Il giornale della musica
14 novembre 2004

Tutti "clienti" di una Violetta d'oggi

Se potessimo mutare il nome un po' fané di Violetta con un altro più alla moda il gioco sarebbe presto fatto. In effetti soltanto i nomi restano della nota Traviata verdiana. Quella che ha inaugurato la ricostruita Fenice è quanto di più nuovo e moderno ci si possa attendere, a iniziare dal recupero simbolico della partitura dell'Ur-Traviata (a opera di Fabrizio Della Seta) fischiata nel 1853 proprio in quel teatro, che differisce in alcuni dettagli marginali con quella d'uso del 1854, vocalmente più accessibile.

Così come aveva desiderato Verdi per la scandalosa versione originaria, Robert Carsen (due volte vincitore del Premio Abbiati) ne disegna ora una lettura attualizzata, amara e intrigante al contempo, in cui dominano i temi della prostituzione e del denaro, che nel primo quadro del second'atto cade a pioggia dalle betulle (un fondale effetto poster) del giardino di campagna della protagonista. La camera da letto di Violetta, che appare subito in un negligé velatissimo e succinto, è il fulcro del bordello di lusso entro cui è ambientato l'atto di apertura: eterogenee figure abbigliate in vesti anni '70 partecipano a una festa stile 'dolce vita', simulando movenze erotiche, spinellando (la stessa Violetta si fa iniettare dell'eroina), mentre Alfredo intona "Libiam ne' lieti calici" seduto al pianoforte (bianco). Smodata è pure l'idea della seconda festa, quella in casa di Flora, una specie di casinò stucchevole, frequentato da una società corrotta attratta dal denaro, che si anima per il siparietto coreografico che unisce conigliette e pistoleri hollywoodiani luccicanti, seminudi e ammiccanti. Tutto scorre come in un musical, o in un varietà, in cui vizi e mali odierni si intersecano e tutti, amanti autentici e spettatori, sono in qualche modo in relazione con Violetta, denudata, spiata in casa, in camera da letto, nella stanza da bagno. Disadorna la scena finale che segna la morte della protagonista; una stanza priva di letto, con un castello da imbianchino, bidoni di vernici, squallore e cellophane arrotolato per terra. Qui Violetta muore tra l'indifferenza degli imbianchini che si accendono una sigaretta e scrutano i muri calcinati da ridipingere, segno che oggi anche la morte non fa più notizia.

Una Traviata nuova e stimolante visivamente, sorretta dalla bacchetta di Lorin Maazel con nitore e finezza analitica eccezionali. Spavaldo, brillante e di vocalità impetuosa è apparso Roberto Saccà, un Alfredo di pelle vestito con la mania nipponica di fotografare Violetta in tutte le salse. Il Germont di Dmitri Hvorostovsky è solidamente disegnato, registicamente cupo e austero. Patrizia Ciofi, possiede una voce piccola ma agile per calarsi negli artifici della parte di Violetta: tuttavia risulta un tantino forzata e innaturale negli acuti e poco passionale nell'insieme, sebbene sia bella e si muova benissimo in scena. Bravi anche gli artisti di fianco e il coro.

Serata mondana: ministri, politici, protagonisti dell'alta moda e della finanza, Romano Prodi, i reali del Belgio, aristocratici a iosa ecc. ecc. Tutti hanno apprezzato la novità e gli applausi sono stati calorosissimi.

Maria Girardi

 

operaclick.com
20 novembre 2004

Venezia Teatro La Fenice
Giuseppe Verdi La Traviata

Denaro. E’ il denaro che scandisce, quasi ossessivamente, la vita di Violetta secondo Robert Carsen. Fruscianti banconote che escono dai portafogli dei generosi "amici" di madamigella Valéry, che riempiono i cassetti dei mobili del suo boudoir, che cadono come foglie secche dagli alberi del giardino-foresta del secondo atto a formare un tappeto, che vengono gettate sul viso della cortigiana durante il party di Flora, che servono infine a saldare l’ultima parcella del dottor Grenvil. Il mondo di questa Violetta e del suo entourage non è un mondo volgare, è semplicemente vuoto, fatuo, superficiale, e di questo mondo è parte anche un Alfredo-fotografo, che appare più innamorato dell’immagine di Violetta che della donna reale. Carsen ama i simboli: il verde, il colore dei soldi, è assolutamente dominante, financo lo champagne col quale si brinda è "Dom Perignon", verde l’etichetta, le verdi banconote-foglia cadenti a sottolineare l’alienazione dei beni materiali, infine, le tappezzerie verdi, oramai a brandelli, della casa di Violetta morente, che, appena spirata la padrona di casa, verranno sostituite da parati rossi che due impietosi operai portano nella stanza ridotta ad uno squallido cantiere.

