, sabato 27 ottobre 2001

Tancredi al Malibran
Fascino di un idillio malinconico

di Paolo Petazzi

Venezia. Vent'anni dopo è tornato a Venezia "Tancredi " di Rossini, che alla Fenice aveva avuto la prima rappresentazione nel febbraio 1813. Allora era stato il primo grande successo dell'autore ventunenne nel genere serio, e oggi in piena rinascita rossiniana conosce una fortuna superiore a quella di molti capolavori decisivi della maturità, grazie all'incanto irripetibile della sua freschezza poetica.

Il nome del protagonista evoca l'aura malinconica dell'eroe della "Gerusalemme liberata"; ma la fonte del libretto di Gaetano Rossi non ha nulla a che vedere con il Tasso, è una tragedia di Voltaire ambientata a Siracusa assediata dai Saraceni nel 1005. Tancredi , esule ingiustamente perseguitato, torna in patria in incognito, salva l'amata Amenaide da una condanna a morte; ma la ritiene colpevole di tradimento per un poco verosimile equivoco (si crede che una lettera d'amore per lui fosse destinata al capo saraceno Solamiro, e Amenaide non parla). Sconfigge il nemico e si fa uccidere in battaglia: solo durante l'agonia apprende l'innocenza dell'amata. A Venezia Rossini aveva capovolto il finale tragico di Voltaire; ma nello stesso 1813 per una rappresentazione a Ferrara apportò al secondo atto alcuni miglioramenti e scrisse una conclusione originalissima di estrema sobrietà: Tancredi muore intonando un breve recitativo dal tono arcano sospeso e sommesso che svanisce nel nulla. Troppo ardito per l'epoca, questo finale tragico è stato ritrovato solo nel 1974, e da allora è stato spesso preferito al lieto fine cui Rossini era ritornato. Entrambe le conclusioni sono possibili nel contesto di un'opera improntata ad un edonistico ideale di composta e armoniosa bellezza, ad un gusto neoclassico nel cui misurato equilibrio si fondono con trasognata eleganza caratteri e vocaboli diversi, dal lirismo di malinconica purezza melodica alla fiorita vocalità belcantistica. Nel "Tancredi " Goethe come Stendhal avevano avvertito qualcosa di irripetibile, l'incanto di un sogno adolescenziale, il fascino di un idillio malinconico sublimato in un clima di nobile sospesa bellezza.

Coglieva assai bene questi incanti l'allestimento pesarese di Pier Luigi Pizzi (1999) che si sperava di poter riprendere al Malibran, ma che non ha potuto essere adattato al palcoscenico troppo piccolo. Dal Teatro di Sassari (che ha prodotto spettacoli migliori) è giunta la soluzione di ripiego che ha consentito di salvare lo spettacolo con le funzionali scene di Alessandro Ciammarughi e la regia di Stefano Vizioli, rispettosa, ma povera di idee e di eleganza, e deplorevole nella conclusione, che sottolineava la solitudine del morente Tancredi facendo assumere all'interprete una posizione difficile e costringendo Amenaide ad accucciarsi in un angolino.

Non sarebbe leale fare confronti con la compagnia di canto del 1981 (con protagoniste Marilyn Horne e Lella Cuberli); ma va notato che sono apparsi superiori il direttore Jonathan Webb e la prova dei complessi della Fenice. Di Webb si è molto apprezzata l'eleganza, l'equilibrio, e insieme la sensibilità agli incanti lirici e malinconici della partitura. Nella compagnia di canto emergeva Patrizia Cigna, una Amenaide giovane, di limpida intensità espressiva, e al tempo stesso sicura ed elegante nei passi virtuosistici. Nella parte di suo padre Argirio cantava una vecchia gloria rossiniana, il tenore Bruce Ford, che nel periodo delle prove non era stato bene e ha offerto una prova discontinua, con momenti felici soprattutto nel secondo atto e con sicura consapevolezza stilistica anche quando la voce appariva usurata. Impressioni non univoche pur all'interno di una prova in complesso dignitosa ha suscitato anche la protagonista Patricia Bardon, la cui voce, con difficoltà nel registro grave e in quello acuto, non ha un carattere ben decifrabile e non sembra vicina all'ideale di contralto rossiniano. Da elogiare Enrico Turco nella parte di Orbazzano; una discreta Isaura era Maria Josè Montiel.

 


sabato 27 ottobre 2001

La raffinata direzione di Webb per "Tancredi"
Rossini così, come merita

Successo al Malibran, ma la regia è rigida
Applausi alle voci protagoniste dell'opera in scena a Venezia

di m.sch.

