IL GAZZETTINO
22 febbraio 2004

Il "Sogno di una notte di mezza estate" di Britten al Malibran

Venezia. Può succedere che un testo musicale riveli le virtualità espressive di un testo letterario. È quanto avviene nel "Sogno di una notte di mezza estate" che, attraverso l'interpretazione rivelatrice di Benjamin Britten , non evoca soltanto l'inquadramento del sogno "lieve e grazioso", secondo la parola di Croce, ma inquietudini oniriche, cupezze e ansietà, in cui, attraverso il sorriso, si scoprono armonici oscuri, una realtà che si annulla nella incursione surreale della allucinazione. Ben inteso, Britten non incrina la leggerezza e la trasparenza letterarie: rispetta, con devozione quasi feticistica, la versificazione e il racconto del sogno di una notte estiva con le voci rifatte infantili e del mistero della natura che circuiscono i litigi celesti di Oberon e Titania, i turbamenti e i contrasti amorosi delle coppie umane, Lisandro ed Ermia - Demetrio ed Elena, e infine il mondo dei "Rustici", che ripropongono l'invenzione del teatro nel teatro.

La musica scopre nella commedia un incanto, che è anche un incubo: le ossessioni erotiche, attraversate da perverse allusioni, si risolvono nella perturbante pacificazione, che rivela una ambigua frivolezza. Britten reinterpreta la drammaturgia di Shakespeare passando attraverso all'amatissimo teatro musicale barocco e romantico, ed esalta un lungo legame con la tradizione, che tuttavia si risolve nei tormenti della contemporaneità. Questa evocazione dell'antico, di una mitologia che si perde in una gran lontananza, è forse l'aspetto più affascinante dell'opera, ma proprio perchè scava un momento notturno e inconscio della vita, in chiave appunto squisitamente novecentesca. Così la reviviscenza del teatro barocco è generata in Britten dalla creazione analitica e visionaria di un declamato flessibile e di un cantabile mobilissimo che si rapprende anche in polifonie arcaicizzanti ed estatiche e che incide sulla parola poetica, fin nei risvolti subliminali, immergendola in fitte penombre.

Le divinità, come gli umani, vivono nell'alito della natura, sono figure boschive, che si muovono nel gran mare di una notte che è già romantica. David Pountney, uno dei più significativi registi inglesi, si muove dalla convinzione che il bosco in Britten sia "immaginario": perciò ha pensato all'ambiente di una "scuola" (presumibilmente una scuola di iniziazione) "serale", in quanto la vicenda si svolge, anche psicologicamente, di notte. Premessa interessante, aperta però alla discussione, perchè i personaggi di Shakespeare e di Britten si specchiano nel mistero della natura, invece la regia e la bella struttura scenica di Stefano Lazaridis, con le sue geometrie novecentesche, rischiano talvolta di attenuare l'irrazionalità e la magia fiabesca britten iana, carica di crudeli allusioni: il compositore inglese vive in un'Arcadia che sprofonda nel Mito, ma che ha perduto l'originario, sereno valore simbolico, presentando sottili turbamenti.

Peraltro David Pountney evita le edulcorate decorazioni, vivifica la vicenda (anche a costo di esasperare la commedia) con impeccabili decorsi narrativi e con una sbalzata drammaturgia: i cantanti e le voci bianche si muovono rigorosamente sul ritmo della musica: basti pensare alla figura di Puck (l'irresistibile Richard Gaunlett), il folletto acrobata, caratterizzato con ardita vivezza. E comunque l'edificio scolastico diviene, attraverso progressive metamorfosi, il luogo di azioni sceniche in cui il rito di iniziazione all'eros si sviluppa con taglienti ironie e con aggressività al limite realistiche. Particolarmente riuscita la raffigurazione del teatro nel teatro nel terz'atto, caratterizzata con sapiente comicità grottesca.

Esecuzione musicale perfettamente definita in ogni dettaglio. John Eliot Gardiner, il grande direttore-filologo, sfrutta della piccola orchestra britteniana di soli 27 elementi (vi dominano i suoni magici di celesta, clavicembalo, arpe e variegatissime percussioni) tutte le suggestive evocazioni di un immaginario basso continuo barocco, e nel contempo intensifica drammaticamente, anche sul piano vocale, il discorso attraverso la profondità degli stati affettivi. In ciò Gardiner è stato agevolato da una compagnia di canto dotata di una disciplina stilistica, ove riaffiorano i fantasmi di Purcell, di cui Britten allarga le possibilità del canto recitato.