E’ uno spettacolo forte, non trasgressivo, profondamente umano, rivelatore della società contemporanea nella quale il dramma ottocentesco viene trasposto senza stravolgimenti, senza violenze alla musica, senza voler mostrare ciò che nel racconto originale non c’è. Non sono scandalosi i cow-boys e le cow-girls della festa di Flora, non è scandalosa la rozzezza di Germont padre, non è scandalosa l’avidità del dottor Grenvil: è semplicemente la vita. Il mondo che il regista pone intorno alla protagonista è fatto di divette, mantenute, modelli, amanti-protettori, un mondo che turbina in un tripudio di vanità e che scompare come d’incanto al declinare della salute e delle finanze della poveretta. Ultimo affronto, l’irruzione della banda degli amici, invasati dallo spirito del carnevale, nella stanza Violetta morente, che viene guardata con indifferenza infastidita. Uno spettacolo perfetto e convincente. Bellissime le scene, tra il déco ed il moderno, di Patrick Kinmonth, che firma anche dei costumi "glamour", e suggestivo il light design di Peter van Praet.

Per quanto attiene all’aspetto musicale, si è scelto di rappresentare, per la riapertura della Fenice rinata, la versione originale del 1853, quella che per intenderci fece fiasco. Le differenze con la versione definitiva sono rilevanti, a partire dalla parte di Germont, assai più alta di quella che noi conosciamo e con delle difficoltà, soprattutto nella cabaletta del secondo atto, e nelle puntature nei concertati. L’ascolto è in ogni caso interessante, anche se la revisione del 1854, quella tramandata, appare più stringente e più calzante al dipanarsi delle vicende e risulta, alla luce dei fatti, frutto vincente dell’ennesima scelta oculata del grande bussetano.

Uno spettacolo come quello di Robert Carsen ha necessità assoluta di un cast di cantanti attori di livello superiore; se abbiamo avuto degli attori di notevolissimo spessore, essi non hanno pienamente soddisfatto sotto l’aspetto vocale. Patrizia Ciofi tratteggia una Violetta cinica e gelida nel primo atto, rassegnata e tenera nel secondo, disperatamente sola nel terzo, e lo fa con incredibile presenza scenica, inchiodando letteralmente il pubblico, che le tributerà una vera ovazione, alla sedia. Dal punto di vista vocale la Ciofi denuncia alcuni limiti evidenti, derivanti da un’organizzazione non perfetta della voce, la quale, se funziona egregiamente nell’opera barocca, meno bene si piega alle difficoltà imposte dalla musica di Verdi: la voce è un po’ "piena d’aria" ed un tantino fissa; in ogni caso la grinta e la forza interpretativa prevalgono ed il personaggio esce a tutto tondo. In conclusione una Violetta che va vista oltre, o forse più, che ascoltata. Roberto Saccà è un Alfredo generoso, fanciullesco, un po’ fatuo; la voce, non piccola, "passa", il timbro è tutto sommato non spiacevole, ma ha il difetto di ingolarsi in acuto, con conseguenti suoni non propriamente gradevoli. Ci piacerebbe pensare che, con un affinamento della tecnica, queste difficoltà potrebbero essere superate. Il Germont di Dimitri Hvorostovski è un rozzo borghese, ricco e poco avvezzo alle "choses du monde", con il tic, rivelatore di insicurezza, di pulire in continuazione gli occhiali. La voce del baritono siberiano è di grana assai bella, più piacevole nel registro acuto, e questo giova al Germont 1853, la cui tessitura è davvero alta, ma la respirazione è a tratti problematica, segno di un disordine dell’apparato vocale che prima non gli conoscevamo. L’interpretazione è comunque generosa e degna di positivo riscontro. A posto i comprimari, su cui spiccano il Gastone di Salvatore Cordella (ma perché ultimamente i Gastoni sono meglio degli Alfredi?…) e il Grenvil di Federico sacchi.

Nota non del tutto positiva è costituita dalla direzione di Lorin Maazel. Il Maestro Maazel, che in passato ci ha abituato a prove di buon livello, è sembrato vagamente distaccato ed ha offerto una lettura del capolavoro verdiano che non ci ha convinto: tempi lenti, una certa tendenza all’eccesso di ottoni e percussioni, pochi palpiti, scarsa emozione; la musica scorre come l’acqua sui vetri, lasciandoci poco.

