accusato da Wagner di coltivare gli "effetti senza causa" e il gusto della sorpresa fine a sé stessa.

Lo spettacolo di Pizzi è molto bello. Quasi senza scene, punta tutto sui colori: bianco e nero per i Cavalieri di Rodi, stoffe operate color pastello per i musulmani: un bell’esempio di come uno spettacolo possa appagare l’occhio senza essere pesante. Efficaci i giochi di luce, sensazionale l’arrivo della nave nera, con la grande vela su cui spicca la croce bianca dei Cavalieri di Rodi. Anche l’esecuzione musicale si è difesa bene con il controtenore Michael Maniaci. Ottime le due donne, Patrizia Ciofi e Laura Polverelli, e giustamente applauditi il tenore Fernando Portari e il basso Marco Vinco.

 

il veneziaMartedì 16 gennaio 2007

La prima del melodramma di Meyerbeer, in scena a Venezia fino al 21 gennaio, ha entusiasmato il pubblico de La Fenice. Un'opera ricca di colpi di scena e colma di simbologie.
Il Crociato da tutto esaurito

di Patrizia Parnisari

Un momento della prima de "Il Crociato in Egitto" al Teatro La Fenice

La stagione operistica del Gran Teatro La Fenice si è aperta all’insegna dell’emozione con un’opera grandiosa e poco rappresentata, programmata per la scorsa stagione e poi posticipata al 2007 a causa dei tagli del Fus: Il Crociato in Egitto di Giacomo Meyerbeer. È piaciuta al pubblico l’opera del musicista tedesco; strabordante e ricca di colpi di scena, parti corali, colma di simbologie e rimandi religiosi. Una grande opera che racconta di guerre, amori, fedi, tradimenti, e ancora sacrifici, perdoni e riconciliazioni. Anche la partitura è impegnativa con echi musicali molteplici: si va da Rossini alle armonie popolari, da Mozart al belcantismo.

L’ORCHESTRA, diretta da un entusiastico Emmanuel Villaume, ha visto innumerevoli parti solistiche eseguite con versatilità. Applaudita in particolare il soprano Patrizia Ciofi, nel ruolo di Palmide (la ricordiamo un paio di anni fa nella Traviata diretta da Robert Carsen) che ha mostrato una vocalità a tratti rossiniana a tratti squisitamente mozartiana come richiesto dalla musica di Meyerbeer. Molto apprezzato anche il basso Marco Vinco nel ruolo affascinante di Aladino. La regia di Pier Luigi Pizzi ha salvaguardato la scelta originale di Meyerbeer di ambientare l’azione nell’epoca reale in cui ebbe luogo servendosi però di forti simbologie e optando per "una forte stilizzazione che evidenzia i veri significati della vicenda", ha spiegato lo stesso regista. L’opera si apre scenicamente su un efficace bianco e nero fotografico. Su una foto del 1956, infatti, di Ara Güler, conservata al Ludwig Museum di Colonia, intitolata Allah si è basato Pier Luigi Pizzi che ha preso spunto per l’intera messinscena dell’opera. Sullo sfondo si alternano il nome di Allah scritto su un grande telo bianco e la croce cristiana. Fastosi e raffinati i costumi dei musulmani su cui primeggia un maestoso Aladino; un rigoroso bianco e nero per i cristiani con una semplice croce sul petto. Spade a croce, e sciabole a mezzaluna, si scontrano in scena verso un inevitabile lieto fine ed una santa pacificazione tra le due opposte fazioni. Sullo sfondo, un maestoso vascello nero con a bordo un’enorme croce bianca va e viene a simboleggiare il porto di Damiata e le spedizioni dei crociati.

UN ’OPERA RIUSCITA, insomma, sotto ogni punto di vista. Un capolavoro scenico che forse potrà contribuire a sgombrare il campo da alcuni pregiudizi che ancora circondano il "grand opéra". Del resto non sono poi così lontani i tempi in cui Schopenhauer scriveva: "Il grand opéra non è, in realtà, un prodotto del puro senso artistico, ma piuttosto appartiene al concetto, alquanto barbaro, secondo il quale il godimento estetico sarebbe intensificato dall’accumulo dei mezzi, dalla contemporaneità di impressioni del tutto differenti, dall’effetto rafforzato aumentando la massa e le forze che operano". Il regista Pizzi ha dimostrato che si può mettere in scena un’opera monumentale e più che mai complessa senza mai cadere nel compiacimento "kitch" o nel cattivo gusto.

 

Il giornale della musica
16 gennaio 2007

Ma c'è ancora chi crede ai falsettisti per l'opera?

Approda alla Fenice quel "Crociato in Egitto" annullato lo scorso anno per i tagli finanziari. Prima rappresentazione moderna nel teatro che tenne a battesimo l'opera (1824).

Spettacolo solido, con esiti artistici non d'eccezione ma assai omogeneo sui vari fronti, vocalmente in crescita nel corso della serata. Svetta Patrizia Ciofi in una parte che l'impegna a tutto tondo, dal canto patetico all'ipervirtuosimo. Convince Laura Polverelli, artista di grande professionalità. Mostra doti interessanti Fernando Portari, dotato di voce tenorile piena e sicura. Chi manca è il protagonista: credere che i falsettisti siano l'equivalente moderno dei castrati è un profondo errore, e benché Michael Maniaci non sia certo fra i peggiori uditi negli ultimi decenni, come tutti i falsettisti è stimbrato nelle note gravi, strilla quelle acute e manca di spessore al centro; e se raggiunge qualche buon momento nei passi patetici, si rende inverosimile in quelli eroici, restando poi soffocato dai colleghi nei pezzi d'assieme.

Allestimento di Pier Luigi Pizzi senza sfarzo, quasi spoglio, discretissimo: un importante segnale per chi ritiene che la regia debba necessariamente gravare in modo preponderante sul budget di una produzione operistica. Inevitabili i tagli, numerosi ma intelligenti, dopo i quali il solo primo atto continua comunque a rasentare le due ore di musica, tenute saldamente in pugno dalla bacchetta energica e decisa di Emmanuel Villaume, sotto la cui direzione orchestra e coro danno il meglio.

Pubblico assolutamente non reattivo agli stimoli d'una partitura elegante ma non facile da assimilare, priva di motivi melodici accattivanti, frutto di uno sperimentalismo che lo spettatore medio non è più in grado di cogliere come tale dopo due secoli di ben altri azzardi musicali.

Marco Beghelli

 

operaclick.it
16 gennaio 2007

Venezia Teatro La Fenice
Meyerbeer Il Crociato in Egitto

"Il crociato in Egitto" è, nel suo complesso, un’opera assai divertente.

