l’opera
Anno XV – N.149 – Marzo 2001

Parma: l’edizione critica di Un ballo in maschera al Teatro Regio per il Verdi Festival, si è rivelata una relizzazione sicuramente appassionante, ma incompleta
Boston a senso unico

Nella produzione verdiana, Un ballo in maschera è opera di rottura. Verdi taglia con il teatro romantico-popolare consacrato dalla "Trilogia". Cerca nuove strutture narrative. Adatta gli spunti desunti dal grand-opéra ad un più moderno genere di teatro recitato, dove tragico e comico sono presenti senza più soluzione di continuità. Una tale materia ha trovato a Parma una realizzazione appassionante ma incompleta.

L’edizione segue il libretto, ambienta l’azione in America. Non si fa tentare dalla corte svedese cassata dalla censura. Ezio Frigerio crea una Boston cupa, povera, persino cenciosa. Un luogo pieno di gente squallida: ex-galeotti, deportati dalla madre patria, e avventurieri. L’avvolgono le nebbie del mare che diventa l’elemento caratterizzante del I e III atto. Il primo quadro del I atto si svolge all’aperto, sulla darsena del palazzo del Governatore che arriva a bordo di una barca da parata. L’atmosfera iper-romantica che viene evocata vuole tradurre in immagini la tinta del Ballo o almeno i suoi momenti più infuocati, a cominciare dal duetto del II atto. Il Ballo, però, non è solo questo. La scelta dello scenografo limita, non poco, la calzante descrizione dei momenti eleganti, delle schermaglie cortigiane. Di una corte in sedicesimo, ma pur sempre di una corte. Contrasta l’ultima scena, quella della festa. Frigerio opta per un décor kitsch, ttto giocato sui toni dell’arancio.

In quell’involucro, arricchito dei bei costumi di Franca Squarciapino, Andrei Konchalovskj, tra i più accreditati cineasti russi, disegna una regia improntata al più vivo realismo. Ecco allora Oscar e il Conte accompagnati da un nano sul quale poi Renato sfoga la sua ira nella scena della festa. Ecco l’antro di Ulrica assumere i toni del bordello con strane creature ignude che si muovono nell’ombra. Ecco che il figlio di Amelia e Renato diventa una presenza importante nel I quadro del III atto. C’è di più: l’urna dei biglietti fatali è un vaso di fiori che, prima dell’uso, viene svuotato d’acqua. L’ira di Renato è tanto accesa da lanciare oggetti, come un modellino di nave: vedi la fissa del mare) contro il busto del Conte. Il Governatore di Boston è un giovanotto un poco stravagante, le cui stramberie, così ci fa sapere il regista, si ispirano ai modelli di Hogarth o di Swift. Purtroppo, una tale raffinata ragnatela di dotti riferimenti n on passa. Non si può assistere ad uno spettacolo con un piccolo manuale di spiegazioni. Impegnato ad elucubrare, il regista perde di vista la leggerezza di molte parti del Ballo che sono poi l’autentica novità dell’opera. Nel Ballo, infatti, la morte arriva in punta di piedi, sulle note delicate di un minuetto. Concentrato nell’operazione di dare corpo alla sua teoria, si dimentica nel movimento naturale delle masse. Nel I e III atto stanno tutti uno addosso all’altro. Oppure si muovono come burattini straniati. Bizzarro contrasto con l’evidente realismo della regia. Non lavora su di un coerente approfondimento dei personaggi. Gli interpreti, infatti, recitano in maniera approssimativa con una mimica che, nel caso di Amelia, pare quella dei peggiori film degli anni Quaranta. Infine, si abbandona a trovate francamente imbarazzanti: movimentare il ballo con lancio di palline colorate. […]

