Corriere della Sera
domenica, 13 novembre, 2005

Alla Fenice di Venezia è andata in scena "La Juive" del 1835
Halévy, l' ebreo che condannò l' odio dei semiti per i cristiani

Denunciò la mostruosità del fanatismo religioso. Ma gli Schützen sul palco tradiscono la Shoah


L' INAUGURAZIONE. L' opera che mancava da vent'anni La Juive di Fromental Halévy (sopra, un momento dell'opera nella foto di M. Crosera) ha inaugurato l' altro ieri la stagione lirica della Fenice di Venezia. L' opera è assente dai teatri italiani da circa vent' anni. A Venezia fu presentata alla Fenice nel 1880, in italiano. Vi è tornata ora, per la prima volta in lingua originale (il francese), nell' allestimento del Wiener Staatsoper e con la regia di Günter Krämer.

L' antisemitismo nel Medio Evo. L' antisemitismo nel 1835 a Parigi. L' antisemitismo di un compositore ebreo, Halévy, restato fedele alle sue radici e figlio di Elie Levy, fondatore, sotto la Rivoluzione, de L'Israélite Français. Il genere operistico del grand-Opéra, che da Parigi, inventato da Rossini, s' irradia in tutt' Europa come metodo compositivo industriale perfezionato da due artisti ebrei, Halévy e Giacomo Meyerbeer. L'antisemitismo nel Medio Evo narrato dal principe dei drammaturgi parigini, Eugène Scribe, un genio, e da un compositore ebreo francese, appunto Fromental Halévy (1799-1862), un grande talento. Oggi il nome n'è ignotissimo; ma l'unica opera sua sopravvissutagli, La Juive, eseguita ancora molto, in italiano, fino all' ultima Guerra, in tutto il mondo, e in tedesco nei paesi di cotesta lingua, fu ai suoi tempi un colossale successo.

Si può discutere sui suoi valori, che in senso musico-drammatico vennero altamente apprezzati da Wagner; ma L' Ebrea, in quanto emblema stesso del grand-Opéra come genere, contenendone con precisione perversamente scientifica tutti gl' ingredienti, è tema di rilevanza storica e sociale enorme. Diciamo di più: le sue esecuzioni attuali mostrano una verità sorprendente. Il bersaglio di tutte le polemiche, a volte con sottostante sentimento antisemita, che nell' Ottocento contestano la stessa liceità musico-drammatica del grand-Opéra, è Giacomo Meyerbeer. Si veda l'odioso libello di Wagner Il giudaismo nella musica, che parte anche dall'ignorar Wagner la stima portatagli da Meyerbeer e i tentativi suoi per far eseguire il Rienzi all' Opéra. Ma Meyerbeer è davvero un grande compositore: e per un ironico destino paga le colpe di Halévy e dell'Ebrea.

Scelta a inaugurare la stagione della Fenice di Venezia, essa ottiene dal pubblico di nuovo un successo violento. Ma quest' esecuzione è la prima quasi integrale forse dal 1835 e la più autorevole in senso musicale anche per le radicalmente meliorative modifiche alla compagnia di canto rispetto all' edizione viennese costruita sullo stesso allestimento. L' inaugurazione veneziana è dunque un importantissimo avvenimento spettacolare e, soprattutto, culturale.

La struttura drammatica e i conseguenti tipi musicali dell'Opera sono nuovi. Protagonista n' è infatti il tenore, ma costui ha da impersonare un vecchio: un orefice giudeo romano riparato a Costanza. Il carattere è orgoglioso fino allo spasimo ma fino allo spasimo crudele: è animato da quel vile coraggio attribuito da Anatole France agli Ebrei di Gerusalemme sotto Ponzio Pilato nel Procuratore di Giudea. Il primo interprete ne fu il più grande tenore francese, Adolphe Nourrit, delicata e letterata figura, autore anche dei versi della principale Aria del vecchio, Rachel, quand du Seigneur. Non gliene venne fortuna. Tre anni dopo, si buttò dal balcone della casa di Donizetti a vico Nardones a Napoli, vinto da una crisi depressiva.