Ci limitiamo a ricordare l'elegante contraltista William Towers come Oberon, la sensuale Titania di Susan Gritton, il disinvolto garbo delle due coppie di innamorati - Matthew Beale, Alison Hagley, William Dazeley, Joanna Lunn -, il brillante basso-baritono Conrad Road nel ruolo di Bottom. Inappuntabili tutti gli altri cantanti, che non possiamo ricordare singolarmente, e molto affiatate le voci bianche angloitaliane. Eccellente la resa strumentale dell'orchestra da camera della Fenice, sotto lo sguardo implacabile di Gardiner. Una realizzazione del capolavoro di Britten che resterà nel ricordo. Caldissimi consensi.

Mario Messinis

 

Corriere della Sera
mercoledì 25 febbraio 2004

OPERA / «Sogno di una notte di mezz' estate» nell' allestimento di Pountney
Britten, addio bosco notturno

Il Sogno di una notte di mezz' estate di Britten si regge su un paradosso drammaturgico. L' azione, cioè, si alimenta di ambiguità, quando non pesca nel torbido, ma si manifesta attraverso un linguaggio la cui limpidezza è proporzionale al piccolo calibro orchestrale. Lo sa bene il bravo regista inglese David Pountney, il quale però, anziché giocare su tale singolare e quanto mai moderna intuizione britteniana, decide di valorizzare un elemento a discapito dell' altro. Non mostra perciò il bosco caro ai romantici né alcunché di notturno ma un' aula di scuola (del resto c' è molta «estetica della formazione» nella fonte shakespeariana) dove tutto avviene alla luce del sole. Idea discutibile, ma splendidamente realizzata, se è vero che alla logica degli eventi non manca mai il gusto del racconto e il senso della poesia. E come recitano bene gli attori - che cantano, ovviamente - di cui dispone. Tale impostazione peraltro è del tutto in linea con la lettura di John Eliot Gardiner - inglese anche lui - che affronta questa partitura per la prima volta esercitando il massimo di controllo analitico su colori e dinamiche. I tempi sono fin troppo «onirici» ma la qualità dell' esecuzione non si discute, anche perché il cast è all' altezza come pure i cori di voci bianche. E lusinghiero il successo.

Enrico Girardi

 

la Repubblica
23 febbraio 2004

MUSICA
Sbarca a Venezia il sogno di Shakespeare
DINO VILLATICO

A Midsummer Night’s Dream (Sogno di una notte di mezza estate o, forse meglio, di una notte dissennata), l’opera che Benjamin Britten ha tratto dalla meravigliosa commedia di Shakespeare, si dà per la prima volta a Venezia. È difficile dimenticare la bellissima, aerea realizzazione che nel 1991 Robert Carsen allestì a Aix-en-Provence, ma David Pountney regge bene la sfida. Il fantastico qui nasce dal quotidiano: il mondo delle fate, quello dei mortali altolocati e quello plebeo si mescolano con un gioco variatissimo di situazioni teatrali. Immaginate una scuola inglese di oggi, un gruppo di ragazzini scatenati, di giovani isterici, di uomini e donne assatanati e mai sazi di sesso. Splendida in tal senso la scena in cui le fate provocano un maschio attorniandolo e strusciandogli addosso in cerchio le proprie chiappe rotondette. È quanto di più shakesperiano (e britteniano) si possa immaginare: lo sguardo leggero al gioco della vita. Del resto Oberon e Titania litigano per il bel culetto di un bambino che tutti e due vogliono come paggio. La regina Vittoria non era ancora nata e la borghesia non imponeva ancora come universali i propri codici morali. Splendida tutta la compagnia, affiatatissima. Dispiace non poterla citare al completo. Finissima la direzione di Sir John Eliot Gardiner. Un trionfo. E le repliche registrano già il tutto esaurito.