Il suo essere divertente non deriva, a nostro modestissimo giudizio, dalla bellezza della musica, che non ci piace particolarmente, o dallo spessore dei versi del libretto, bensì dalla sua incredibile carica di ironia. Giacomo Meyebeer, ancorché giovane ed ancora legato, in certa parte, alla lezione rossiniana, era già, nel 1824, compositore in grado di dire la sua con sufficiente autonomia, aveva studiato con Karl Zelter, maestro di composizione che ebbe Mendelssohn tra i suoi allievi, e didattica col Vogler, avendo come compagno Carl Maria von Weber, proveniva dunque dall’ambiente culturale della Germania preromantica, dalla quale fu giustamente ed irrimediabilmente influenzato. La sua visione musicale nasce dunque "composita" sin dagli inizi, e nel Crociato, sesta ed ultima delle sue opere del periodo italiano, tale doppia natura si accentua quasi sino all’esasperazione, estrinsecandosi in una ricerca quasi maniacale del virtuosismo vocale "all’italiana", unito ad un’incredibile ricerca di ricchezza nelle soluzioni contrappuntistiche e nell’orchestrazione di derivazione germanica.

Si diceva sopra dell’ironia presente nel Crociato; ci spieghiamo un po’ più approfonditamente: Meyerbeer era di religione ebraica, nonché massone, così come massone era quel Gaetano Rossi che del Crociato gli fornì il libretto, invero brutto assai, che solo un anno prima aveva scritto quello per la Semiramide di Rossini. Il giovane Giacomo non doveva avere, come il Rossi, gran simpatia per la religione cattolica, essendo culturalmente portato ad una visione laico-naturalistica del mondo; da qui l’ idea, geniale, di portare sulla scena un "eroe", il giovane Crociato Armando d’Orville, decisamente antipatico, che tradisce alternativamente i suoi confratelli Cavalieri di Rodi ed il sultano di Damietta che lo ha accolto come un figlio, che dice e si disdice, che rischia di fare scoppiare una nuova guerra tra cristiani e musulmani subito dopo la sigla di una pace: un disastro di eroe, che come apre bocca sbaglia. Attorno a lui Palmide, figlia del sultano e sua sposa segreta, il sultano Aladino, più magnanimo del mozartiano Bassa Selim, un esaltato e manesco zio, Gran Maestro dell’Ordine di Rodi, ed, infine, una povera promessa sposa cristiana, Felicia, anch’ella incredibilmente comprensiva nei confronti del Crociato grullo. Alla resa dei conti chi si guadagna la stima e l’affetto del pubblico sono proprio il sultano e Felicia; il buon Armando salpa, perdonato da tutti, alla volta di Rodi, con moglie, divenuta cristiana, figlio, zio e Felicia. Il finale lieto lascia, come tutti i finali lieti, spazio all’immaginazione del pubblico: che potrà combinare ancora il Crociato una volta rientrato a Rodi? Meyerbeer lascia allo spettatore carta bianca e licenza di immaginare ciò che più gli aggrada. Si accennava sopra che data l’assoluta difficoltà del linguaggio musicale del Crociato in Egitto, sia dal punto di vista del canto che da quello più strettamente legato all’orchestra, una sua esecuzione deve, o dovrebbe, prevedere l’impiego di esecutori al di là dell’eccellenza, ovvero cantanti eccelsi sia nelle agilità che nel canto di forza, che in quello più squisitamente lirico, unitamente ad un concertatore che sappia mettere in luce le mille preziosità della partitura orchestrale.

Poco o nulla di tutto quanto sopra esposto si è sentito e visto nel Crociato in Egitto che ha inaugurato la stagione 2007 del Gran Teatro La Fenice. Partiamo da ciò che si è visto.

Pieluigi Pizzi si è limitato ad allestire una "mise en décor" tanto elegante quanto statica, i movimenti in scena si limitano ad un qualche affondo di scimitarra da parte delle guardie del sultano ed a qualche cenno di reazione da parte dei Crociati, per il resto calma piatta; peccato perché la scena, rigorosamanete bianca e nera, poteva offrire ben altri spunti di azione, la nave con la grande vela con la croce ottagona è bella e suggestiva, ma avrebbe potuto animarsi di ben altri impeti. Belli davvero i costumi, soprattutto quelli dei musulmani.

Poco o per nulla soddisfacente anche il risultato musicale, pur se con qualche distinguo.

La direzione di Emmanuel Villaume, complice anche un’orchestra non sempre al culmine della disciplina, ha, secondo noi, costituito l’anello più debole della produzione, distinguendosi per piattezza ed approssimazione stilistica; poco o nulla è risaltato delle infinite sfumature della strumentazione meeyerberiana, alla quale, pur non piacendoci particolarmente, riconosciamo un grande valore per quanto attiene all’invenzione formale.

A Villaume è mancato il polso ed il palpito, che forse ci avrebbero fatto amare un po’ di più questo Crociato.

Patrizia Ciofi ha sicuramente il carattere per affrontare un ruolo come quello di Palmide, ne possiede la dolcezza e la decisione, così come ne possiede gli accenti; purtroppo le sue caratteristiche vocali e la sua tecnica non ortodossa non le consentono di conferire al personaggio il giusto peso sonoro. Per la Ciofi, alla quale bisogna riconosce una dedizione totale ed una grandissima generosità e slancio, quello di Palmide ci è parso davvero un ruolo troppo pesante per le sue attuali condizioni di forma vocale; siamo, tuttavia, ben lieti di riconoscerle un ammirevole impulso interpretativo. Fernado Portari possiede una bella voce, uno squillo sicuro ed un timbro piacevole, i quali, tutti insieme, non bastano però a poter conferire al ruolo di Adriano di Monfort tutto ciò di cui abbisogna, ovvero le agilità e la facilità di fraseggio. Ne risulta un’interpretazione a metà, con le agilità appiattite ed una certa difficoltà di discesa al registro grave, molto meglio quello acuto. Laura Polverelli è stata di sicuro la migliore in campo; la sua Felicia, dopo un inizio un po’ guardingo, è risultata credibilissima sia per voce che per interpretazione; avrebbe potuto tranquillamente sostenere il ruolo di Armando, che, crediamo, le avrebbe calzato ancor meglio. A lei un convinto plauso. Marco Vinco, Aladino, ha una voce più che discreta, unita ad una bella presenza scenica, ma continuiamo a ritenere sia un baritono scuro e non un basso, tant’ è che quando scende al registro grave tende a gonfiare molto le note, con conseguente perdita di smalto nelle risalite all’ acuto. Il suo sultano, che forse, insieme a Felicia, è la figura drammaturgicamente più convincente dell’opera, è risultato a tratti più vicino al Mustafà dell’Italiana che non al già citato, e più pertinente, Bassa Selim. Siamo francamente imbarazzati nel dar conto della prova del sopranista (non soprano) Michael Maniaci nel ruolo eponimo che fu del Velluti, l’ultimo dei castrati. Maniaci è musicale, intonato, partecipe, ma possiede una voce piccolissima, che si è assottigliata col procedere della serata e che, sistematicamente spariva nei concertati e nelle grandi scene d’insieme. Inutile soffermarsi sulla mancanza di armonici, che una voce in falsetto non può possedere e su alcune evidenti difficoltà nei passaggi d’agilità. Lo risentiremo volentieri in un repertorio a lui più consono. Corrette tutte le parti di contorno, meritevoli di una citazione, vale a dire Iorio Zennaro, Osmino, Silvia Pasini, Alma ed i due artisti del coro Luca Favaron e ed Emanuele Pedrini, primo e secondo schiavo. Bene il coro preparato da Emanuela Di Pietro.

