La Nuova Venezia
1 giugno 2002

"Capriccio" ma con garbo
L'opera di Strauss diretta da Karabtchevsky in scena al Malibran

di Carlo De Pirro

VENEZIA. Quante volte l'artificio cerca di sostituirsi all'Arte, la tecnica (nella sua declinazione arrogante e vuota) alla poetica, riducendo il compiacimento eufonico a futile "conchiglia sonora di un'Idea". Al termine di Capriccio, opera di Richard Strauss andata in scena al teatro Malibran per la stagione della Fenice, si fatica a fermare la barra del tempo e dell'artificio. Non solo per il continuo volteggiare, in oltre due ore di dialoghi a perdifiato, fra citazioni, auto-citazioni, dubbi e bon ton. Ma perché il frullatore in cui si versano modulazioni e meditazioni avvolge lo spettatore in un guscio verboso a cui solo i lirismi dello Strauss inattuale, che dall'ingresso di Mounsieur Taupe mutano radicalmente il tono dell'opera, portano sollievo.

Denominando Capriccio "conversazione per musica in un atto" il compositore già scopre il gioco. Figurarsi a fare parallelismi storici! Siamo nel 1942, e non è solo la guerra a far vacillare certezze estetiche. Non a Strauss, che al conoscere della nuova musica preferisce il riconoscere dell'arte che fa arte con l'arte. Così in Capriccio pensa di mettere in musica un esercizio di stile in forma di corteggio. Anche se la corteggiata è una seducente Contessa stretta fra le lusinghe di un poeta e di un musicista, si comprende bene che è lo stesso Strauss ad assaporare le burrose madeleines del ricordo.
Tobias Richter ha il compito registico di snocciolare botte, risposte e amori irrisolti. Lo fa con garbo barocco, all'interno di una scena che prende luce dai molti specchi rugosi, fra passatempi nobili, balletti leggiadri, piccole pulsioni di rivali innamorati. Non sappiamo se fosse un ulteriore teatro nel teatro l'offerta nel foyer di un prosecco denominato "Capriccio", che ha poi fatto la sua plateale comparsa in scena. Pubblicità occulta? Primo ingresso di sponsor in palco?

Nel gigantesco arioso che avvolge l'opera la direzione di Karabtchevsky fa una scelta di tono precisa, velando l'orchestra come nell'accompagnamento di una commedia cinematografica anni Trenta. Pronuncia, fraseggio e respiri si intrecciano con grande pertinenza nel microcosmo di affetti e retorica, qualche volta a soffrire è la coesione degli assiemi ed un certo pastorizzare le dinamiche sfrorbiciando sugli accenti. Chiarezza di orizzonte valorizzata anche dal cast, su cui svetta la radiosa Contessa di Camilla Nylund, casta eloquenza femminile in armonica pastosità. Altrettanta eloquenza riservava la prova di Peter Weber (La Roche), ancillari ma di solida tempra i ruoli di Claude Pia (Flamand) e Markus Werba (Olivier). Molto aggraziati i cantanti all'italiana (Anna Smiech e Patrizio Saudelli), più grossolana la vocalità di Bjorn Waag (il Conte). Poco appariscenti ma efficaci sia il gioco di luci che la presenza del coro. Consensi in media.

 