 

Giornale della Musica
21 febbraio 2004

A lezione da Shakespeare

Volendo formulare qualche breve impressione, di fronte a questo allestimento si è tentati di isolare le componenti strettamente musicali, da quelle visive. La musica di Britten ha trovato indubbiamente una esecuzione di rilievo: l'orchestra, o meglio i solisti del Teatro La Fenice (tanto è ridotto l'organico), si sono ben orientati nell'arduo ed estremo eclettismo della partitura, grazie soprattutto alla precisione del gesto di Gardiner. Nonostante l'elevato numero di cantanti, il cast ha offerto una prova estremamente equilibrata: ottima la qualità dell'interpretazione da Susan Gritton (Titania) fino ai "rustici"; e non solo le voci hanno spiccato, ma anche le grandi capacità attoriali di questi artisti: "voglio cantanti che sappiano recitare" così diceva Britten a proposito del suo "Sogno". Puck, inoltre, si è dimostrato oltre che attore perfetto, acrobata allenatissimo.

Soffermandosi esclusivamente sulla messinscena, tuttavia, si nota come la lettura di Pountney non abbia, forse, colto a pieno la sostanza profonda di quest'opera. La riflessione di partenza secondo cui nelle commedie shakespeariane, come nel "Sogno", i personaggi siano condotti in situazioni fuori dal comune per innescare un processo di apprendimento che li conduca alla scoperta del proprio lato oscuro, ha fatto sì che la foresta si trasformasse in una scuola degli anni '50, con banchi e libri, e i personaggi, compresi fate ed elfi, in scolari con divise all'inglese: Titania e Oberon i maestri. Ma cambiando letteralmente il luogo-motore, sia del dramma che della musica, si stravolge l'identità dell'opera; diventa difficile associare le tinte sonore del bosco fatato e della notte (nonostante la proiezione di rami) allo spazio chiuso di un'aula scolastica, in cui sia il mondo incantato che quello reale sono relegati. Grande comunque è stata l'accoglienza del pubblico.

Alessandra Morresi

 

Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung
22. Februar 2004, Nr. 8 / Seite 20

Prügel für den Punker Puck
Benjamin Brittens "Sommernachtstraum" im karnevalstrunkenen Venedig

Freitag abend. Maskiert und aufgeputzt durch Venedigs Gassen zu stolzieren bietet den Touristen dieses Jahr wenig karnevalistisches Vergnügen. Wie Wasservögel müssen sich Narren im Jabot, Damen mit Reifröcken fühlen, wenn sie durch feuchte Gassen unterm Dauerregen in dampfige Weinbars einfallen. Die Oper im Malibran-Theater bot am Freitag abend immerhin Schutz gegen das infernalische Wetter. Gestandene Venezianer in gewohnt feiner Abendkleidung schauten zwar verbiestert auf die paar dreisten Reisenden, die sich mit Maske, Schminke und Kostüm in Brittens "Midsummer Night's Dream" getraut hatten. Aber was will man machen? Von solchem Karnevalsunfug lebt die Stadt; doch immerhin blieben zahlreiche Logen leer, weil sich die Bourgeoisie der Stadt zu den tollen Tagen der Touristen traditionsgemäß nach Cortina zum Skifahren verzieht.

Welch ein Kontrast zum kommerziellen Karneval in Neppkulissen ist dieses shakespearesche Musiktheater, wo Normalmenschen tatsächlich auf ihre übersinnliche Seite entführt werden, wo Blumen, Elfen und Naturgeister unser Leben zum sinnlichen Chaos zurückführen, dem es immer wieder neu entspringt. Weil aber keine Stadt so grünflächenfrei ist wie Venedig, verlegten David Pountney und sein Bühnenbildner Stefanos Lazaridis das Drama vom Zauberwald in eine britische Baumschule: die viktorianische Zuchtanstalt mit Schulbänken, Tafel, Sportunterricht und Zeugniskonferenz - nicht erst seit Harry Potter die wahre Zaubergegenwelt britischer Phantasie.
Mit derselben Idee hatte schon Peter Konwitschny vor Jahren in Hamburg den "Lohengrin" auf einer - naturgemäß preußischen - Schulmatte seine Arien vorturnen lassen. Warum also soll dieser mittsommerliche Naturreigen nicht gleichfalls in ein Internat zu verlegen sein? Jugendchöre, liebestolle Nymphchen, Prügelstrafen für den Punker Puck, schauspielernde Hausmeister, Fechtwettkämpfe und Elfentanz beim Ballettunterricht bietet das Libretto ja durchaus. Oberon, der Feenkönig, mutiert dabei zu einem verdächtig pädophilen Rektor, der mit Zuchtrute und William Towers' betörendem Kontratenor seine Zöglinge zielsicher auf die verkehrte Bahn lenkt.