L'azione si svolge nel 1415, durante le sessioni d'apertura del Concilio di Costanza. All'ebreo si contrappone, con inalterabili tolleranza, perdono e profferta d' amicizia, dall' ebreo sempre rifiutata con disprezzo, la figura del basso: il cardinale Brogni, prefetto del Concilio. I due si sono già conosciuti, appunto a Roma, in altra veste. Brogni, allora laico, governava militarmente l'Urbe e ne aveva discacciato Eleazaro. Ma non prima che un incendio non avesse fatto perire tra le fiamme la moglie e l' infante bimba dell' uomo: il quale, per il dolore, abbandona il secolo. Che siano morte ambedue egli crede: apprenderemo solo a uno snodo drammatico capitale della Juive che la piccola è stata salvata da Eleazaro il quale l' alleva tacendole la vera identità. Rachele è divenuta una donna bellissima. All' insaputa del convivente padre, allaccia un legame con un principe dell' Impero, sposato alla regina Eudossia, il quale accede alla bottega travestito da apprendista ebreo. Ma lo vedremo profanare il pane azzimo invece che mangiarne, donde l' inizio della catastrofe. Eleazaro dapprima vuole ucciderlo; ma Rachele denuncia il principe Leopoldo in pubblico scandalo. Il Cardinale è costretto a fare arrestare i tre per processarli. Tenterà ancora di salvarli, come lo tenterà la Principessa: che ottiene da Rachele, in segreto colloquio, la ritrattazione delle accuse a Leopoldo. Verranno cotti nell' acqua bollente solo i due ebrei, uno vero, l' altra falsa: ed Eleazaro principia da lontano la vendetta svelando al Cardinale, che ancora tenta di salvarlo, esser egli a conoscenza della vera identità della di lui figlia, ancor viva. Questi ha l'animo dilacerato, lo supplica in tutti i modi. L'ebreo parlerà ("La voilà!") indicando Rachele che precipita nel calderone, undici battute prima dell' ultimo accordo. Nel finale del Trovatore, Azucena rivela al Conte, solo dopo aver udito "È spento!", che Manrico ne era il fratello. Due esseri cresciuti qual figli da due forme di vita studiose solo di far strumento cruento di vendetta chi filialmente li venera.

La mentalità del primo Ottocento, da Halévy con palese adesione accettata, è che solo due mostri come Eleazaro e Azucena possono portare in fondo un sì spaventoso progetto. Azucena perché appartenente a una razza immonda, gli Zingari; ma degli Ebrei ciò non poteva ancora dirsi, non essendo nel 1835 stato ancora pensato: e l' alta motivazione dell' antisemitismo di Scribe e Halévy è la condanna del fanatismo religioso e dell' odio anticattolico di Eleazaro, molla del suo agire. Di qui la condanna del fanatismo religioso in quanto tale, dunque anche cristiano. La partitura di Halévy, apertamente influenzata in pari grado da Rossini e Meyerbeer, possiede tuttavia un aliquid noui fatto di effetti orchestrali studiatissimi, colpi di scena abrupti, gran senso del colore locale: manca di sintesi, lo stile ne è spesso pompier (l'orrido Luigi Filippo secondo una pagina tacitiana delle Memorie di Tocqueville!): la forza drammatica ne è incontestabile.

A Venezia Iano Tamar impersona con timbro, carattere e splendido "vibrato" il ruolo che alla "prima" fu di Cornelia Falcon, grandissimo soprano drammatico che diede nome addirittura a un tipo vocale: ancora il Prince Charmant della Cendrillon di Massenet è in partitura denominato "Falcon". Le si contrappone l' elegantissimo virtuosismo ma anche il delicato pathos di Annick Massis nel ruolo di Eudossia. Il protagonista Neil Shicoff coniuga nella recitazione, ché di canto non si può parlare, espressionismo estremo a metodo Stanislavski, sì da diventar realmente ripugnante: è un maestro di teatro. Ottiene una lunghissima ovazione dopo aver trasformato Rachel quand du Seigneur, già pezzo favorito di Caruso e Gigli, in una spezzettata, interminabile lamentazione yddisch, aggiunti quarti di tono. Frédéric Chaslin guida l' esecuzione con l' autorevolezza dell' esperto.

L'allestimento scenico è tedesco e proviene da Vienna. Ripeto ad nauseam che quando il Tedesco è cretino nessuno lo batte. Gli uomini di Costanza sono vestiti da Schützen (per inciso, il costumista non conosce nemmeno colore e paramenti cardinalizi attuali!), gli ebrei come ebrei nuovayorchesi di oggi. Qui il velen dell' argomento: s' insinua un' idea di antisemitismo novecentesco con un processo mentale ex tunc, laddove la distinzione fra l' idea d' una razza immonda e quella di chi non è ancora approdato alla vera fede va attentamente osservata. Ma in tal modo l'Olocausto viene banalizzato. La folla chiama l'ebreo "eretico": ma il Medio Evo è in questo molto più civile della Controriforma, giacché la teologia, da Girolamo a san Tommaso, è formale nel negare possa tale qualifica applicarsi se non a Cristiani. Il numero delle vittime fatte dal Cristianesimo su se stesso per dispute come il consubstantialem Patri o il Filioque e per la lotta all'eresia albigese e catara supera incomparabilmente quello delle vittime dell'antisemitismo cattolico. Nel finale della Juive il regista Krämer fa apparire serventi dell'Inquisizione per uccidere Rachele: ma solo nel 1492 Isabella regina principiò la prima persecuzione....