IL GAZZETTINO
1 giugno 2002

Il "capriccioso" ritorno di Karabtchevsky

Per il suo felice ritorno a Venezia Isaac Karabtchevsky ha scelto uno dei titoli più rari e attraenti della stagione, il congedo di Richard Strauss dal teatro musicale, "Capriccio", un congedo che non potrebbe essere più ambiguo ed elusivo, pacato quanto inquietante. Mentre pensava al progetto di un'opera sull'opera, che prendeva spunto, su suggerimento di Stefan Zweig, dal solo titolo di un libretto dell'abate Casti per Salieri, "Prima la musica e poi le parole" (1786), Strauss ebbe a parlare di voluta assenza di poesia e di lirismo, di teatro intellettuale, di secco umorismo, o ancora di commedia "teoretica", di predilezione dei compositori anziani per l'elaborazione di "fughe teatrali" (come Verdi alla fine del "Falstaff"); ma non lo si può mai prendere completamente alla lettera, e non si deve cercare un chiaro messaggio conclusivo nella fitta e lavoratissima rete di allusioni, nelle sottigliezze e ambiguità di cui si nutre "Capriccio" con il suo carattere di "commedia di conversazione per musica". Per due ore e venti si parla di musica, di poesia, di teatro, d'amore, si crea una variegata successione di situazioni e personaggi senza concedere nulla agli effetti. Tutto si pone sotto il segno di una riflessiva, sobria rinuncia, della suprema celebrazione dell'artificio in un clima sospeso tra ironia e mestizia. Prevalgono i toni intimi (ma non mancano i contrasti) nel corso di una vicenda quasi inesistente, ridotta a puro pretesto. In una residenza nobiliare presso Parigi, intorno al 1775 (all'epoca dunque delle discussioni suscitate in Francia da Gluck) il musicista Flamand e il poeta Olivier si contendono l'amore di Madeleine, la contessa padrona di casa, così sensibile al fascino di entrambi da non sapersi decidere. Facendo coincidere le eterne discussioni sul rapporto testo-musica con la incertezza amorosa della protagonista, Strauss approda ad un sospeso interrogativo, che ha il sapore di un congedo di sommessa mestizia, forse anche di un dubbio sulla possibilità stessa del genere cui aveva dedicato la parte più ampia della sua attività matura. Nel gesto del congedo il compositore sembra identificarsi con la sua protagonista, approdando ad un silenzio enigmatico, elusivo, ad una struggente interrogazione, nel mirabile monologo finale che costituisce la sublime conclusione di una partitura in cui è condotto ad un culmine di scioltezza e flessibilità lo stile straussiano di conversazione, e in cui appare seducente il fuggevole trascorrere attraverso un mobilissimo gioco di allusioni alla propria e alla altrui musica.

Karabtchevsky, bene assecondato dall'orchestra, interpreta con sensibile intelligenza e grade intensità le suggestioni di questo Strauss, trova pregevoli trasparenze e definisce con cura il difficile equilibrio con le voci. La compagnia di canto è di alto livello: la bella voce di Camilla Nylund coglie con finezza le inquietudini della Contessa; Peter Weber è assai autorevole nella magniloquenza di La Roche, il direttore di teatro; Markus Werba (che avevamo apprezzato in "Così fan tutte") si afferma felicemente nel lirismo di Olivier, e una prova notevole offre anche il suo rivale, il tenore Claude Pia, validi anche Iris Vermillion e Bjorn Waag, i comprimari sono tutti bravi. Lo spettacolo di Tobias Richter si vale di scene eleganti di Maurizio Fercioni e si attiene a scelte caute e poco significative, con una cura dei dettagli talvolta accettabile, talvolta inutilmente ricercata o bozzettistica.

Paolo Petazzi

 

Il Giornale della Musica
30 maggio 2002

L'eterno dilemma

In un'opera come "Capriccio", non a caso sottotitolata "conversazione per musica in un atto", l'intreccio consiste esclusivamente in una interminabile, intensa, articolata, discussione che i protagonisti sviluppano sull'eterna, e ormai consunta, questione della supremazia tra poesia e musica: inutile dire che il tedesco del libretto è stato un grosso ostacolo; arduo, se non impossibile, è stato seguire i serrati scambi di battute. E', inoltre, estremamente difficile conferire un'interpretazione registica ad uno spettacolo sostanzialmente privo di azione, e il rischio di offrire una messinscena statica, fatta di belle statuine in posa, è stato, questa sera, più volte sfiorato, complice anche la ridotta estensione del palcoscenico del Malibran, che imprigiona gli spostamenti su brevi traiettorie.