Brittens Musik wurde also einmal nicht, wie sonst in Italien üblich, von der Inszenierung platt illustriert, sondern wirkte als Kontrast zum abwechslungsreich-prosaischen Unterricht auf der Bühne um so naturwüchsiger. Sein schmales Orchester mit viel Schlagwerk ließ er als Zauberharfe in allen Tönen des Waldes klingen, ihr Timbre wirkt wie das Licht im Sommerwald: mal geheimnisvoll abschattiert, mal grell, mal ätherisch schwebend, mal animalisch säuselnd. Ein allzeit lächelnder Sir Eliot Gardiner in Künstlersamtjacke führte seine Musiker durch die Partitur wie ein in vielen Vertretungsstunden ergrauter Musiklehrer: ungemein gelassen, souverän und gutgelaunt Bestnoten verteilend.

Hier konnte man genau das Paradox der britischen Musikgeschichte hören, die nach dem Anfang mit Purcell die Jahrhunderte von der ersten zur zweiten Elisabeth locker überspringt und mit rauhem, singbarem Sound direkt bei Brittens Neobarockorchester wieder einsetzt. Und weil in Venedig draußen ein arg unsinnlicher Karneval den Ursprüngen des Bacchanals hohnsprach, war es gar keine schlechte Idee, auch Shakespeares alchimistische Urgewalt in einer Erziehungsanstalt zu domestizieren.

Daß Oper und Theater keine abrufbare Bilderwelt liefern, hat bereits Britten in seiner Pathosparodie der stümpernden Schauspielertruppe vorgeführt; es kann immer auch schwer schiefgehen. Die wahrhaftigsten Fluchten ins Reich der Feen tritt man eben während langweiliger Mathestunden oder beim Blick auf knappe Turnleibchen an - Visionen, die in den seligen Zeiten vor der Koedukation gänzlich ins Reich der inneren Phantasie verbannt waren.

So geriet dieser winterliche Sommernachtstraum nicht nur wegen des famosen britischen Sängerensembles zu außergewöhnlicher Opernrealität. Fortan muß man Oberon wohl auch als schußligen Chemielehrer begreifen, der in seinem Erlenmeyerkolben die falschen Zaubertränke mixt. Die liebeshungrigen Quellnymphen haben nun ihren Auftritt im Schulmädchenreport. Und im Abschlußzeugnis dieser pubertierenden Lümmelklasse steht: Musik sehr gut; Betragen Gott sei Dank ungenügend.

DIRK SCHÜMER

 

DIE WELT
3.3.2004

Liebe auf dem Turnpferd
Gardiner und Pountney verschulen Britten

von Manuel Brug

Venedig - Nicht nur Pegasus an der jugendstil-verzierten Decke freut sich. Da das Teatro La Fenice von hinten immer noch komplett eingerüstet ist und seiner bühnentechnischen Vollendung im November entgegenharrt, kommt das Teatro Malibran, das dem Fenice-Brand seine Erweckung aus staubigem Dämmer (nach einer Zweckentfremdung als Kino) verdankt, auch weiterhin als Venedigs zweites Musiktheater zu Ehren. Und zudem mit einer szenisch wie musikalisch intelligenten Opernarbeit wie die Stadt sie seit Dekaden nicht mehr sah. Noch dazu mit lokalem Bezug. Schließlich ist Benjamin Britten, dessen psychologisches Gespensterrätsel "The Turn of the Screw" 1954 hier uraufgeführt und dessen Schwanengesang "Death in Venice" am Ort die europäische Erstaufführung erfuhr, längst eingemeindet. Nicht ganz der Jahreszeit entsprechend gab es "A Midsummer Night's Dream".

Regisseur David Pountney freilich hat die Shakespeare-Oper von 1960 samt durchaus bedrohlichem Schattenwald und -welt, wo kindliche Elfenstimmen wispern, fiese Glissandi Gänsehaut erzeugen und nur mit Zauberei jedes der zwischenzeitlich auseinander strebenden Paare sein Pendant findet - ähnlich wie Peter Konwitschny seinen Hamburger "Lohengrin" - in ein Klassenzimmer verlegt.