Al termine applausi e nessuna uscita singola.

Alessandro Cammarano

 

forumopera.com
VENISE - FENICE, 16 & 17/01/2007

Meyerbeer brille même sans étoiles

Si, pour rendre compte des représentations du Crociato in Egitto programmées par l’ex-directeur artistique de La Fenice on s’inspirait des critères de jugement qu’il utilisait dans sa revue, ni la production ni la distribution n’en sortiraient imdemnes. Ayant défini lui-même le rôle de Palmide comme " coloratura drammatico " comment justifier le choix de Patrizia Ciofi ? Et l’absence de décors spectaculaires qu’affectionnait Meyerbeer serait un autre élément à charge, si nous voulions nous acharner.

Mais une autre option s’offre à nous : ces représentations réussissent-elles, à défaut des moyens somptueux nécessaires, à livrer une version attirante de cette oeuvre si peu jouée, si mal connue, et peuvent-elles contribuer à sortir Meyerbeer de son purgatoire ?

Sans le moindre doute la réponse est : oui.

Dès le début, on est saisi par l’intéret de cette partition, pourtant souvent ravalée au rang de musique de confection. Basée sur le manuscrit original, propriété de La Fenice où Il Crociato in Egitto fut créé et dont aucune édition critique n’a été publiée, la préparation musicale fut d’autant plus ardue. Le résultat est pourtant jubilatoire : au prix de coupures qui ne doivent pas excéder une vimgtaine de minutes et qui sacrifient essentiellement les interventions des comparses – Alma et Osmino –, il nous est donné d’entendre une oeuvre passionnante, et ce de par ses qualités spécifiquement meyerbeerienne. La variété des timbres et des couleurs supplée la variété des formes, qui pourtant existe, et l’effet dramatique s’obtient souvent de manière inattendue, par le surgissement inopiné de vents guillerets ou d’une harpe volubile dans un contexte pathétique. Ce jeu délicieusement déconcertant de l’écriture est immédiatement perceptible, probablement parce qu’à la tête d’un orchestre particulièrement discipliné et réactif, à la virtuosité irréprochable dans ses différentes sections, Emmanuel Villaume impose d’emblée et maintient sans faiblir un excellent équilibre entre vigueur et souplesse. Jamais la musique entendue à Venise, malgré la richesse de l’orchestration, ne sonne comme un orphéon ; à nos oreille séduites se déroule un tissu musical tour à tour exaltant et savoureux, toujours efficace. Les effets sont faciles ? Peut-être, mais c’est là l’esthétique du plaisir sonore propre à Meyerbeer. Faut-il faire la fine bouche ?

Cette recherche hédoniste, le compositeur l’affichait aussi dans la dimension visuelle de ses opéras. Certes, les documents du XIXe siècle montrent que la réussite, pour le compositeur, passait par un déploiement superlatif de décors et d’accessoires. Rien de tout cela dans la proposition de Pier Luigi Pizzi, d’une sobriété confinant à l’ascétisme. Toutefois, ce dépouillement permet au grand scénographe de créer de images frappantes et ses options ont la force de l’évidence. L’Egypte est un espace ouvert dominé par un immense pavillon carré tombant des cintres – et susceptible d’y remonter à demi ou entièrement – frappé du signe de Dieu en immenses caractères arabes. Il a pour pendant la voile latine ornée de la croix de Malte, déployée au mat central d’une galère à la proue de laquelle s’érige un immense crucifix. L’alternance de ces repères explicite le champ et les enjeux pour les personnages, la dualité complémentaire du noir et du blanc et ses dégradés modulent le climat des scènes. Cette compréhension fine des ressorts dramatiques – le choc de deux pouvoirs, de deux religions, et les affres des individus qui y sont confrontés après avoir vécu dans le secret – et la direction d’acteurs – sans doute perfectible – rendent lisibles les revirements parfois difficiles à suivre de personnages déchirés entre diverses fidélités. Les costumes vont des tuniques noires des esclaves au caftan immaculé de Palmide, en passant par les uniformes mariant le gris fer des armures aux manteaux noirs et blancs des croisés ; sur cette palette réduite, les eunuques dans la ravissante scène autour de l’enfant de l’amour, Aladino, Palmide et les émirs pour la réception de l’ambassade jettent leus soiries damassées qui semblent sorties des ateliers vénitiens de Tintoretto.

Et le chant ? Si l’on considère que Meyerbeer écrivait pour les grands virtuoses de son temps, sans doute émettra-t-on des réserves ; mais il nous semble préférable de regarder la moitié pleine du verre. Certes, les titulaires du rôle d’Adriano di Montfort n’ont pas les moyens d’en venir à bout avec les honneurs, ils n’ont ni l’étendue ni l’abattage qui permettaient à Rockwell Blake de triompher en juillet 1990 au festival de Radio France et Montpellier. Ricardo Bernal, le 17, frôle l’accident, et Fernando Portari, le 16, reste en-decà des attentes. Marco Vinco est davantage pour nous un baryton-basse qu’une véritable basse et sa jeunesse ne convient guère pour jouer un père noble, incarnation, au finale, de la magnanimité. Mais il est très musical et son émission est exempte des quelques engorgements de l’autre Aladino, voix pourtant plus large et présence imposante. Le physique de Laura Polverelli ne se prête pas vraiment au travesti masculin, mais sa virtuosité belcantiste est connue et sa Felicia se révèle de premier plan, ce n’est pas une surprise. La surprise vient de Tiziana Carraro, qui après un air d’entrée remarquable malgré une attitude empruntée (probablement à cause du trac) a fait preuve d’un tempérament et d’un aplomb vocal dont nous la savions pas pourvue. Enfin, la cause est entendue, ni Patrizia Ciofi ni Mariola Cantarero ne sont des Palmides philologiques ; mais la première cisèle avec son talent habituel les fioritures de sa partie et parvient à traduire toutes les facettes du personnage alors que la seconde séduit par un timbre plus opulent, coloré, peut-être plus proche des souhaits du compositeur.