Il grande musicologo Michele Girardi cura per il teatro un volume sulla Juive. Purtroppo a lui dobbiamo solo due pagine. Le altre sono di uno "specialista dei generi musicali parigini dell'Ottocento", tale Gerhard, contenenti errori d'armonia, e mille dottissime analisi dovute a varii. Qualcuno desidererà una pagina biografica su Halévy: non qui potrà trovarla. Aggiungeremo allora noi qualche modesta notizia per dar conto della centralità di Fromental nella vita parigina dell' Ottocento. La figlia Geneviève (1849-1925) sposò in prime nozze Bizet; vedova, divenne madame Emile Straus (sic Proust), avvocato dei Rotschild e ministro. In quanto tale, il suo salon fu a lungo il più importante di Parigi; fondendone la figura con quella di madame de Greffhule, Proust creò Oriane de Guermantes. Era stato, peraltro, compagno di scuola di Jacques Bizet e d' un altro nipote di Fromental, Daniel Halévy, suo primo grande amore: antisemita a sua volta e autore della Vita eroica di Federico Nietzsche. "La Juive" di Halévy fu presentata al pubblico parigino il 23 febbraio 1835. Elogiata da Wagner, fu riconosciuta, insieme a "Les huguenots" di Meyerbeer, come il grand-Opéra per antonomasia

Paolo Isotta

 

IL GAZZETTINO
Domenica, 13 Novembre 2005

"La juive" di Halévy apre la sagione della Fenice

Venezia. La Fenice è diventata negli ultimi anni, per iniziativa di Viotti e Segalini, la capitale del teatro francese romantico. Lo si è notato anche nella "Juive", un capolavoro misconosciuto dell'Ottocento parigino, testimonianza di un'idea teatrale progressiva e cosmopolita.

Scritta nel 1835 - ma ben più avanzata del coevo melodramma italiano, che incide solo marginalmente su Halévy - "La Juive" aggiorna i lessici parigini anche con una apertura al sinfonismo tedesco e weberiano in particolare. La drammaturgia musicale accalorata è sorretta da un librettista della statura di Scribe, che manipola genialmente gli intrecci in funzione spettacolare, con punte di raccapricciante ostentazione.

"La Juive" ci porta al cuore della intolleranza religiosa, in cui si scontrano il livore crudele dei cristiani e il fanatismo ebraico, soverchiato dalla prepotenza clericale, con la conseguente condanna al rogo dei protagonisti. Non è un'opera antisemita. Halévy, ebreo, caratterizza la ostinata intransigenza di Eléazar - il gioielliere ebreo, padre presunto di Rachel, che è in realtà la figlia del suo nemico, il cardinale Brogni - ma condanna la violenza inquisitoria cattolica, come Verdi nel "Don Carlo". In questo monumentale affresco policromo emerge pure una vicenda di amore impossibile e proibito tra Leopoldo, cristiano travestito da ebreo (sposato con la principessa Eudaxie) e la sventura eroina Rachel.

L'architettura drammatica è poderosa. Halévy riesce a perseguire l'unità costruttiva attraverso la compenetrazione di stile recitativo e brani cantabili: ne risultano lunghe e complesse scene nel segno della continuità. Frequentemente i solisti si innestano in grandiose strutture sinfonico - corali. Il modelli dei concertati del Rossini francese viene piegato ad una intensificazione del melodismo romantico, con un alleggerimento delle trame contrappuntistiche e con enfasi passionale che cancella il gusto classicistico del Pesarese. Prevale l'onda lunga del cantabile, con la riduzione delle colorature, e con una ardente vocalità che prefigura il Verdi della piena maturità, dal "Un ballo in maschera", al "Forza del destino", al "Don Carlo" (Verdi ha assimilato, parassitariamente, i linguaggi altrui, ma ha inventato una nuova drammaturgia). Impressionante in particolare la "parola scenica" investigata vent'anni prima di Verdi, in cui coesistono lo stile declamatorio, l'arioso e l'appello melodico, che spesso decostruiscono la forma chiusa. Di qui il consenso di Wagner, che pur era un denigratore dell'opulenza grandoperistica.