Alla fine un pubblico cosmopolita ha tributato un successo convinto allo spettacolo, con autentiche ovazioni, come accennato sopra, alla Ciofi

Alessandro Cammarano

 

La Libre Belgique
18/11/2004

Musique
L'opéra retrouve la Fenice
Réouverture complète de la célèbre scène vénitienne. Maazel dirige la version originale. Carsen conduit Violetta dans les années 70.

NICOLAS BLANMONT
ENVOYÉ SPÉCIAL À VENISE

Le 6 mars 1853, "La Traviata" est créée au Teatro La Fenice de Venise. Deux ans après la première triomphale de "Rigoletto" dans la même salle, c'est, selon les mots de Verdi lui-même, un fiasco. Il faudra attendre 1854, une autre scène vénitienne - le San Benedetto - et une partition légèrement retravaillée par le compositeur pour que l'oeuvre connaisse un succès qui ne s'est plus démenti depuis.

Argent roi

Un siècle et demi plus tard, c'est le célèbre opus verdien que la Fenice a choisi pour rouvrir ses portes à l'opéra. Après l'incendie du 30 janvier 1996, après la saga juridico-immobilière à l'italienne de la reconstruction, après l'inauguration de décembre 2003 par une série de concerts symphoniques - la machinerie de scène devait être achevée, et des tests acoustiques furent encore réalisés -, Verdi est revenu en triomphateur dans une des salles les plus mythiques du monde lyrique. Les salles sont combles malgré des prix assourdissants (de 200 à 4000 € la place pour la première, de 50 à 1200 pour les autres représentations), comme si la Fenice avait voulu par un seul titre financer une saison qui se fera bien plus audacieuse par la suite: "Le Roi de Lahore" de Massenet, "Maometto secondo" de Rossini, "La Finta semplice" de Mozart, "Pia de'Tolomei" de Donizetti ou "Daphné" de Strauss, le seul tube - relatif - étant "Parsifal".

Il y a aussi beaucoup d'argent sur scène, Robert Carsen en ayant fait un des ressorts de sa mise en scène: l'action se passe dans les années 70 - le metteur en scène rappelant que Verdi avait toujours été désireux de faire représenter son opéra dans des vêtements contemporains de ceux de ses spectateurs - et Violetta est une prostituée toxicomane de luxe dont Douphol est le souteneur et Alfredo un visiteur tombé amoureux. Dès le prologue, ses clients viennent la payer en lui jetant des brassées de dollars qui vont joncher le sol de son immense chambre. La maison de campagne du deuxième acte sera une forêt tout en photos murales (les seventies, encore), et ce sont des billets qui tomberont du ciel comme des feuilles mortes. Le résultat est parfois cru, mais jamais gratuit et toujours cohérent, grâce aussi à une direction d'acteurs appliquée non seulement aux protagonistes principaux mais aussi à chaque choriste et figurant. Et l'émotion garde ses droits, surtout au final, joué dans l'appartement en travaux de Violetta, où toutes les lumières de la salle se rallument (ah, la magie des lumières de la Fenice!) quand elle croit voir disparaître le mal. L'instant d'après, dernière métaphore d'un monde vénal et insensible, les tapissiers arrivent pour achever leur travail, indifférents à sa mort.

Violetta d'anthologie

Dans la fosse, l'Orchestre de la Fenice, manifestement heureux de retrouver ses murs, joue superbement sous la baguette attentive d'un Lorin Maazel des grands jours. La Fenice a eu l'idée intéressante de donner l'oeuvre dans la version de la création, jamais donnée depuis 1953 et donc quelque peu différente de celle que l'on connaît aujour- d'hui: c'est particulièrement sensible dans la scène entre Violetta et Germont au deuxième acte, mais aussi au final.

La première des deux distributions alternées permet de découvrir en Patrizia Ciofi une Violetta d'anthologie. Avec voix égale dans tous les registres et à l'intonation parfaite, capable de placer en outre toutes les nuances en une parfaite messa di voce, la soprano italienne est aussi une actrice éminemment crédible: jeune, fine, mobile, et avec un visage suffisamment neutre pour pouvoir prendre toutes les physionomies au gré des maquillages. A ses côtés, Roberto Sacca est un Alfredo tout aussi crédible quoiqu'un peu plus gauche: sans être exceptionnelle, la voix est juste et bien timbrée, mais le ténor italien appuie parfois excessivement ses effets. Dmitri Hvorostovsky chante Germont avec noblesse et élégance, même si la voix est parfois un peu moins sûre dans l'aigu: son seul défaut scénique est que ses cheveux blancs ne suffisent pas à le vieillir pour qu'il puisse avoir l'air d'être le père d'Alfredo.