VENEZIA. Ci piacerebbe ascoltare più spesso direttori interessanti e raffinati come Jonathan Webb, sul podio al Malibran per Tancredi di Rossini da giovedì, alla guida dell'Orchestra della Fenice, giovane musicista che fa dimenticare la messe di direzioni rifugiate in stanche consuetudini, specie in opere dove è indispensabile un'equilibrata posizione interpretativa di ricerca. Webb guarda al primo Rossini serio di Tancredi alla luce delle esperienze sinfoniche del classicismo, lasciando trapelare quei riferimenti più sinfonici che questo melodramma eroico, almeno nella sua lettura, mostra con i colori di Mozart o Beethoven. Riuscire a portare l'opera in una dimensione più sinfonica fa la differenza, soprattutto quando ciò si integra con una cantabilità di proporzione operistica, in grado di accogliere al meglio le emissioni vocali. Splendido il preludio all'aria di Amenaide "Di mia vita infelice", non solo per il magnifico primo oboe, ma per la valorizzazione dell'orchestra in corrispondenze timbriche e di fraseggio impeccabili.

Webb svolge fluttuanti dinamiche, assai ricche, conferisce agli archi una leggerezza che da molto non sentivamo, livella le percussioni troppo spesso trattate bandisticamente, utilizza i fiati con tocchi inediti, plasmandone la timbrica quasi magicamente insieme a quella degli archi. La finezza della concertazione non trovava invece alcuna adesione nella regia di Stefano Vizioli, noiosamente statica, trionfo di una insipida routine ormai insopportabile, che nulla aggiunge al discorso musicale impalando i personaggi in inutili arcinoti schematismi. Migliore la presenza di scene e costumi di Alessandro Ciammarughi, come le luci di Franco Marri. Coro non sempre puntuale, ma ottime le voci protagoniste, anche se la risoluzione di problematiche tecnico-coloristiche si muoveva talvolta a scapito di una profondità d'affetti non sempre emozionante. Patricia Bardon (Tancredi) dominava rapporti equilibrati fra eroismo, nobiltà e lirismo vocale; meno sensibile, ma brillantissima, la vocalità di Patrizia Cigna (Amenaide); leggero ma intenso Bruce Ford (Argirio). Successo calorosissimo.

 


ottobre 2001

Le due facce di Tancredi

di Alessandra Morresi

Il "Tancredi" di questa sera si è presentato inizialmente come uno spettacolo godibile: orchestra ordinata, voci belle e capaci, regia composta, scenografia senza commenti, un po' da presepe. Ma poi, a lungo andare, il piacere iniziale è andato scemando, lasciando evidenti i difetti, anche grossi, della partitura, innanzi tutto, e quindi della messinscena che doveva sorreggerla. Tutti i problemi di questa opera rossiniana derivano fondamentalmente dal suo essere ancora agganciata ad una costruzione di tipo settecentesco con, però, segnali importanti di novità. Settecentesco è l'argomento pieno di equivoci, complicato; settecentesco è il modo di musicarlo: numeri chiusi, recitativo secco, il contralto per il ruolo maschile principale, la musica pensata esclusivamente per le voci; salvo poi riscontrare nell'ampiezza e articolazione dei singoli numeri al loro interno caratteristiche che, evidentemente, settecentesche non sono, ma vanno oltre. E proprio in questa vistosissima oscillazione tra '700 e primo '800 consiste il grave limite dell'opera in questione che infatti si presenta disomogenea, e, quadri anche molto suggestivi, fatti di melodie eleganti, non hanno rilevanza scenica, perché sono inseriti in un contesto che non ha niente a che vedere con il teatro: la scansione in sezioni così ben isolate dall'assenza dell'orchestra (e dagli applausi: che brutta abitudine circense!) non fa acquisire il senso dell'unità drammaturgica (e poi la trama è troppo articolata per essere tutta tenuta a mente), i personaggi non sono indagati nella loro psicologia, ci si ferma alla superficie, alla descrizione dell'affetto. Insomma, i limiti dell'organizzazione secondo la successione aria-recitativo sono tutti lì, accentuati da una regia e scenografia prive di iniziativa, sostanzialmente assenti, e, per questo, incapaci di influire sulla visione.

Come accadeva due secoli fa da una scrittura sì fatta hanno tratto vantaggio, questa sera, le voci trovando la dimensione ideale per mettersi in mostra. Vista l'organizzazione del libretto, non potevano non risaltare i due ruoli di spicco: Patricia Bardon (Tancredi) che ha fatto sfoggio di una voce possente ma anche duttile, Patrizia Cigna (Amenaide) che ha mostrato grande agilità e bellezza di timbro; bravo anche Bruce Ford (Argirio). Dopo tre ore e mezza di spettacolo viene da chiedersi, perché non fare un semplice recital per valorizzare voci così belle?