Il grande Neil Shicoff incarna Eléazar, figura colossale di profondità shakespeariana, con una memorabile recitazione e scarnificata cantabilità. La celebre aria del quarto atto, l'unico brano rimasto in repertorio, è sentita dal tenore in chiave melodrammatica, all'italiana, ma come assimilazione della rigorosa declamazione francese. È l'unico brano che è stato accolto da scroscianti applausi. Jano Tamar, nell'emozionante e complesso ruolo di Rachel, trascorreva da levigatezze intimistiche a struggenti lacerazioni drammatiche. Il poderoso basso Roberto Scandiuzzi interpreta la figura problematica e ambigua del cardinale Brogni con ostentati toni verdiani, da Grande Inquisitore. Consapevole della tradizione rossiniana (presente soprattutto nel ruolo di Eudaxie) Annik Massis sfoggia elegantissime colorature; il secondo tenore Bruce Sledge tende invece ad appesantire il ruolo di Leopold in chiave esplicitamente melodrammatica. Nella figura perversa di Ruggiero si sfoga l'anticlericalismo di Halévy e la vigoria del basso - baritono Vincent Le Texier. Tra i comprimari emerge il baritono Massimiliano Vallegi. Anche la seconda compagnia è pregevole: segnaliamo almeno il soprano Francesca Scaini (Rachel) e il basso cantabile Riccardo Zanellato (Brogni).

Notevole, e opportunatamente semplificato, l'allestimento di Gottfried Blitz, proveniente dall'Opera di Vienna per la regia di Gnter Krämer. È una scena fissa, bivalente e geometrica, che tende all'astrazione, suddivisa tra una struttura bianca e diagonale, che accoglie gli aristocratici e i cristiani, mentre gli ebrei agiscono nell'oscuro piano sottostante. I costumi sono bianchi - lo sfarzo della corte e della chiesa - e neri per caratterizzare l'ascetismo ebraico. L'ambientazione medievale del libretto è spostata tra fine Ottocento e inizio Novecento, in un clima dichiaratamente absburgico. La stilizzazione consente l'omissione dei balletti (molti comunque i tagli di una partitura oceanica in cinque atti). Frédéric Chaslin è un musicista colto, ma la concertazione direttoriale della monumentale partitura non è ancora sufficientemente approfondita. Molto impegnati l'orchestra e il coro (diretto da Emanuela Di Pietro) in questo drammone che sintetizza in un polistilismo coinvolgente (soprattutto dal secondo atto in avanti) gli splendori della cultura parigina degli Anni Trenta.

Mario Messinis

 

IL GIORNALE DI VICENZA
domenica 13 novembre 2005

Trionfale successo per il tenore Neil Shicoff
Juive, gioielli francesi dell’opera "kolossal"

di Cesare Galla
inviato a Venezia

La juive di Fromental Halévy appartiene a un genere tipico dei nostri tempi: quello delle opere che hanno fatto storia, ma che ad essa sono relegate. Baciate da straordinario successo all’epoca del primo debutto, importanti per i musicologi, e quindi stimate e citatissime, ma "lettera morta" nel repertorio più praticato, con rare esecuzioni a costellare gli ultimi decenni dopo i fasti dell’Ottocento, quando le esecuzioni si susseguivano incessantemente.

Con questo titolo – secondo la propria vocazione di teatro incline a "recuperi" dotti ma non astrusi – la Fenice ha inaugurato la stagione lirica: una serata nervosa all’inizio, per i pensieri e le parole sui tagli alla Finanziaria (ne parliamo qui sotto), ma suggellata alla fine da un vivissimo successo. Nel quale sono da accomunare gli interpreti di una rilevante ed equilibrata compagnia di canto e la partitura stessa, che ha dimostrato di meritare un destino diverso da quello dell’eccezione nei calendari operistici.

Negli anni, nei mesi in cui trionfava l’opera romantica italiana dei Donizetti e dei Bellini (Lucia di Lammermoor e I Puritani sono di quello stesso 1835), Halévy mostrava con questo suo capolavoro che c’erano anche altre alternative al "dopo-Rossini". E lo faceva con tale densità e incisività di soluzioni musicali e drammaturgiche da diventare un punto di riferimento non eludibile per la successiva generazione degli operisti, il che equivale a dire soprattutto Verdi. Ma si badi bene: il bussetano ci avrebbe messo un bel po’ di tempo, prima di arrivare sulla strada indicata da Halévy, perché bisogna approdare almeno al Ballo in maschera per cogliere quanto la "lezione" del compositore francese sia stata fruttuosa, e a Don Carlos e Aida per vederla genialmente "applicata" e infine superata.