 

ResMusica
22/11/2004

[Scène] Lyrique
[Venise] Traviata de glace pour Fenice flamboyante
par Alexandre Pham

Saluons Arte qui ose ce que les autres chaînes ont oublié depuis longtemps : l’opéra en heure de grande écoute, de surcroît en direct et à partir de 19h, avec dans le temps des entractes, des reportages cousus main en parfaite entente avec le sujet diffusé : ici, une enquête maison de grand style sur la rénovation du théâtre de la Fenice qui nous accueille ce soir, où rien ne vous est caché : les peintres et les décorateurs, les menuisiers et les sculpteurs… où l’on apprend – merci la seule chaîne culturelle du PAF ! –, que la salle a été reconstruite à l’identique de son dernier état perdu lors de l’incendie de 1837 (avant le dernier de 1996) toute faite de bois de mélèze (vieilli s’il vous plaît), constituant une idéale caisse harmonique … que la surabondance des ornements (en papier mâché compressé) fonde l’identité du lieu : par ses références néo classiques et néo versaillaises, qui accumulent l’esprit du rocaille Français et l’élégance de l’Empire, elle exprime l’idée de la gloire Vénitienne. Et devant le résultat qui s’épanouit malgré la dimension de notre petit écran, nos yeux restent ébahis : les vénitiens ont relevé le défi. Tout y paraît indiscutable, digne de la ville qui créa l’opéra public (en 1637), à la mesure d’une scène qui vit la création d’une certaine … " Traviata " (et oui ! en mars 1853) ; prête (enfin) pour titiller sa concurrente italienne, la Scala de Milan ?

Donc une soirée comme on les aime où la culture vivante nous est donnée en partage ! Oui pour la télé qui rentre dans les temples de l’art et nous offre quelques instants de pure magie … Donc, plateaux-repas préparés, attention décuplée, en route pour une soirée lyrique qui nous rappelle ce que nous avions… il y a très (trop) longtemps, vécu, aimé et qui nous avait façonné le goût à nous pauvres adolescents encore jeunes mélomanes, – quand France 2 (à l’époque " Antenne 2 ") diffusait les opéras de l’été, Orange et Aix en Provence entre autres.

Magie, vous avez dit magie ? Hélas, cette Traviata, première production " inaugurant " une Fenice rutilante sous les ors et les lustres, nous inflige une vision désenchantée d’une histoire romantissime par excellence, d’après Alexandre Dumas. Où sont les rideaux de velours, les meubles Second Empire, les robes à panier, les coiffures, les grands trumeaux de glace dans le style Régence ? Où sont les images Zeffirelliennes qui continuent de bercer notre mémoire? Pas l’ombre d’une couleur chaude ! Rien que la froideur glaçante d’une galerie de portraits où la solitude le dispute à l’esprit de sacrifice. Robert Carsen est fidèle à son " esthétisme " : lumières acides et crues, scène jetée dans le noir, décor à l’économie voire à l’austérité… Pourtant dans notre souvenir, ses mises en scènes pour l’Opéra de Paris, qu’il s’agisse des Boréades récentes à Garnier ou des Contes d’Hoffmann à Bastille (de loin ce qu’il a réalisé de mieux !), n’empêchaient pas quelques tableaux de poésie pure…

Ici, une vision déshumanisée de la vie, pas un indice de tendresse compassionnelle. Tout est régenté par l’argent : une manne maléfique qui tombe comme des feuilles mortes faisant tapis sur les planches (Acte II). Traviata est une victime à répétition qui meure entre une télé aveugle et des échafaudages de plâtriers (Acte III). Plus irritante de notre point de vue, cette volonté d’actualisation qui atteint ici comme ailleurs ses pics de vulgarité : avait-on réellement besoin de convoquer le Crazy Horse ou le Lido de Paris comme il vous plaira, pour le chœur des Gitans (fin du II)? Du sexe dans la mouvance du " porno chic " (bien qu’aujourd’hui démodé) pimente une lecture régénérée, dépoussiérée, agaçante à force de " sophistication tendance ". Tout cela fonctionne mal. Pour certains, nous paraîtrons " old fashion " : la Traviata reste un mythe de l’amour romantique et " l’attaquer " de cette manière, égratigne la patine qui fait son indicible attrait. Pour nous, Violetta ne peut mourir que sous d’immenses drapés, ce en quoi Zeffirelli avait touché juste.