Unter Fotos von griechischen Tempeln und Diagrammen menschlicher Baupläne bleiben die Pulte nicht lange in Reih und Glied. Edelpunk Puck (kaum gebremst lasziv: Richard Gauntlett) bringt die Abfolge von Geografie, Chemie und Ballett in einen ganz neuen Stundenplan und hinter der sich als schwarzes Loch entpuppenden Tafel lauert neonverheißungsvoll die "Night School". Zwischen den bald Smoking und Rüschenkleid tragenden Kindern tauchen junge Erwachsene auf, noch in Schuluniform, aber bereits sehr gewandt in der Erforschung ihrer Gefühle und mehr.

Alison Hagley (Hermia), Joanne Lund (Helena), Matthew Beale (Lysander) und William Dazeley (Demetrius) landen nach diversen Irrungen, Wirrungen zu viert Liebe machend auf einem Turnpferd, während die liebestoll verzauberte Tytania (Susan Gritton) auf dem Lehrerkatheder einem Orgasmus entgegen japsend ihrem Esel Bottom (Conal Coad) die Strapse zeigt. So wurde aus dem braven Pädagogenpaar ein (fast) gefallenes spätes Mädchen und ein elegant sich ins Fäustchen lachender Zaubermeister Oberon (mit ebenmäßigem Countertenor: William Towers).

Die diesmal sehr alt besetzten Handwerker komplettieren in gewohnt schusseliger Weise den Generationenreigen mit ihrer sich zu einer wunderfeinen Opernparodie auswachsenden "Pyramus und Tysbe"-Klamotte, die diszipliniert am Lachen gehalten wird. Das royale Gastgeberpaar Theseus (Mark Beesley) und Hippolyta (Julie Mellor) kommentieren sie zum Finale hin gönnerhaft. Wenn am Ende in Stefanos Lazaridis' zweistöckig geweißeltem Klassenraum eine Discokugel und der blaue Mond Wohlfühl-Atmosphäre verbreiten, dann geschieht das über ziemlich viel emotionalen Trümmern, die sich trotzdem zum gerade noch harmonischen Gruppenbild fügen.

David Pountney lässt sein Shakespeare-Personal an der langen Leine in Abgründe blicken und zieht es in letzter Sekunde doch noch zurück. Doch der eigentliche Spiritus Rektor, der Puck im Graben dieses süßen Sommernachtstraums im feuchtnassen Februar, er heißt John Eliot Gardiner. Der koordiniert nicht nur das ungewöhnlich exakt spielende Fenice-Orchester, einen englischen und einen venezianischen Kinderchor sowie seine schön singenden, witzig spielenden, prächtig harmonierenden Sänger. Der verteilt vor allem - so wie schließlich Puck mit dem Besen den Staub des Vergessens - mit leichter Hand das doppeldeutig fiepsende, trompetende, flirrende, klöppelndn, zirpende akustische Puder, das diesen Opernabend zur reinen Freude macht.

 

mundoclasico
5.3.2004

Un bello mundo de pesadillas
Anibal E. Cetrángolo

En el magnifico marco del Teatro Malibran, el 22 de febrero, domingo de carnaval, vimos la segunda representación de Midsummer night's dream de Britten, título que inauguraba con esta puesta su carrera veneciana. Britten y Venecia son dos términos que siempre se atrajeron con fidelidad desde la primera visita del compositor -junto con Peter Pears- en 1949. Cinco años más tarde la Fenice fue cuna de The Turn of the Screw y aquel estreno mundial subió con la dirección musical y la regia del propio compositor (esto ultimo con Basil Coleman) y la participación de Pears. Tambien el compañero-tenor participó en la Fenice en la primera representación de The Death in Venice despues de la prima assoluta en 1973.

La obra de Britten sigue muy fielmente -aparte los imprescindibles cortes- el texto de Shakespeare y para algunos, como Chia Han-Leon, es la mejor de las entonaciones musicales de un texto del poeta de Strattford.