La juive (L’ebrea) inaugura il genere del cosiddetto grand-opéra, che poi sarebbe il kolossal melodrammatico del XIX secolo, ma non è tanto la grandiosità delle scene di massa e l’ampiezza della struttura a colpire oggi, né la scelta di argomenti storici anche complessi e "difficili" come questo, trattato da par suo da un volpone della poesia teatrale come Eugène Scribe, l’autore del libretto. Il fatto è che la sostanza drammatica della vicenda (l’odio fra cristiani e ebrei, la violenza dei confronti religiosi, la tragedia privata dei sentimenti, impossibili se chi si ama non ha lo stesso Dio, il sacrificio fino alla morte per la vita dell’amato – qualcosa che molto ricorda Rigoletto…) è occasione di un’invenzione musicale davvero ragguardevole nella sua efficacia. Perché da un lato la vocalità viene piegata con straordinaria duttilità alle esigenze drammatiche – conservando le forme chiuse ma tendendole a una più ampia espressività che coinvolge anche la potenza della declamazione in recitativi di splendida efficacia. Dall’altro l’orchestra assume un ruolo protagonistico e non solamente "decorativo", con una sensibilità per i colori (corni inglesi e corni su tutti gli altri strumenti) che porta a soluzioni di implicita forza espressiva. E su tutto, la forza di un’invenzione melodica singolarmente capace di anticipare sensibilità estetiche ben altrimenti caratterizzate, se ancora Proust poteva citare una delle più celebri Romanze della Juive nella Recherche.

Lo spettacolo della Fenice proviene dall’Opera di Vienna (lo firmano Günter Krämer per la regia, Gottfried Pilz per le scene e Isabel Ines Glathar per i costumi) e si tiene lontano dalle sottolineature grandiose. Le scene di massa sono perfino troppo compresse, specialmente nel primo atto, quando una sorta di vetrata quasi a proscenio obbliga il coro ad accalcarsi in una piccola striscia di palcoscenico. Nel prosieguo, però, funziona abbastanza bene l’idea scenografica di dividere gli spazi fra un "sotto" oscuro che è il mondo degli ebrei e un "sopra" tutto in bianco che è lo spazio dei cristiani: un "taglio" sghembo di plastica efficacia, che è funzionale alla drammaturgia anche se il gusto della parte visiva è appesantito dalle opinabili scelte per i costumi (in stile tirolese) e gli arredi.

D’altra parte, probabilmente nessuna regia sarebbe riuscita a incrinare la superba presenza scenica e l’energia drammatica del mattatore della serata, il tenore Neil Shicoff, nel ruolo del vecchio ebreo Éléazar. Impressionante la forza della sua immedesimazione drammatica in un personaggio tanto complesso, nel quale convivono l’odio inestinguibile per i cristiani, una profonda pietà e religiosità, l’intensità sofferta dell’amore paterno, la volgare avidità del commerciante pronto a imbrogliare i suoi clienti con la scusa che ebrei non sono. Shicoff ha fatto annunciare un’indisposizione, ma se non lo avesse fatto al massimo si sarebbe potuta notare qualche raucedine; in realtà la sua è stata una prova magistrale per la complessità della linea di canto, l’efficacia del fraseggio, l’evidenza espressiva data a un personaggio attraversato e turbato da sentimenti terribili e contrastanti, che vive la vendetta insieme come dovere e come incubo esistenziale.

Intorno a lui, magnificamente si sono mossi anche gli altri tre interpreti principali. Iano Tamar è stata una "juive" appassionata e pronta al sacrificio, capace di dare evidenza vocale a un ruolo che richiede grande sostanza nella zona centrale della tessitura, ma anche prontezza nel salire all’acuto. Una svettante Eudoxie, egregia interprete del canto di coloratura, è stata Annick Massis, mentre il tenore Bruce Sledge ha dato vivacità e intensità al ruolo da sofferto "amoroso" di Léopold. Il cardinale Brogni era Roberto Scandiuzzi, voce imponente ma solo a tratti condotta con adeguata misura. Il coro istruito da Emanuela Di Pietro si è proposto con crescente convinzione ed efficacia.

Dal podio, Frédéric Chaslin ha proposto una lettura di articolata eleganza, forse un po’ slegata nel primo atto (che è del resto in generale la parte meno felice dell’opera), ma poi capace di sottolineare con accortezza la vasta gamma espressiva di questa musica, facendone emergere la ricchezza di colori con adeguata morbidezza, e la profondità "sentimentale" con intensità coinvolgente.

Teatro esaurito, gran successo.