Pour l’heure, l’attraction de la scène retransmise par le filtre télévisuel opère : plongés au cœur d’une histoire " chromo XIXeme " prenante, notre attention se fixe sur les voix. Le plateau est plutôt faible mais ne démérite pas : Dmitri Hvorostkovsky s’époumone souvent, forçant les accents d’un Germont plutôt caricatural sous ses faux airs de professeur bolchévique lunetteux ; Robert Saccà est un Alfred assez inconsistant, au style empoulé ; seule, la Violetta de Patricia Ciofi, à force d’émotivité sincère, nous émeut. Mais la voix a faibli – depuis sa première Traviata sous la baguette de Ricardo Muti en 1997 à la Scala de Milan, et le timbre éreinté atteint souvent ses limites… Si la chanteuse ne ralentit pas le rythme de ses engagements, sa longévité vocale pourrait en prendre un coup.

Nous l’avions entendue dans le Couronnement de Poppée au Théâtre des Champs Elysées (lire notre critique en cliquant ici) : sa " Poppée " était loin de convaincre. Dans la fosse, Lorin Maazel quant à lui, dévoile une intégrité à toute épreuve, insufflant à l’orchestre et au chœur locaux, le nerf nécessaire.

Qu’importe le flacon… si seule compte l’ivresse ? N’en déplaise aux oreilles les plus exigeantes, nous ne jouerons pas les critiques acerbes. Il nous reste de cette soirée le sentiment d’avoir vécu un direct parfaitement géré, avec pour accompagnatrice stylée, Anette Gerlach, pimpante et vive comme à son habitude maniant les langues et les interviews (dont celle de Robert Carsen soi même), avec astuce et humour, toute galbée dans sa robe rouge. Pour elle, on en redemande. D’ailleurs, le rendez-vous est pris, le 1er janvier 2005, même lieu, même chaîne. Et c’est Georges Prêtre qui mènera la danse.

Venise. théâtre de la Fenice. 18-XI-2004. Direct Arte. " La Traviata " de Giuseppe Verdi. Mise en scène : Robert Carsen. Patricia Ciofi (Violetta), Roberto Saccà (Alfred), Dmitri Hvorostkovsky (Germont), Orchestre de Chœur de la Fenice, direction musicale : Lorin Maazel.

 

The Observer
Sunday November 21, 2004

CLASSICAL
Burnt offering
After its third fire in as many centuries, Venice's beloved opera house La Fenice was back in business again last week - with a crude La Traviata

Anthony Holden

With what prescience did the founding fathers of Venice's Gran Teatro La Fenice name it after that mythical creature, the phoenix, when it arose from the ashes of a burnt-out theatre in 1792. In 1836 it burned down again, and was promptly rebuilt, only for history to repeat itself at the turn of the 21st century. Two electricians were jailed in 2001 for setting the fire which destroyed La Fenice in January 1996. Their company was facing heavy fines for delays in the renovation work following its bicentenary celebrations, so they decided on arson as a cheaper option. The then mayor of Venice was also prosecuted for negligence, but was acquitted. His successor has had to deal with a long succession of legal wrangles which had some wondering whether, this time around, La Fenice would live up to its name and rise again. Last weekend it did just that, in more wondrous shape than ever.

'Com'era, dov'era' was the slogan of the long-drawn-out restoration process - 'as it was, where it was'. For a mere €60 million - £45m, compared with the £200m recently spent on refurbish ing Covent Garden - the music-loving Venetians have lived up to their word by restoring their prize possession to its original rococo beauty, from the stately splendour of its elegant facade to the sumptuous wedding cake that is its six-tiered interior.

For the best part of a year the new Fenice has been experimenting with concerts; only now has the theatre for which Verdi wrote Rigoletto and La Traviata , for which Stravinsky, Britten and Prokofiev all composed new works, finally reopened for opera. The work chosen, appropriately enough, was La Traviata, first performed there (to a mixed reception) in 1853. Prime Minister Berlusconi and other European notables lent heft to the gala premiere, which coincided with a Nato summit in Venice; the best Britain could manage was the Michaels of Kent. But the black-tied audience was discriminating enough, for all the festive atmosphere, to receive Robert Carsen's louche production and Lorin Maazel's crude conducting with pained indifference, even a few boos.

Whatever London may currently think of La Scala's Riccardo Muti, who recently let down the Royal Opera so outrageously, he was the obvious choice to conduct the first concert at the new Fenice last December. For the theatre's first opera, it remains a mystery why a country so full of gifted conductors should choose to hire Maazel - whose return to Covent Garden next May, conducting the world premiere of his own first opera, 1984, will be his first appearance there since 1978. Few big-name maestros are so clearly past their sell-by date, as evidenced by the poor soloists whom he simply left to get on with it, often with unhappy results, so intent was he on wringing every last ounce of treacly sentiment from the decent house orchestra.