Reste le problème posé par le rôle-titre. En l’absence de candidats qualifiés pour succéder au castrat Velluti, dernier de son genre à paraître sur les scènes, Armando d’Orville fut distribué à des mezzo en travesti. A Montpellier, Martine Dupuy relevait le gant avec panache, et l’on se souvient encore du velours de sa voix ductile. La Fenice, surfant sur le renouveau et la vogue des contre-ténors, a engagé deux chanteurs. Le 16, Michael Maniaci, qui se définit comme sopraniste, s’est imposé d’entrée par sa musicalité et sa virtuosité. Voix homogène malgré la faiblesse du médium, dotée de beaux aigus rayonnants, bref, la proposition était pertinente et fut tenue jusqu’à la fin avec une belle générosité. On s’attendait donc à une prestation de moindre éclat pour le titulaire de la deuxième distribution ; or il n’en fut rien et la chose est d’autant plus remarquable qu’il s’agissait des débuts en scène de Florin Cesar Ouatu. Non seulement il n’a rien à envier à son collègue en termes d’éclat ou d’agilité, mais son registre grave est plus ample et, scéniquement, son charme viril est des plus convaincants.

On voudrait, pour conclure, saluer tout spécialement la participation des choeurs. Même si, le soir du 17, un décalage se fit entendre, il fut rapidement corrigé et l’engagement, la superbe musicalité des artistes n’appelle que des éloges. Là, une des caractéristiques essentielles de l’oeuvre est restituée.

On lasserait à citer les passages qui ont charmé, duos, trios, quatuor, choeurs parallèles, ensembles... Oui, il s’agit bien d’une résurrection réussie. D’autres théâtres se lanceront-ils dans l’aventure ? On le souhaite, pour la satisfaction des maîtres d’oeuvre, et pour le renouveau de Meyerbeer.

Maurice SALLES

 

International Herald Tribune
Thursday, January 18, 2007

'Il Crociato in Egitto': Teatro La Fenice opens with a daring look back

By George Loomis


Patrizia Ciofi and Michael Maniaci in a new production of Meyerbeer's "Il Crociato in Egitto." (Michele Crosera)

VENICE. The rebuilding of Teatro La Fenice after its destruction by arson was a long and tortuous process. But even when the newly glittering opera house reopened in 2003, the problems were far from over. Two years ago its music director, Marcello Viotti, met an untimely death. A major rollback in national funding has had a crippling effect on Italy's major opera companies, La Fenice included. And following the expiration of Sergio Segalini's contract last June, the company has operated with neither an artistic director nor a musical one.

That situation will soon change with appointments this month of the veteran conductor Eliahu Inbal, who served as La Fenice's principal conductor from 1984 to 1987, as music director and Fortunato Ortombina, currently La Scala's chief artistic official below general manager Stéphane Lissner, as artistic director.

But the big news about the company's operatic product concerns the revelatory revival of Giacomo Meyerbeer's "Il Crociato in Egitto" (The Crusader in Egypt), which this week belatedly opened La Fenice's current season. The first staging in modern times of the last and most famous of the six operas Meyerbeer wrote for Italy early in his career, the production has already won praise from Milan's Corriere della Sera as "the most important musical event of 2007."

Such a claim may mean more to the student of opera than to the casual fan. Meyerbeer's fame rests principally on the four so-called grand operas, including "Les Huguenots" and "Le Prophète," he wrote for the Paris Opéra in the mid- 19th century, works that were spectacularly successful, enormously influential and still popular into the 1930s. In its day "Il Crociato" was also widely performed, but Meyerbeer's Italian operas gained a reputation as journeyman exercises written under the influence of Rossini simply to give the German born and trained composer experience with Italian vocal style.

What La Fenice's revival proves decisively is that, compositionally speaking, Meyerbeer was very much his own man before settling in Paris and a fascinatingly innovative one at that. True, the vocal lines of "Il Crociato" often have a Rossinian cut, especially in their coloratura, and Meyerbeer also follows Rossini's formal patterns, though far from slavishly. But the stylistic elements one has long identified with French grand opera are astonishingly present in abundance.

Meyerbeer's famous love for spectacular scenic effects is reflected in the disembarkation scene that follows the entry of a ship bearing the crusading Knights of Rhodes into the harbor of their erstwhile Egyptian enemy. In the Act 1 finale, hostilities erupt anew amid dueling choruses, multiple stage bands and fearsome warlike music. Gaetano Rossi's libretto gives religious conflict an important place, thereby looking forward to "Les Huguenots" and Halévy's "La Juive"— whether or not the lovechild of the knight Armando and the sultan's daughter Palmide is to be raised Christian makes for an important plot twist.

"Il Crociato" calls for a larger orchestra than Rossini ever used, which gives rise to superb effects, most memorably in a trio for treble voices plus several solo instruments that evokes ancient chivalric times. And the choral writing, spiked with unusual harmonies, is consistently vivid, from the opening chorus of enslaved knights to the hymn of death they sing when facing execution.

Of course, all this begs the question of why Meyerbeer's operas dropped out of the repertoire. One theory is that they still bear scars of Wagner's scurrilous anti-Semitic attacks (Meyerbeer was Jewish). Another is that the composer's dramatic style has been superseded in an era of cinematic special effects. Scholarly consensus is that Wagner and Verdi stole Meyerbeer's ideas and did better things with them. But until we see Meyerbeer's operas onstage in thoughtful productions, we can hardly conclude that, by embracing his operas, earlier generations got it all wrong.

Unfortunately, Pier Luigi Pizzi's low- budget production bears the signs of La Fenice's financial hardship. Nor is the cast beyond reproach. Patrizia Ciofi does some lovely things as Palmide, and Laura Polverelli, as Armando's jilted betrothed Felicia, sings with a firm-voiced intensity missing from most of the others. After an uneven beginning, Fernando Portari, as Armando's uncle Adriano, rose handsomely to the challenge of his stirring dungeon scene, and Marco Vinco excelled as Adriano's Egyptian patriarchal counterpart, the sultan Aladino.

But it was a mistake to cast Armando, the last great role written for a castrato, with a countertenor, Michael Maniaci, whose performance lacks a heroic dimension. Seasoned American observers will recall the unforgettable impression the young Felicity Palmer made in the role at a 1979 Carnegie Hall concert performance. Emmanuel Villaume here does yeoman service in the pit, presiding over the long opera in essentially the version of its 1824 Fenice world premiere.