 

Il Giornale della Musica
12 novembre 2005

Le commiste complessità della rara Juive

Non inizia subito il capolavoro di Halévy, presente due sole volte alla Fenice nel 1869 e nel 1879. Striscioni di protesta, volantinaggio fuori in campo S. Fantin e una raccolta di firme contro i tagli della Finanziaria sono l'ouverture all'entrata lesta sul proscenio del sovrintendente Vianello e del sindaco Cacciari che, avanti l'opera, tengono un discorso duro e coraggioso intorno all'insensibilità culturale del governo che, con i tagli al Fus (e per la Fenice si tratta di otto milioni di euro) rischia di compromettere se non di annullare metà delle produzioni programmate per il 2006, con grave rischio per tutti i lavoratori. Poi giunge un altro appello, registrato, dalla voce di Pizzi, che incoraggia la lotta, affinché la Fenice non sia frenata nella creatività per far tornare i conti che, secondo il Fus, paventano per ciascun teatro, la possibilità di un solo nuovo allestimento originale all'anno. Tutti comprendono, anche i numerosi stranieri di passaggio a Venezia; qualche facinoroso urla sguaiatamente.

Si alza dunque il sipario sull'operona che, in virtù del Fus, è in realtà un allestimento del 1999 della Wiener Staatsoper, ripreso al Metropolitan nel 2001. Un titolo popolarissimo nell'Ottocento, lodato da Wagner e da Mahler, e citato nella "Recherche" di Proust, ma anche scaramantico, dato che fu l'ultimo cantato prima di morire da Caruso, Martinelli e Tucker, e prima della malattia da Carreras. Sembra quasi che la preziosa ripresa sfidi la jattura, pur continuando la Fenice quell'esplorazione dell'opera francese ottocentesca tanto cara al compianto marcello Viotti che ha caratterizzato le ultime stagioni.

Aprire il cartellone con "La juive" significa portare in scena il conflitto interreligioso tra cristiani ed ebrei, rappresentato da un padre putativo, l'orefice ebreo Eléazar, e un padre vero, Brogni, un cardinale che prima di esserlo aveva avuto famiglia e prole. Scontro sociale tra religioni e tradimenti, doppio quello di Léopold principe dell'Impero, un cristiano, per giunta maritato, che ama la bella ebrea Rachel, la cui vera identità è il colpo di teatro finale: ella è la figlia naturale del cardinale Brogni, salvata da un incendio dall'ebreo Eléazar, ora condannata insieme a lui al martirio della caldaia in cui verrà bollita viva per essersi messa con un cristiano e avrlo denunciato.

Un drammone del 1835 che sarà il modello di vendetta inesorabile adottato da Verdi nel "Trovatore". Le scene su due piani inclinati separano le vite delle rispettive case, dell'ebreo e del palazzo del principe Léopold (decorato da un enorme lampadario), in uno spazio atemporale, non hussita come vuole la tradizione, ma ascrivibile tra le due guerre. Costumi bianchi e bianconeri per i cristiani, funerei per gli ebrei che si apprestano nella casa-bottega a festeggiare il rito pasquale. Halévy, mettendo in scena fenomeni di persecuzione con abile mano musicale (si pensi agli effetti dell'incudine, alle due chitarre che accompagnano un'aria mesta, al corno inglese in un'altra aria, al monologo grandioso di Eléazar che richiama temi sinagogali, alla spettacolarità del grand-opéra), lascia stupefatto l'ascoltatore anche per l'uso insolito delle voci: Rachel soprano drammatico o mezzosoprano acuto (resa superlativa dalla voce robusta di Iano Tamar), Eléazar un padre-tenore dal corposo registro centrale (Neil Shicoff ha cantato, nonostante la laringite, come se non fosse di questo mondo, magnificamente, come un arcangelo o come un profeta stesso), Brogni basso dotato di un registro profondo (reso egregiamente da Scandiuzzi), Eudoxie soprano lirico-leggero (perfetta la precisione di Annick Massis), Léopold un tenore-contraltino (Bruce Sledge munito di facilità negli acuti). Masse corali e ruoli di fianco hanno amplificato gli intenti in questo straordinario successo, applauditissimo.

Maria GIRARDI

 

OPERACLICK.com
15/11/2005

Venezia - Teatro La Fenice
Fromental Halévy: La juive (L’ebrea)

"La Juive" può essere considerata il capostipite e la pietra angolare di un genere, il "Grand-opéra", che segnerà fortemente la produzione musicale francese dell’ Ottocento e che di essa costituirà un forte elemento distintivo, e tuttavia imitato in varie forme, dalle altre scuole nazionali. Curiosamente, ma nemmeno troppo, i due titani del Grand-opéra furono entrambi di religione ebraica e si avvalsero di Eugène Scribe quale librettista.

La novità de "La Juive" sta innanzitutto nel soggetto che Jacques Fromental Halévy scelse per realizzare la più grande produzione teatrale mai apparsa prima di allora sulle scene francesi, e, probabilmente del mondo, vale a dire lo scontro tra religioni. La tematica religiosa, intesa nell’ottica della contrapposizione, sarà ripresa dall’altro grande esponente del Grand-opèra, Giacomo Meyerbeer ne "Le Prophète" del 1836 e, soprattutto ne "Les Huguenots" del 1849.