As Violetta and Alfredo, homegrown favourites Patrizia Ciofi and Roberto Saccà both made nervous starts on the stage where Callas and Pavarotti made their names. With Maazel doing little to help them grow in confidence, each seemed to derive strength from the other as their performances gradually warmed up. Both had their eloquent, charming moments; but neither were up to the standards expected at an international house. Dmitri Hvorostovsky - looking like Aristotle Onassis in heavy specs beneath his mane of white hair - meanwhile turned in his usual stolid, passion-free performance as Germont senior.

The giant bed that has become a trademark of Carsen's productions made its appearance in the first scene, which meant that le tout Paris trooped in and out of Violetta's bedroom, with a piano wheeled on and off for the 'Brindisi'. She may be a fallen woman, but she is a mistress, not a hooker - as suggested by the dozen or more men who handed her fistfuls of banknotes during the overture. By the second act, at her country house, it was literally raining money, and the couple were on the floor rolling in the stuff, though the whole point of the scene is that they are going broke. The stylish looks of Carsen's modern-dress staging were consistently undermined by such triumphs of design over content, for all the glitzy, Cabaret -style strippers (of both genders) at Verdi's masked ball.

[…] With Gilbert and Sullivan next up, ENO needs to get bums on seats as desperately as La Fenice, whose enterprising season ranges from Mozart's La finta semplice to curiosities by Petrassi, Massenet, Rossini and Donizetti. But in neither case, alas, does a brave new theatre yet herald a glorious vita nuova.

 

New York Times
November 15, 2004

Venetian Phoenix Rises Operatically From the Ashes

By ALAN RIDING

VENICE, Nov. 14 - Destroyed by fire on the night of Jan. 29, 1996, and rebuilt during eight years of noisy scandals, lawsuits and delays, Venice's legendary Teatro La Fenice has finally restored drama to its proper place - on the stage, not in newspaper headlines. On Friday, after the curtain rose on a new production of "La Traviata," the city that Italians call La Serenissima could once again boast an opera house in keeping with its majestic surroundings.

Third time lucky?

The first Fenice (pronounced feh-NEE-chay) opened in 1792 and burned down in 1836. On that occasion, at least, it was quickly rebuilt, reopening the following year on the same spot, squeezed among canals, Renaissance palaces and Baroque churches.

The third Fenice was completed 11 months ago and inaugurated with a concert, but the theater hierarchy wisely took time to test its backstage machinery. Now the building is back in the opera business - little wonder that "fenice" means phoenix - and in the view of many European critics in the audience, its updating of an age-old story of prostitution was a success.

With le tout Venice and more on hand, the operatic reopening was as much a political and social occasion as a musical moment. Special guests included King Albert and Queen Paola of Belgium; Romano Prodi, the outgoing president of the European Commission who is busily planning his return to Italian politics; and a host of ministers and officials. Venetians who simply wanted to be there paid the equivalent of $1,290 each for the privilege.

The true star, of course, was the new building, which many in the audience were viewing for the first time. Like many Italian opera houses, La Fenice is shaped like a horseshoe: five tiers of boxes embrace its main floor. With just 1,000 seats (160 more than before the fire), it is a small theater, which serves to intensify the ornateness of its ceiling frescoes, gilded balconies, glittering chandelier and plump putti.

The neo-Classical facade and main foyers survived the 1996 fire and have been cleaned and splendidly redecorated; the auditorium and backstage, however, had to be rebuilt. The auditorium's colors look brighter, while wooden floors instead of carpeting have improved acoustics. But a more radical modernization took place backstage: additions include the latest machinery, better storage space for scenery and two new rehearsal rooms.

For La Fenice's first opera of its third life, the theater's artistic director, Sergio Segalini, chose Verdi's "Traviata," not only because it is a guaranteed crowd-pleaser, but also because its world premiere took place here on March 6, 1853. Further, in encouraging the Canadian-born director Robert Carsen to interpret it as a modern opera, Mr. Segalini was granting Verdi's own wish 151 years later.

"La Traviata" was adapted from Alexandre Dumas fils's semi-autobiographical play, "La Dame aux Camélias," about an alluring but ill-fated mid-19th-century Parisian courtesan. But Verdi's idea of creating an opera about a tragic prostitute set in his own time proved too shocking for Venice. And even after he placed the story in the France of Louis XIV, "La Traviata" provoked a scandal when it opened here.