"Il Crociato" was originally scheduled for last March. According to La Fenice's general manager, Giampaolo Vianello, only 38 opera performances took place in the house in 2006, though he expects 65 in 2007. Through it all, the company has persevered with its program to explore La Fenice's own operatic heritage. From "La Traviata," in the original Venice version Verdi tried to suppress, it has moved on to the likes of Rossini's "Maometto Secondo" and Galuppi's "L'Olimpiade." The new regime must surely continue the program. With "Il Crociato in Egitto," La Fenice has hit upon something important.

 

Die Presse
19. Jänner 2007

Was wir nicht über Musik wissen
Oper in Venedig. Das Fenice eröffnete seine Spielzeit mit einer Meyerbeer-Rarität.

VON WILHELM SINKOVICZ


In kargen Bildern erzählt Pier Luigi Pizzi im Teatro Fenice die Geschichte des untreuen Kreuzritters, den stilecht ein "Sopranista" singt. | (c) La Fenice (M. Crosera)

Welche Lücken unser musikhistorisches Bewusstsein aufweist, beweisen Opernhäuser, deren Dramaturgen jenseits ausgetretener Repertoire-Pfade grasen. Das venezianische Teatro La Fenice etwa präsentiert heuer eine bemerkenswerte Mixtur aus allzeit gängigen Titeln und Raritäten. Zur Saisoneröffnung gab man Giacomo Meyerbeers "Crociato in Egitto". Der Name des Komponisten ist für heutige Musikfreunde vor allem mit den Repräsentationsspektakeln der Pariser Grand Opéra verbunden, und mit den Attacken, die Richard Wagner gegen ihn ritt, obwohl er dem generösen Kollegen musikalisch (wie übrigens auch finanziell) viel zu verdanken hatte.

Den "Crociato" schrieb Meyerbeer noch für Venedig, ganz wendiger Handwerker, in allen Stilen firm, der mühelos Sängerwünsche, Publikumssehnsüchte und eine, scheint's, unbändige Lust am Erfinden neuer harmonischer und farblicher Nuancen zu verbinden wusste. Ein faszinierendes musikalisches Übergangsszenario konnte er auf diese Weise skizzieren, ein Pasticcio, dessen Rezept vom Secco-Rezitativ spätbarocker Prägung bis zur Doppelarie der Belcanto-Ära disparateste Zutaten mixt.

Die szenische Wiederbelebung in einer dankenswert zurückhaltenden, von kargen, klaren Bildern getragenen Inszenierung Pier Luigi Pizzis konfrontierte das illustre Publikum des Fenice denn auch mit dem Gesang eines "Sopranista", Michael Maniaci, der nach heutigem Brauch versucht, falsettierend den Klang der Kastratenstimme nachzuahmen. Tatsächlich schrieb Meyerbeer hier noch einmal für die 1825 bereits unmodern gewordene Stimmgattung und nutzt die Chance, den Männer-Sopran mit den Valeurs höherer und tieferer Frauenstimmen zu mischen, was vor allem in einem zu jener Zeit zum Schlager avancierten Terzett im ersten Akt berückende Wirkung macht.

Machen kann, zumindest, denn der Hörer muss im Fenice ein wenig abstrahieren. Meyerbeer hatte offenkundig Meister des Ziergesangs zur Verfügung, deren Koloraturgewandtheit er bis zum äußersten fordern konnte. Dieses Äußerste erreichen heutige Sänger offenbar kaum. Die Menge der verwaschenen, schlampig absolvierten Linien, die sich in der von Emmanuel Villaume zähflüssig dirigierten Aufführung anhäufen, erreicht ein erschreckendes Ausmaß. Die Skala des Gebotenen reichte bei der Premiere von völlig undifferenziert (der Sultan von Marco Vinco) bis schwerfällig, doch bemüht (der Tenor Fernando Portrari, der im zweiten Akt, wo Meyerbeer weniger Koloraturkunst als moderne, expressive Linienführung verlangt, zumindest seine Kraftreserven auszuspielen wusste).

Und doch wird die Darbietung des langen Werks niemals zur Fadesse. Denn Meyerbeer gleicht den durchaus bemerkbaren Mangel an genuin melodischem Talent durch eminente Kunst geschmeidiger Entwicklung und harmonischer Beleuchtung aus. Keine Nummer, in der nicht kühne Modulationen aufhorchen ließen, Details der Instrumentation zu ungewöhnlichen Klangeffekten führten. Besonders schön etwa, wenn in besagtem Terzett, in dem sich neben dem Sopran-Helden noch Patrizia Ciofi und Laura Polvelli als zumindest animiert agierende Damen empfahlen, harfenumrankte Instrumentalsoli ein luzides harmonisches Netz voll poetischer Detaileffekte um die Singstimmen auswerfen.

Dergleichen findet sich zuhauf in dieser handwerklich perfekt gemachten Partitur, die schon damals ein Werk für den Musik-Connaisseur gewesen sein muss. Im Fenice haben dessen Nachfahren Gelegenheit, historische Studien zu betreiben - in einer Art Sonderausstellung im Museum für Operngeschichte.

 

Die Welt
20.01.2007

OPER
Meyerbeers "Kreuzfahrer" neu in Venedig

Von Claudius Scherwitz

Obwohl es hier um Kreuzfahrer und Muselmänner geht, rollt kein abgeschlagener Mohammed-Kopf über die Bühne des Teatro La Fenice. In Venedig liebt man's versöhnlicher und weniger provokant als an der Deutschen Oper zu Berlin. Wenn die letzten Takte von Giacomo Meyerbeers über hundert Jahre lang vergessener Belcanto-Oper "Il crociato in Egitto" verklingen, liegen sich Christen wie Moslems in den Armen und singen unisono von Frieden und unverbrüchlicher Freundschaft.

Diese unwahrscheinlich utopische Botschaft der letzten großen Kastratenoper aus dem Jahr 1824 täuscht darüber hinweg, dass dieses Stück Musikhistorie nicht nur höchst virtuose Gesangspartien sondern durchaus auch Zündstoff für Fundamentalisten enthielte - gäbe es nur einen Willen, dies alles auf der Bühne durchzuspielen. Doch das italienische Urgestein Pierluigi Pizzi, der das im italienischen Stil verfasste Frühwerk des deutschen Juden Meyerbeer jetzt wieder am Uraufführungsort inszenierte, setzte nicht auf polarisierende Effekte, sondern auf unverfängliche Symbole. Und steht Belcanto nicht für Harmonie?