Ne "La Juive" si vide per la prima volta in scena un Cardinale, si vide rappresentato un Concilio, si vide un décor ridondante ed un impiego di masse tale da far dire a Berlioz qualcosa del tipo "è un miracolo che tra tanto tintinnare di corazze, cavalli, zampilli di vino, cannonate…si riesca ad intuire qualcosa della musica", ma si vide rappresentato anche un conflitto interreligioso, fomentato dalla Restaurazione, che serpeggiava nella Francia di Halévy, il quale, con Scribe, propugnò strenuamente il mantenimento di uno stato laico e tollerante.

Il Concilio di Costanza è visto come un esempio di degenerazione somma della Chiesa, ma altrettanto stigmatizzato da Halévy e Scribe è l’agire di Éléazar nella difesa della sua religione e nel suo odio anticristiano, che lo porta lucidamente al sacrificio suo e di una figlia, Rachel, di cui non solo non è padre naturale, ma che è nata cristiana, in quanto figlia del Cardinale Brogni.

Lo spettacolo che inaugura la stagione 2006 della Fenice giunge dalla Staatsoper di Vienna in un allestimento, a nostro giudizio, fortunatissimo, se si eccettuano il taglio del balletto, che costituisce uno degli elementi portanti del grand-opéra, e quello, scelleratissimo della cabaletta di Eléazar dopo la grande aria "Rachel, quand du Seigneur".

Günter Krämer trasporta la vicenda in una Svevia dei primi del Novecento e, segnatamente in una Costanza popolata di contadine e Schutzen, vestiti maluccio da Isabel Inez Glathar a sottolineare che il conflitto tra la Chiesa e le altre religioni non terminò né col rogo di Jahn Hus, né, tantomeno, nei secoli successivi, anzi…

La scena, molto bella nella sua semplicità, firmata da Gottfried Pilz, presenta una partizione su due piani sovrapposti, quello superiore inclinato, a creare un unico labile punto di contatto con quello inferiore. La parte superiore della scena, caratterizzata da un bianco accecante è il mondo cristiano, quello del cardinale Brogni, dell’ imperatore, della corte; quella sottostante, nerissima, illuminata solo da candele, è riservata agli Ebrei. I due mondi procedono paralleli per incontrasi solo nei momenti di scontro; al "piano superiore" Éléazar e Rachel saliranno solo per trovarvi la loro fine, e, per quanto attiene al vecchio gioielliere ebreo, la vendetta rafforzata dalla sua fede costantemente oltraggiata quand’anche addirittura non vilipesa.

Assolutamente geniale la concezione drammaturgica durante il "Rachel, quand du Seigneur", durante il quale Éléazar, progressivamente, si toglie scarpe, calze, giacca, gilet e occhiali, come un deportato nei campi di sterminio che si avvia al martirio, ripiega gli indumenti con cura quasi maniacale per poi cullarli come fossero un neonato, quella Rachel figlia di Brogni da lui salvata dalle fiamme e che alle fiamme sta per essere consegnata.

Suggestiva la scena del rogo finale, con le fiamme composte da un gruppo di "incappucciati" rossi che circondano Rachel ed in mezzo ai quali si getta Éléazar.

Positivi riscontri si sono avuti anche sul versante musicale.

Frédéric Chaslin guida con mano elegante e sicura l’orchestra della Fenice, in serata più che buona. La lettura di Chaslin è, giustamente, maggiormente tesa ad esaltare i momenti lirici dell’opera, che non gli elementi più segnatamente "pomponniers"; i tempi sono appropriati, l’agogica rispettata, le sfumature e gli accenti ben evidenziati.

Neil Shicoff, del quale è stata annunciata una forte indisposizione prima dell’inizio dello spettacolo, è stato un Éléazar memorabile. Il tenore americano, già cantore di Sinagoga, incarna totalmente il personaggio, lo vive in ogni suo aspetto, lo trasmette al pubblico in ogni gesto ed in ogni accento. Sulla voce di Shicoff si potrebbe discutere a lungo; il timbro non è "canonico" (ammesso che di "canonico" si possa parlare, discettando di voci), l’emissione non è sempre impeccabile, i segni del tempo sono presenti ed udibili, ma resta il fatto che l’intensità del canto nella preghiera che apre il secondo atto e la forza titanica della grande aria del quarto hanno suscitato nel pubblico emozioni quasi palpabili. Bravissimo, senza riserve.