Nel terzetto dei protagonisti la delusione più cocente è venuta da Irina Gordej. All’attrice approssimativa, si aggiunge una cantante che, pur possedendo una grande voce di vero soprano sfogato come la parte richiede, fatica nell’imbrigliarla in un’impostazione corretta. Discutibile vocalmente, benché di forte presa teatrale, la’Ulrica di Larissa Diadkova. Splendido invece l’Oscar di Olga Trifonova. Voce educata ed accattivante di soprano lirico, la Trifonova sottrae il personaggio al linfatismo petulante di molti sopranini che lo hanno afflitto. Alla precisione musicale, alla dovizia dei mezzi, aggiunge una bella figura, le opportune movenze di attrice, la disinvoltura scenica. Nelle parti di fianco hanno un bel rilievo i due congiurati Ilya Bannik e Mikhail Petrenko, rispettivamente Samuel e Tom. […]

Successo vibrante, se non trionfale, tipico dei nostri giorni dove il pubblico accorre sempre numeroso e, con scelta ecumenica, applaude con foga degna di migliore causa. Quasi si fosse smarrito quello spirito critico e quella funzione di severo vaglio che gli spettatori dovrebbero esercitare.
(Parma, 4 febbraio 2001)

Giancarlo Landini

 

Opera
July 2001

Russia Coming this way

St Petersburg

[…] Andrey Konchalovsky’s production of War and Peace was one of last summer’s highlights, but he didn’t seem quite sure of what to do with Un ballo in maschera, a production that the company was bold enough to introduce in Parma (in January) and showed at home on May 13. The curtain went up on a snowy harbour scene with villagers about, which made one think of Peter Grimes but also raised the possibility that Konchalovsky might take seriously the opera’s alternative Boston setting (contrived to appease censors). But then Riccardo arrived in an ornate and very un-Bostonian gondola. Therafter, the staging followed a more-or-less conventional course spiked by a number of unconventional ideas. Riccardo was attended not just by Oscar but also by un unscripted midget, who shined his shoes during Renato’s first aria. The close of the Ulrica scene was enlivened by a sadomasochistic sideshow. And the hot-headed Renato showed his rage by dumping a big bouquet of flowers to use its vase for drawing lots. (Falstaff does somethinh like that in the Met’s Zeffirelli production, but there it’s meant to be funny.) One irritating touch was to have the chorus move in sync with the music, crouching down, then gradually rising during a crescendo, for instance. Ezio Frigerio’s sets (lit by Vinicio Cheli) were characteristically massive but rather low-keyed until the colourful finale in Riccardo’s assassination. A nautical motif ran through the whole thing, for which support can be found in the text, albeit on the periphery. Franca Squarciapino’s costumes were handsomely detailed.

The Kirov follows the Eastern European custom of double (even triple) casting new productions but not announcing specific casts until the last minute, something of the order of waiting until then to pick the choirboy to sing ‘Once in royal David’s city’. I went to the first of the two performances and wound up with the same singers I heard in Macbeth, so regrettably I cannot comment on Olga Sergeyeva’s Amelia or Vassily Gerello’s Renato, both of whom sang the next night. Still, it was good to find two of three common principals cofirming good impressions. The third, Yury Alexeyev, as Riccardo, was confronted with a far more challenging role than Macduff and, although the voice has an attractive ring, he was vocally and interpretatively taxed and sometimes strayed from pitch. But Irina Gordei proved again that her voice has the heft of a genuine Verdi soprano, and I wasn’t bothered by its edge. Her ‘Morrò, ma prima in grazia’ was especially fine, and many grand phrases soared, such as Amelia’s impassioned warning to Riccardo, with its rise to B flat, in the final scene. But hers is not an especially flexible instrument and sometimes shifted unpredictably to a thin-sounding pianissimo, damagingly so at the climatic ascent to high C in her first aria. Fyodor Murzaev’s strong bariton projected clearly, and, fortunately the tantrums he was called upon to throw didn’t affect the musicality of his singing. Marianna Tarasova was a gripping, plummy-sounding Ulrica, and Olga Trifonova sparkled delightfully as Oscar, leading off the ensemble at the end of the conspiracy scene with a special panache. Her way with ornaments there was all the more impressive given the clip at which Gergiev took it. But he shaped the opera’s more serious moments deliberately and with full recognition of their dramatic content. […]

GEORGE LOOMIS