Il testo di Krauss-Strauss si mantiene sullo stesso registro, senza alcuno sviluppo, per la sua quasi totalità. A volte leziosa ed eccessivamente salottiera, la disquisizione prosegue, costruendo un'opera in cui si viene a creare un certo dislivello tra l'altissima qualità della partitura e le tematiche affrontate. Ma poi si arriva a quell'ultima scena, che si staglia imponente su tutte le altre: la conversazione lascia lo spazio al monologo intenso e struggente di Madeleine, la teoresi si scioglie in sentimento e lo spettacolo decolla con una musica semplicemente meravigliosa, perfettamente in sintonia non tanto con le parole, ma con l'intenzione espressiva che le anima (sempre di poesia/musica parla la Contessa). Di altissimo livello l'interpretazione di Camilla Nylund (Contessa), attorniata da una compagnia di cantanti altrettanto validi, tecnicamente solidi.

L'orchestra del Teatro La Fenice ha reagito discretamente alle impegnative sollecitazioni offerte dalla partitura di Strauss. Certo, la bacchetta di Karabtchevsky avrebbe dovuto ottenere un suono più corposo e ricco di sfumature, una maggiore cantabilità e un insieme più rigoroso. Ma il successo è stato comunque meritato.

Alessandra Morresi

 

La Stampa
7 Giugno 2002

VENEZIA, PER LA STAGIONE DELLA FENICE

Nel Capriccio di Strauss l´opera si prende in giro

VENEZIA. In questi giorni a Venezia, al Teatro Malibran per la stagione della Fenice, si può vedere un apprezzabile allestimento dell'estremo lascito operistico di Richard Strauss, la conversazione in musica "Capriccio".

Il regista Tobias Richter, con le scene e i costumi di Maurizio Fercioni, ha saputo infatti mantenere intatta la cornice di questo lavoro che ha i suoi poli nel 1941, anno della composizione, e intorno al 1775, anno dell'ambientazione: in mezzo, attraverso la penna di Strauss, stanno due secoli di opera, citati o rifatti in stile neoclassico o smontati e ricostruiti in senso postmoderno, con straordinaria sfida intellettuale, condita di perenne ironia, nel concepire un'opera che parla dell'opera e alla fine si specchia in se stessa, quando la melodia e l'orchestrazione straussiane toccano un sublime a chiunque altro ignoto nel Novecento.

Nella fedeltà al Settecento Richter si concede pure qualche libertà, con affetto per Venezia: non vi dovrebbe essere teatro nel teatro sulla scena, andrebbe immaginato fuori di essa, ma per i cantanti italiani vediamo riprodotto il boccascena del Malibran; soprattutto, per il finale monologo della Contessa la scena svuotata di ogni suppellettile rivela un'alta parete di fondo con finestre vuote: è il rudere della Fenice oggi, dove i camerieri non vestono più livree ma frac e la Contessa appare con un fiammante moderno abito rosso da sera. L'unico vero errore (a parte le luci banali e candelabri in terra, stile cimitero) è però far stendere una guida rossa a due camerieri mentre attacca l'inarrivabile la bemolle maggiore della musica al chiaro di luna.

Anche per il direttore Isaac Karabtchevsky questo Andante con moto costituisce il punto debole, per il passo troppo bersagliero; nel resto, a parte il solito inutile taglio di tradizione, dà eccellente prova nella resa globale di tutti gli intrecci melodici e nelle filigrane, pur non disponendo l'orchestra veneziana di prime parti sempre sicure. Sorprese nella compagnia di canto, così impegnata nel discutere sul rapporto fra testo e musica: da un lato ci sono la Contessa graziosa (nell'azione non ha neppure trent'anni) di Camilla Nylund, non di gran peso vocale ma assai credibile, e la statuaria Iris Vermillion come Clairon; dall'altro, accanto alla poca ironia di Claude Pia e Markus Werba (Flamand e Olivier) e al rude Bjorn Waag (il Conte), voci di lunghissima esperienza come Peter Weber, un La Roche di grande intensità, addirittura Waldemar Kmentt (cinquant'anni di carriera!) nella piccola parte di Monsieur Taupe e come Maggiordomo Hans Günter Nöcker, veterano del'Opera di Monaco.

Giangiorgio Satragni