With Lorin Maazel conducting the orchestra of La Fenice, the current production takes up the challenge by focusing on two inseparable features of prostitution: sex and money. Indeed, even Verdi's overture is accompanied by a kind of choreography in which a dozen men hand wads of money to a barely dressed Violetta Valéry who is lying on a king-sized bed. The first act's party, where the young photographer Alfredo Germont falls for Violetta, then takes place in a brothel.

"It was the powerful and unpleasant first-hand experience of their society's hypocrisy which inflamed both Dumas fils and Verdi and which is inextricably woven into the very fabric of 'La Traviata,' " Mr. Carsen wrote in the program notes. "Social conventions may have changed, but bourgeois society's hypocrisy and double standards (even in an age which worships celebrity, encourages sexual tourism and promotes Internet pornography) have not."

Even so, some Venetians were a tad shocked (something that no doubt would have pleased Verdi). "I had people complaining," Mr. Segalini said in an interview the morning after the opening, "but I explained that we were respecting what Verdi wanted. Anyway, 'La Traviata' is a very modern opera. The papers are full of stories about prostitution, Italian highways are lined with foreign women selling themselves, there is even talk of reopening brothels to control things."

Perhaps intimidated by the occasion, the young singers began nervously, although Patrizia Ciofi as Violetta grew in voice and passion to earn an enthusiastic final curtain call. And while Roberto Saccà proved an uncharismatic Alfredo, Dmitri Hvorostovsky, dressed like a C.E.O. as Alfredo's father, was a pillar of strength.

With Mr. Maazel's tight schedule requiring two casts to perform eight shows in nine days, this inaugural run of "La Traviata" ends on Saturday. In a sense, it is only then that La Fenice will turn to its new challenge of shaking off its pre-fire reputation for mediocrity. It starts well. Mr. Segalini said that tickets for the nine operas in the 2004-5 season have sold out. The season will also include visits by the Béjart Ballet Lausanne, the Paris Opera Ballet, Pina Bausch and the Berlin Philharmonic under Sir Simon Rattle.

The new opera season, which will be held at La Fenice as well as at the newly restored Teatro Malabran, is certainly eclectic. It includes Donizetti's "Pia de' Tolomei," created for La Fenice in 1837 and never again performed here; Rossini's "Maometto Secondo," the first modern production of the 1822 Venetian version; Richard Strauss's "Daphne"; Massanet's "Roi de Lahore"; Wagner's "Parsifal"; and Offenbach's "Grande-Duchesse de Gérolstein."

Marcello Viotti, La Fenice's music director, who will be taking La Fenice's "Traviata," Verdi's "Attila" and Bizet's "Pêcheurs de Perles" on a Japanese tour next spring, said it was important for the theater to continue its tradition of presenting new works (six of Verdi's operas had their first performances here). "We have always been in the vanguard," he said, "and in future years I'd like to see one new opera presented here every season."

 

DIE WELT
15. November 2004

Violetta aus dem Kühlfach

Kalte Kunstübung: Mit "La Traviata" wurde Venedigs La Fenice auch Opernhaus wieder eröffnet

Von Manuel Brug

Nicht, daß es in Venedig keine Baustellen mehr gäbe. Der sich neigende Uhrturm an der Piazza San Marco, auf dessen Umhüllung sinnigerweise der schiefe Turm von Pisa prangt, die Ca' Foscari und der vorsätzlich halb abgebrannte Mulino Stucky auf der Giudecca sind nur die prominentesten Patienten. Doch wenigstens am im Januar 1996 ebenfalls durch Brandstiftung zerstörten Opernhaus La Fenice sind jetzt alle Gerüste gefallen.

Im vergangenen Dezember war mit einer Konzertwoche der Zuschauerraum eingeweiht worden. Nun ist der Phönix mit Roberts Carsens Inszenierung von Giuseppe Verdis "La Traviata" auch als voll funktionsfähiges Musiktheater zum wiederholten Mal aus seiner Asche neu erstanden.

Wie es war, und wo es war. Im schon zur Umbauzeit des Fenice 1836 längst unmodernen Stil des zweiten Rokoko, rosa, golden und hellblau: Nur der fast schwarze, Blumen bestickte Vorhang setzt einen dunklen Kontrast. Das knallig Pralinenschachtelbunte wird erst durch die Zuschauer in den übervollen Rängen abgemildert, wie auch die ebenfalls noch bißchen knallige und direkte Akustik.