Kein Theaterskandal also in der Lagune, stattdessen ein großes Fest der Stimmen. Das Opernpaar Patrizia Ciofi als Sultantochter Palmide und der Countertenor Michael Maniaci als Kreuzfahrer Armando, der unter falschem Namen aus Liebe bei den Moslems unterkriecht, übertrafen sich in Präzision, Wohlklang und vollendeten Registerübergängen. Gerade bei der Rolle des Armando, die ursprünglich für einen der letzten berühmten Kastraten, Giovanni Battista Velluti, komponiert worden war, bedeutete dies eine Höchstleistung an Stimmführung, die er in berückenden Duetten an den Fähigkeiten der Ciofi messen musste. Und auch das Fenice-Orchester, das seit dem Tod von Marcello Viotti vor eineinhalb Jahren ohne festen Dirigenten musiziert, zeigte sich unter dem Franzosen Emmanuel Villaume in konzentrierter Form.

Bereits der farbige Eingangschor führt unmittelbar ins Geschehen: Unter einem riesigen weißen Banner mit den arabischen Schriftzeichen für "Allah" beklagen die vom Sultan Aladin gefangenen Malteserritter ihre verlorene Heimat. Der in Berlin geborene Meyerbeer, der sich in acht Lehrjahren in Italien und mit außergewöhnlichem mimetischen Talent die südliche Tonsprache zu Eigen gemacht hatte, wollte mit diversen Konventionsbrüchen zeigen, dass er kein bloßer Imitator Rossinis war: Der liebende Vater - ein Kastrat; der Bösewicht - ein Tenor; die weibliche Heldin - ein Mezzo. Und alle zusammen ein schauerromantisches Tableau, das klarmacht, dass hier ein Nachwuchsstar Rossinis orientalischen Erfolg der "Semiramide" aus dem Vorjahr mit Kostümorgien überbieten wollte.

Auch Pizzi, der selber für die Ausstattung verantwortlich zeichnete, lässt die muslimische Palastgesellschaft in kuschligen Seiden- und Brokatgewändern umher schreiten. Sonst aber stand diese überschlichte Inszenierung, deren einziges Requisit als große schwarze Kogge der Kreuzfahrer mit einem riesigen weißen Kruzifix auf die Bühne rollte, vielleicht sehr absichtsvoll für die angeschlagene finanzielle Situation des Theaters.

Seit den Kürzungen der Regierung Berlusconi kämpft Intendant Giampaolo Vianello um jeden Euro und hat mittlerweile bis aus Las Vegas und New York Sponsoren ans Haus binden können, die das größte pekuniäre Loch stopfen konnten.

Und auch die eben erfolgte Berufung des Chefdirigenten Eliahu Inbal und die glückhafte Rückholung des künstlerischen Direktors Fortunato Ortombina von der Mailänder Scala lassen für die Zukunft hoffen. Eine Saisoneröffnung ohne Kreuzzug und Skandal, dafür aber unter guten Vorzeichen für künftige Klänge.

 

Deutschlandradio
17.1.2007

Die Kreuzritter in Ägypten
Premiere von Giacomo Meyerbeers Oper am Teatro la Fenice in Venedig

Von Dieter David Scholz

Mit Giacomo Meyerbeers 100 Jahre lang vergessener Oper "Il crociato in Egitto" wurde jetzt am berühmten Theater La Fenice in Venedig die Saison eröffnet. Der deutsche Komponist und jüdische Weltbürger Giacomo Meyerbeer hatte mit dieser großen Chor- und Sängeroper im selben Haus 1824 einen seiner größten Triumphe gefeiert.

Meyerbeers Oper über "Den Kreuzfahrer in Ägypten" ist ein Werk des nicht mehr und noch nicht, noch ganz italienische Oper im Fahrwasser Rossinis, aber doch schon Zukunftsmusik. Mit dieser Oper wurde Meyerbeer der berühmteste Komponist italienischer Opern, neben Rossini, aber man hört auch schon den jungen Verdi durch und sogar Offenbach kündigt sich gelegentlich an. Der deutsche Komponist und jüdische Weltbürger Giacomo Meyerbeer, ein Jahr älter als Rossini, hatte mit seiner großen Chor- und Sängeroper "Il Crociato in Egitto" im venezianischen Teatro La Fenice 1824 einen seiner größten Triumphe gefeiert. Gefeiert wurde diese Oper auch jetzt, 2007 wieder im Teatro la Fenice, wo die erste moderne Aufführung des Stücks zu erleben ist. Mit Sängen, die durchweg das Attribut "first class" für sich beanspruchen dürfen. Der Bass-Bariton Marco Vinco singt einen virilen Sultan, die Mezzosopranistin Laura Polverelli eine hinreißende, in Männerkleidung auftretende Felicia, Nichte des Kreuzritter-Großmeisters Adriano, den der Tenor Fernando Portari mit heldischen Belcanto Qualitäten ausstattet:

Sänger-Oper als Fest und als selbstverständlicher Ausdruck bürgerlichen Selbstverständnisses, das gibt es so wohl nur noch in Venedig, der Stadt der ältesten Operntradition in Europa. Man bringt immer noch und immer wieder außergewöhnliche Produktionen heraus. Die Oper, mit der die diesjährige Opernspielzeit kurz vor dem Karneval eröffnet wird, ist alles andere als karnevalistisch: Es geht um den blutigen Macht- und Herrschaftsanspruch zwischen Muslimen und Christen, es geht um einen Kulturkampf und natürlich, wie in der Oper üblich, um einen Liebeskonflikt zwischen einer Muslimin und einem Christen, angesiedelt im 13. Jahrhundert in Ägypten während des sechsten Kreuzzuges. Patrizia Ciofi singt die Sultanstochter Palmide, der junge, außergewöhnliche New Yorker Sopranist Michael Maniaci den Ritter Amando:

Die Aktualität dieser Kreuzfahrer-Oper, die den Kampf zwischen Christentum und Islam auf die Bühne bringt, liegt auf der Hand. Man kann sich die fernsehgerechten Nahost-Bilder aktualisierungswütiger Vertreter modernen Regietheaters vorstellen. Anders in Venedig. Altmeister Pier Luigi Pizzi, unangefochtener Regiekönig der Oper in Italien, zeigt in strengen, klaren, ästhetisch ausgezirkelten Schwarz-Weis-Bildern den Konflikt des Stücks zeitlos symbolisch. Symbole auf der Bühne sind für den inzwischen 74-jährigen Präzisionsfanatiker und Ästheten Pizzi, das geeignetste Mittel, dem Publikum zu veranschaulichen, worum es geht:

Das Symbol der Muslime in Pizzis Inszenierung der Meyerbeer-Oper ist das arabische Wort Allah, das schwarz auf weißem Vorhangschleier geschrieben steht, in schöner arabischer Kalligraphie. Ein großes Kruzifix symbolisiert das Christentum. Die Kreuzritter bringen es auf einem riesigen schwarzen Schiff, das lautlos auf die Bühne gleite, ins "Reich des Bösen", das sich am Ende als das des Guten erweist, denn am Ende steht bei Meyerbeer und seinem Librettisten Rossi die Versöhnung, eine muslimisch-christliche Utopie. Schon deshalb hat Pizzi das Werk nicht ins hier und heute verlegt, denn reale Utopie und Versöhnungen sind heute selten. Und er zeigt die Muslime in geradezu verschwendungssüchtiger, sinnlich-lebensfreudiger Farbigkeit, im Kontrast zu den asketisch schwarz-weißen Kreuzrittern. Manche mögen dies altmodisch nennen. Andere werden das Fehlen jeglichen naseweisen Kommentars der Eigenbefindlichkeit des Regisseurs als wohltuend empfinden. Und ein Augenfest war diese Inszenierung allemal. Und der eben 34-jährige, in Strassburg geborene Dirigent Emmanuel Villaume, einer der aufsteigenden Nachwuchsdirigenten in den USA, weiß die Musik Meyerbeers adäquat zu realisieren: Besonderes Lob gebührt dem fabelhaften Chor des Teatro La Fenice, der in diese Oper tragende Funktion hatte, aber auch dem Orchester des Teatro La Fenice.

 

Der Neue Merker
16. Januar 2007

Venezia: „IL CROCIATO IN EGITTO"
Entdeckungen und un grande spattacolo

Giacomo Meyerbeers große französische Opern werden doch immer wieder gespielt. Er lebte aber auch acht Jahre lang, 1816-24, in Italien ( das ihn immerhin so beeindruckte, dass er seinen italienisierten Vornamen Giacomo, von Jakob, sein ganzes Leben lang beibehielt) und schrieb dort sechs Opern, welche fast 150 Jahre lang vergessen waren. Nun macht man sich an die Wiederentdeckung dieser Werke: „Margherita d’Anjou" in Leipzig; „Semiramide" in Wildbad und Valle d’Itria, und nun das Fenice mit dem hier besprochenen Werk. Diese Oper ist ohne Rossinis „Semiramide" nicht denkbar und hatte ein gutes Jahr nach Rossinis Werk Premiere am Fenice. „Il crociato" wurde bis etwa 1860 in vielen Theatern immer wieder gespielt um dann in der Versenkung zu verschwinden. Die Oper hat große Ausmaße mit einer reinen Spielzeit von etwa 3 ½ Stunden. Meyerbeer folgt Rossinis Beispiel, anstatt einer Vielzahl von Arien, Duetten etc. in großen, langen, zusammenhängenden Passagen zu komponieren. Erst im 2. Akt gibt es mehrere Bravourarien. Manchmal meint man sogar, er habe den Schwierigkeitsgrad für die Künstler noch erhöht. In der Komposition erkennt man nicht nur Rossinis Vorbild, ohne ihn aber je direkt zu imitieren, man findet deutliche Reminiszenzen an Mozart und die Hörner werden im Sinn der deutschen Romantik eingesetzt. Der Personalstil des Komponisten klingt immer wieder durch. Ein Detail: gegen Ende des 1. Aktes singen die Ägypter „Gran Profeta" und die Ritter in einem Gegenchor „Guida a noi son fede".

Pier Luigi Pizzi machte Regie und die gesamte Ausstattung. Er entwarf eine üppige Optik und malerische Bilder. Intellektualismus ist ihm fremd, es gibt kein „deutsches" Grübeln. Vielen Opernbesuchern gefällt so etwas besser als so manche „moderne" Inszenierung. Seine Personenführung steht sicherlich nach der malerischen Wirkung. Für die ägyptischen Szenen zeigt die Bühne den Namen „Allah" in arabischer Schrift, für jene der Ritter kommt ein Schiff, das ein Segel mit dem Malteserkreuz trägt.

Die Vorgeschichte der Handlung: der französische König Louis IX., der Heilige, unternahm 1248 den 7. Kreuzzug, welcher über Ägypten führte. Nach einer Schlacht gerieten der König und viele Ritter in Gefangenschaft und mussten freigekauft werden. Erst danach gelangten sie nach Jerusalem.

Die Handlung: der Ritter Armando nimmt nach der verlorenen Schlacht eine ägyptische Identität als Elmireno an um der Sklaverei zu entgehen. Da er bei einem Attentat dem Sultan das Leben rettet, kommt er an den Hof und fällt dort in große Liebe zu Palmide, der Tochter des Sultans, ja sie haben sogar einen Sohn – alles unentdeckt! Dann kommt Adriano, der Großmeister der Ritter von Rhodos um die Christen freizukaufen. Mit dabei ist Felicia als Ritter verkleidet, die Braut des Armando, welche ihren verschollenen Bräutigam sucht. Sie entdeckt, dass er noch lebt. Als sie die ganze Lage erkennt, verzichtet sie großmütig auf ihr Glück. Der völlig ahnungslose Sultan möchte die Christen freilassen, dann erkennt die Situation mit seiner Tochter und will alle hinrichten lassen. Bevor es soweit kommt, retten ihm die Christen, in einer von den Feinden des Sultans angezettelten Palastrevolution, das Leben. Als Dank lässt er alle frei, auch seine Tochter, welche sich nun als Christin bekennt, samt ihrem Sohn Mirva darf mit Armando und den Rittern wegziehen.

Das Theater hat eine so gute Akustik, dass der Dirigent das Orchester eher dämpfen als anfeuern muss. Emmanuel Villaume (in Wien als Dirigent bei den Festwochen mit „Goya" und Domingo in Erinnerung) ließ das sehr engagierte Orchester im 1. Teil etwas zu stark aufspielen, aber im Verlauf des Abends passte die Abstimmung der Lautstärken immer besser. Auch der viel eingesetzte Chor/Leitung Emanuela Di Pietro bot eine ausgezeichnete Leistung. Ganz gewaltig sind die Anforderungen an die Sänger, sowohl was die Länge ihres Parts, als auch den Schwierigkeitsgrad betrifft. Riesige Tonsprünge und wahre Kaskaden von Fiorituren in jedem möglichen Tempo. Die Besetzung war allen Lobes würdig und verhalf dem unbekannten Werk zu einem ganz großen Erfolg. Es ist doch großartig, dass es wieder genügend erstklassige Sänger gibt, die solche Werke wieder zum Leben erwecken können und sie der Vergessenheit entreißen.