Midsummer que, como toda gran obra, admite múltiples lecturas (todas menos la de un cuento de hadas infantil, sugiere Davide Daolmi, que devela los aspectos más inquietantemente eróticos de esta gran pesadilla que esta puesta no oculta en absoluto), se muestra al espectador de nuestros días con una vigencia impresionante en su ardua coherencia. La organización, en cambio, de los elementos musicales es exhibida por el compositor en declaraciones que describen así su plan: "la historia requiere de tres grupos bien diferentes -los amantes, los artesanos y las hadas- que por otro lado interactúan entre sí. En la ópera he usado un tipo diferente de escritura y de 'color' orquestal para cada grupo: las hadas, por ejemplo, son acompañadas por arpas y percusiones -aunque obviamente, usando una pequeña orquesta, tales instrumentos aparecen también en otras situaciones". A esta declaración de Britten habría que agregar que las maderas siguen al mundo humano, las cuerdas graves y el fagot a los artesanos. La caracterización en pentagrama de los cantantes respeta también asociaciones análogas, como la delicada melopea que se liga a los enamorados.

El compositor exige de sus cantantes aptitudes escénicas de verdaderos actores. Dice Britten: "otra ventaja de trabajar en escala reducida es que se pueden elegir cantantes que sepan recitar o que estén dispuestos a aprender a actuar ... yo quiero que los cantantes sepan recitar". Sobre la primera producción escribe: "hay un solo cantante en esta producción que no ha subido nunca a un escenario (era Alfred Deller que cantaba 'Oberón') ...pero se adapta fácilmente a las tablas y está mejorando".

La producción veneciana de Midsummer sigue a la muy reciente edición toscana realizada por CittàLirica y que presentó al equipo de Opera Studio en la triple alianza de los teatros de Livorno, Pisa e Lucca.

Respecto de lo que ofreció La Fenice diré que la compañía de canto, casi en su totalidad británica, fue excelente. El trabajo del equipo que impone la obra y que estos artistas del Malibran han evidentemente puesto en obra con solidaria colaboración hace injusto establecer jerarquías. Baste indicar, aunque más no sea por la gran responsabilidad vocal que asigna la partitura, la excelencia de Susan Gritton en su 'Titania'. Magnifica la 'Helena' de Joanne Lunn y tambien el 'Oberon', cuyas arduas exigencias, superó brillantemente el contratenor William Towers.

Ciertas números en especial, como los de las participaciones de los artesanos, han evidenciado, gracias al cuidadísimo trabajo de los intérpretes, un texto musical de divertidísimo valor artístico... La escena de la representación teatral, ¡formidable!. Dicho sea de paso, en la prima mundial fue el mismisimo Peter Pears ('Flute') que en su escena de follia provocó el delirio del público haciendo la parodia de la diva que había provocado los entusiasmos del público británico del año anterior en Lucia: nada menos que Joan Sutherland.

El rol hablado (y movidísimo) de 'Puck', que en aquella histórica versión habia sido actuado por Leonide Massine II (hijo del bailarín de Diaghilev), fue aquí espléndidamente dicho y malabareado por Richard Gauntlett.

La puesta de David Pountney transfiere la acción a una escuela inglesa de los años 60. Una escuela nocturna, ámbito afín a la iniciación al mundo de las pesadillas que nos avergonzamos de recordar. El resultado es muy bello y todo funciona perfectamente. La arquitectura escénica recuerda el panocticum escolar en versión corredores con grandes ventanas que describe Michel Foucoult y que Pountey aprovecha justamente en su 'voyeurismo'. Ese "edificio puritano con balcón y grandes ventanas" es perfecto, ya sea para permitir movimientos muy veloces de los personajes como para unir de manera tan británica la frialdad sádica hacia los infantes con la trasgresión morbosa. La fusión de dos coros de niños, uno inglés y otro italiano, ha dado resultados irreprochables aún desde el punto de visto escénico.

Muy bien Sir John Eliot Gardiner en su difícil rol de dar un sentido a los pedazos de esta obra que es a la vez organizada en su música y anticonstructivista en su génesis. La difícil partitura fue ejecutada con óptima fusión camerística por la orquesta del Teatro, en la que, como determina Britten, los arcos tradicionales (escasos) debieron compartir el foso con colegas de maderas y bronces pero sobre todo con una numerosa y muy variada percusión.

El publico ritual y parcialmente enmascarado siguió la obra con gran participación y con un entusiasmo que hizo evidente en los interminables aplausos finales a scena aperta.