Il Giornale della Musica
16 dicembre 2002

L'essenza di Traviata

La nostra recensione. "La traviata" secondo Sepe si apre con una festa immobile, funebre, presagio della tragedia dell'ultimo atto. Niente stucchi, né arazzi, né velluti, le donne del coro sono costrette in abiti colorati solo da un nero uniforme, niente gioielli scintillanti, unici i divani rossi. Scelta, che si mantiene coerente per tutto lo spettacolo e che si riflette anche nella gestione dei movimenti, sia dei personaggi che delle masse: sono estremamente ridotti, ordinati secondo geometrie scarne. Scelta coraggiosa, quella del regista napoletano, in un'opera che ha, nella sfavillante mondanità dei salotti parigini di metà ottocento (è questa l'ambientazione storica ricreata), una protagonista indiscutibile (almeno per i tre quarti del libretto), descritta in maniera eccellente dai valzer di Verdi. E sono proprio questi valzer, a partire dal celeberrimo del primo atto, a risentire dell'eccessiva sobrietà: la musica, in un certo senso, chiede opulenza, anche di gesti!

Come si diceva in apertura, infatti, le soluzioni registiche, sono improntate ad una grande essenzialità, che tuttavia, a volte, può nuocere alla presenza scenica dei personaggi principali, la cui azione, per quanto la musica la possa suggerire, non ha sostegni scenotecnici. L'assenza di porte definite, non favorisce l'articolazione delle entrate, che si risolvono in semplici apparizioni nella luce, forse un po' macchinose, come nella prima parte del secondo atto. L'essenzialità si è mostrata, al contrario, una chiave di lettura perfettamente riuscita nell'ultimo atto, quello della tragedia, appunto. Ma si sarebbe preferita una progressione più calibrata, che dallo sfavillio della festa conducesse alla desolazione della morte.

Il successo musicale della serata è dovuto principalmente ad Elena Mosuc una Violetta teatralmente convincente; vocalmente dotata di grandi capacità tecniche, che le hanno permesso di ricreare le sfumature timbriche e dinamiche richieste dalla scrittura verdiana. Grande perizia anche di Giuseppe Filianoti, interprete di un Alfredo che, tuttavia, ha mantenuto le distanze con il pubblico, poco passionale; il cantante, infatti, seppur in possesso di una potenza e sicurezza nell'emissione molto buone, è sembrato piuttosto freddo e attento più alla correttezza dell'esecuzione, che non all'espressività, salvo, poi, sciogliersi nell'ultimo atto.

Marcello Viotti ha confermato, questa sera, le sue ottime capacità nell'organizzare una concertazione rigorosa e sensibile, tesa ad approfondire meticolosamente i rapporti tra voci e orchestra, la quale ha risposto prontamente alle richieste di differenzione timbrica, dinamica e agogica. Il teatro al gran completo ha sottolineato la riuscita dello spettacolo con ovazioni.

Alessandra Morresi

 

IL GAZZETTINO
lunedì, 16 dicembre 2002

Ritorna al Malibran «La Traviata» dopo il battesimo padovano

Venezia. Ritorna al Malibran, dopo il battesimo padovano, "La Traviata " per la regia di Giancarlo Sepe. Regia personale che tuttavia presenta un limite: l'azzeramento dei contrasti in un preponderante viatico mortuario. Mi riferisco soprattutto al prim'atto, che è una straripante introduzione brillante, sentita invece dal regista come preannunzio di un tragico destino. Tuttavia la qualità della regia, come abbiamo notato a Padova, si sviluppa negli atti successivi, nelle danze considerate in genere un elemento di decorazione accessoria che Sepe realizza con reazioni mimiche: le vituperate zingarelle sono reinserite nel dramma e i mattadori aprono uno squarcio di vivida luce su un paesaggio cupo, librati come sono a mezz'aria sul fondo del palcoscenico. Da questo momento, passando attraverso la scena del gioco, sostenuta da un ritmo esasperante, all'epilogo luttuoso, Sepe lascia il segno di una regia che impone un ritmo unitario alla narrazione. Una regia che evita esplicite attualizzazioni e che tuttavia presenta un accento moderno nella semplificazione degli arredi e nell'uso, decisamente novecentesco, delle luci.

Elena Mosuc, Violetta, nasce come soprano leggero, e si sente. E tuttavia proprio nel prim'atto risultava l'altra sera meno autorevole rispetto a Padova, poco determinata a sfruttare le proprie risorse virtuosistiche. Più attenta ai decorsi drammatici il soprano è apparso negli atti successivi, riuscendo ad adeguare la sua vocalità all'arioso e alla parola scenica, e anche a taluni passi da «lirico spinto». Giuseppe Filianoti è un tenore di perfetta formazione rossiniana (uscito dai laboratori di Pesaro) per lo splendore del timbro e l'affabilità comunicativa. Ne esce un Alfredo in certo senso quasi retrospettivo che tuttavia è caduto in un incidente di percorso nella fatidica frase «Questa donna pagata io l'ho»: fors'anche perché i suoi mezzi sono ancora di impianto intimistico. Il baritono Lado Ataneli possiede una omogenea e vistosa vocalità nel ruolo di Germont, e ha costituito, con la Mosuc, uno dei punti di forza dell'esecuzione, nel grandioso duetto, a più sezioni, del second'atto, momento centrale non solo della «Traviata», ma anche di tutta la cosiddetta «trilogia popolare». Scelte con attenzione le varie figure di fianco.«La Traviata» a qualcuno pare quasi un manifesto di realismo musicale, anche per la ambientazione contemporanea (peraltro, contro la volontà di Verdi, fu sempre rappresentata con costumi settecenteschi fino all'inizio del Novecento).

Marcello Viotti opportunamente ribadisce invece una impostazione melodrammatica, con tempi prevalentemente mossi, sempre in funzione di una drammaturgia fortemente contrastata. Né mancano anche i momenti di riflessione introversa nel preludio e nel terz'atto, là dove il tono diviene più elegiaco.

Il Malibran naturalmente era gremito; caldissimo successo per tutti gli interpreti, come per l'orchestra e il coro.

Mario Messinis