Venedig ist sich, schon der zu jeder Jahreszeit strömenden Touristen wegen, selbst genug, lebt am liebsten Vergangenheit. Wo aber auf der Welt gelänge diese Täuschung auch authentischer? Bildlich wird man aktuell eingestimmt durch die beiden Tiepolos von ihrer komisch-karikaturistischen Seite, wie sie gerade in hinreißenden Blättern in der Fondazione Cini neben San Giorgio Maggiore präsentiert werden. Und im Museo Correr am Markusplatz lassen sich William Turners in zartesten Schattierungen verlaufende Venedig-Aquarelle sofort mit der weich konturierten Wirklichkeit eines milchig-sonnigen Novembertags vergleichen. Auf der Piazza sitzen sogar die Musiker des Caffé Quadri noch draußen. Und plötzlich hebt da zart ersterbend, wie unwirklich das "La Traviata"-Vorspiel an. Die als Kurtisane klagende Callas - eine von ihr als Verdis Violetta getragene Brosche wird kommende Woche in Genf versteigert - klingt, trotzig fast, auch aus einem Laden auf dem Campo vor dem Fenice.

Dort stehen ganze Ladungen von Polizisten mit Plexiglasschildern. Doch das belgische Königspaar und die drei italienischen Minister, Romano Prodi und Laura Biagotti bleiben unbehelligt. Wie auch das übermäßige Acqua Alta, die Demonstrationen wegen des Nato-Treffens auf dem Lido und der Vaporetto-Streik ausgeblieben sind.

"La Traviata" also - auch im Theater. Eine von fünf hier uraufgeführten Verdi-Opern. Doch die Premiere 1853 war nicht nur wegen der wenig schwindsüchtig aussehenden Sopranistin ein Flop. Zudem läßt Donna Leon in ihrem ersten und besten Brunetti-Krimi einen Dirigenten während dieser Oper im Fenice ermorden. Das war freilich kaum der Grund, warum der (anwesende) Fenice-Musikchef Marcello Viotti weder die Konzerteröffnung noch jetzt die Opernpremiere dirigieren durfte. Venezianische Verhältnisse sind eben immer ein wenig byzantinisch.

Jetzt steht also - bis zum Ende - Lorin Maazel am Pult und dirigiert die ungestrichene Originalfassung: wie gewohnt feldherrenhaft, perfektionistisch, virtuos sich steigernd, mit kaltem Herzen. Was zu Roberts Carsens glatter Inszenierung und den fast ohne Zwischentönen auskommenden Sängern paßt.

"Traviata", das Prostituierten-Rührstück, ist Verdis einzige zeitgenössische Oper. Und so will das ambitionierte Fenice der Welt zeigen, daß in Italien Opernregie nicht immer plüschig sein muß. Der vielbeschäftigte Robert Carsen serviert also kühle, internationale Moderne.

Violettas Schlafzimmer, wo sie bereits während des Vorspiels im Negligé von anonymen Anzugträgern mit Geldscheinen geradezu überhäuft wird, ist das dunkelgrüne Pendant zum roten Boudoir seiner Salzburger "Rosenkavalier"-Marschallin. Darinnen tobt gleich am Anfang die genußsüchtige Dolce & Gabbana-Society von heute. Die Fototapete mit dem Laubwald vor dem Fenster ist ein Rest künstlicher Natur. Sie dominiert riesenhaft das zweite Bild, wo zerknülltes Geld statt welkem Laub vom Himmel fällt. Und wird zur Kulissenbühne im Spielsaal, wo sich statt der Zigeuner Go-Go-Tänzer im Cowboylook produzieren.

Der geschmeidige Alfredo des gekonnt auftrumpfenden schwäbischen Italieners Roberto Saccá hat Kraft und Klasse, während sich sein als graugescheitelter Buchhalter im Zweireiher ausstaffierter Vater in Gestalt von Dimitri Hvorostovsky auf unangekränkelt wohltönende Bariton-Routine verläßt. Trotzdem wird aus dem offenbar als Paparazzo arbeitenden Alfredo letztlich ein konformistischer Geschäftsmann.

Eine Italienerin auch die Traviata. Doch Patrizia Ciofi, so anrührend in der Klassik und Frühromantik, bleibt ein fein ziselierter Eisblock der käuflichen Liebe, ihr Vibrato mag diesmal nicht passen. Sie verröchelt im kahlen Zimmer neben dem zum Klischee geronnenen Flimmerfernseher. An was eigentlich? Es interessiert bei dieser Violetta on the Rocks nicht wirklich.

Doch was tut's? Natürlich stirbt Traviata nirgends so schön wie in Venedig. Und jetzt endlich nicht mehr im provisorischen Opernzelt auf dem Parkplatz.