Marco Vinco/Sultan (Bass-Bariton) ist seit seinen Anfängen in Pesaro in einer ständig ansteigenden Erfolgskurve. Seine Stimme ist klangschön, ausdrucksvoll, technisch ausgereift, koloraturgeeicht. Von Patrizia Ciofi, welche seine Tochter Palmide und heimliche Frau des Armando singt, kann man vom ersten klaren, reinen Ton an nur begeistert sein. Für sie gibt es anscheinend keinerlei technische Probleme, ihr Singen ist brillant und vollendet, reißt zur Begeisterung hin. Man merkt es wie das Publikum vom Anfang an reagiert. In ihren Soli, in Duetten, Ensemblestücken etc. überstrahlt ihr reiner Ton alles Andere, Die Rolle ihres heimlichen Ehemannes Elmireno, des christlichen Ritters Armando, wurde für den letzten Star-Kastraten Giovanni Battista Velluti geschrieben. Wie bald üblich, wurden solche Rollen später von Frauen als Hosenrollen gesungen. Neuerdings singen immer mehr Männer als Sopranisten, Contratenöre usw. derartige Partien. Hier war es Michael Maniaci mit erstaunlicher Virtuosität. Wenn man sich anfänglich an solche Stimmlagen gewöhnt hat, ist es eine gute Möglichkeit. Nur bei vollem Orchester ging er etwas unter. Dennoch ist es ewig schade, dass es zur Zeit der großen Stars unter den Kastraten noch keine Aufnahmemöglichkeiten gegeben hat. Nur zu gerne möchte man wissen, wie die wirklich geklungen haben. Hören – nicht nur Beschreibungen lesen! Seine verlassene Braut Felicia ist eine Mezzo-Rolle von außerordentlichem Schwierigkeitsgrad. Die international bereits renommierte Laura Polverelli machte einen fulminanten Eindruck mit einer sehr umfangreichen Rolle. Für sie scheint das Schwerste ganz leicht zu sein, so überzeugend erklang es. Die Rolle des Adriano, des Großmeisters der Ritter, ist ebenfalls besonders anspruchsvoll und verlangt eine Virtuosität jenseits etwaiger Probleme. Der Tenor Fernando Portari wird dem voll gerecht. Nur gelegentlich klingt die Stimme eng, wie gequescht. Diese fünf Sänger: Vinco, Ciofi, Maniaci, Polverelli und Portari waren ein ganz wesentlicher Grund für die volle Rehabilitierung einer vergessenen Oper.

Das Publikum ließ sich im Verlauf des Abends immer mehr und stärker beeindrucken, mitreißen, bezaubern und begeistern bis es dann zum Schluss großen Jubel und Freude mit vielen Bravo-Rufen aus dem Auditorium gab.

Martin R. Botz

 

canto lirico
enero 2007

Il Crociato in Egitto de Meyerbeer en el Teatro La Fenice de Venezia
Una puesta con carencias

Cecilia Rizzo (corresponsal en Italia)

En Venezia se abre la estación teatral con una Opera del compositor Giacomo Meyerbeer (cuyo verdadero nombre era Yaakov Liebmann Beer) obra considerada entre las más raras: Il Crociato in Egitto, el último de una serie de melodramas que Meyerbeer escribió para los teatros italianos, recogido de un melodrama parisino no identificado, cuyo libreto es fruto de la colaboración entre Meyerbeer y Gaetano Rossi, el libretista del Teatro La Fenice.

La obra se estreno por primera vez en el Teatro La Fenice el 7 de marzo de 1824; en el rol de Armando se presentaba Giovanni Battista Velluti, el último heredero del gran arte del setecientos de los castrati. Luego dicho rol fue adaptado a interpretes femeninos travestidos. Por muchos aspectos "Il crociato" tiene en cuenta la escena teatral francesa y anticipa los personajes que serán - pocos años más tarde - de la Gran Opera: así el amplio espectro de la introducción, enriquecido de una pantomima en la cual la musica describe la acción de los grupos y de las personas, le escena del conjuro, los efectos orquestales, el empleo de grupos corales.

Enfocandose en el encuentro cultural que hace de escenografía para la lucha (moros y cristianos) veremos como la Opera de Meyerbeer juega anticipadamente con el tiempo, proyectando aquellos que son conflictos íntimos y privados de un trasfondo histórico. Observando y escuchando con atención la evolución general de la obra, se puede notar como son muchos y repetidos los aportes de naturaleza Rossiniana; de Rossini son claramente reconocibles sea la articulación en los "números" cerrados, como el uso copioso de la coloratura vocal. Por estos mismos requerimientos en las diversas voces empleadas, desde la mezzosoprano al sopranista, y por la posible dificultad en la comprensión de la escritura musical, esperabamos una elección diferente de la que realizó el teatro, al menos en lo que respecta al segundo elenco.

Pieri Luigi Pizzi fue el responsable de la escenografía, vestimenta y regista general de la obra. Ha optado por una escenografía minimalista y elegante, que podríamos definir como "mise en décor": una escena blanca y negra, y pronto una embarcación (hermoso y fascinante el momento en que aparece la cruz octogonal)… Lo único negativo y bastante importante por cierto, fue lo estático de la acción, increíblemente pasiva casi como la dirección orquestal..Esto se torno por momento dificil de soportar para un público como el nuestro, moderno e hiperactivo, escuchar casi cuatro horas de música con una escenografía que podía haber aprovechado más las creaciones de Pizzi, pudiendo talves recoger otros efectos más cautivantes para el espectador.

La ejecución musical fue por momentos muy dura, se resentía aún más por la mala elección de algunos artistas en escena. El director de orquesta Emmanuel Villaume, no consiguió obtener el énfasis necesario de los cantantes, y no consiguió imprimir fuerza a la obra, complice talvés una orquesta muy disciplinada, pero con falta de nervio, que acható cada compás quitando color, a nuestro juicio sólo siguieron a los cantantes, una forma de ejecutar que no sirve para transmitir al público una obra como esta.

En lo vocal, Mariola Cantarero fue Palmide. Nos pareció que las agilidades y el peso vocal requeridos para el rol, superaron las capacidades interpretativas de la soprano. Federico Sacchi, Aladino, debería cuidar su emisión y trabajar más en la interpretación, también a nivel actoral para volver más eficaces sus personajes. Tiziana Carraro fue una correcta Felicia. Mención particular para el sopranista Florin Cezar Ouatu, que fue Armando. Obviamente no se podía pedir más por el volúmen de su voz. Hemos apreciado en particular modo su gran agilidad y su musicalidad, y la seguridad en los agudos Ricardo Bernal, fue Adriano di Montfort, con una hermosa voz de Tenor. Le auguramos un gran futuro y le recomendamos cuidar su emisión y técnica para que tenga éxito en el panorama lírico internacional.

Muy buena la ejecución del coro preparado por Emanuela di Pietro.