Roberto Scandiuzzi ha la voce e la presenza che si addicono al cardinale Brogni; i centri bruniti ed i gravi sempre ben timbrati hanno contraddistinto la sua prova sotto l’aspetto vocale. Il suo Brogni è combattuto, profondamente umano, eppure anche lui schiavo del suo tempo e degli eventi che solo in parte controlla e che a sua volta subisce. Ci ha convinto.

Bruce Sledge tratteggia un Léopold innamoratissimo e nel contempo tragicamente infingardo, forse talora un po’ troppo languoroso, ma sempre di grande slancio lirico. La voce è bella, gli acuti svettano sicuri, e sono davvero molti, la pronuncia francese quasi perfetta.

Annick Massis veste splendidamente i panni di Eudoxie, fatuamente felice nel secondo atto e tragicamente consapevole nel terzo e nel quarto. Massis è grande cantante e grande attrice, l’ intonazione è rimarchevole, le agilità di grande classe, la presenza scenica sempre accattivante.

Vincent Le Texier è un Ruggiero un po’ sopra le righe, talvolta fin troppo irruento. La voce non è delle più belle, di "grana grossa" si potrebbe dire; comunque alla fine applausi anche per lui.

Anello debole della compagnia è stata Francesca Scaini, che sostituiva nel ruolo di Rachel l’ indisposta Iano Tamar. La caratterizzazione del personaggio c’è ed è convincente, la Scaini offre infatti un’ Ebrea volitiva, di grande polso e di grande carattere, ma lo fa con una voce poco adatta al ruolo che fu di Conélie Falcon. Il suo registro basso appare quasi sempre opaco e spesso poco timbrato, mentre gli acuti sono altrettanto spesso un po’ tirati; anche il volume non enorme della sua voce fa si che la sua Rachel, nelle scene d’insieme, finisca sempre coperta.

Sul fronte dei comprimari positive le prove di Massimiliano Valleggi, Albert, di Enrico Masiero, di Claudio Zancopè e di Antonio Casagrande. Più che buona anche la prova del coro.

Al termine applausi convintissimi da parte di un pubblico estremamente attento e silenziosissimo, con ovazioni a Shicoff ed alla Massis.

E’ doveroso ricordare che, come in occasione della "prima" dello scorso venerdì, il coro ha eseguito il "Va’ pensiero" interrotto in segno di civilissima protesta ai tagli al FUS, ricevendo applausi scroscianti dall’intero teatro.

Alessandro Cammarano

 

Forum Opéra
Venise, 15/11/05

Fromental Halévy: LA JUIVE

Disons-le tout de suite : qui viendrait à Venise pour assister à la représentation d’un grand opéra français dans les règles serait déçu. D’importantes coupures ont été pratiquées, les ballets brillent par leur absence et la scénographie n’est pas assez spectaculaire.

Mais faut-il se lamenter parce que le verre n’est qu’à demi plein ? Au moins nous a-t-on donné à boire, et permis de nous faire une idée de cette grande œuvre, désormais en voie de disparition comme ses pareilles de la même espèce.

Sans doute, en raison même de la rareté des représentations de La Juive, peut-on déplorer les lacunes mentionnées . Au-delà du constat il reste un spectacle qui, vocalement et musicalement, et de temps à autre scéniquement donne un reflet satisfaisant de l’œuvre.

Certes, la star de l’entreprise, Neil Shicoff, n’est-ce 15 novembre que l’ombre de lui-même, et la laryngite invoquée n’explique probablement pas tout. C’est plus probablement la fatigue accumulée au cours d’une longue et glorieuse carrière qui impose désormais les coupures abondantes, dans le duo avec Brogni ( scène 3 de l’acte IV ) et de la cabalette après le " tube " Rachel, quand du Seigneur. Or ces passages, à leur place, sont importants parce qu’ils font croître la tension alors qu’on s’approche vers le dénouement tragique ; leur absence nuit à cette montée au paroxysme qui fait partie des charmes de l’opéra en général et du grand opéra en particulier.

Ce n’est que dans les récitatifs et les ariosos que le ténor réussit encore à trouver l’éclat et l’énergie nécessaires. Au fur et à mesure de l’avancée de la représentation l’articulation mollit et le français perd de sa clarté. Préoccupé par ces difficultés, le chanteur n’est pas libre d’être complètement le grand interprète dramatique unanimement reconnu, et sous nos yeux c’est autant lui que son personnage qui souffrent. Défaillance passagère ? Ou limites d’un artiste ayant déjà beaucoup donné ? Le public de La Fenice s’est montré très chaleureux envers lui, mais cet hommage semblait un peu rétroactif.

Le rôle de Rachel devait être chanté par Iano Tamar, ancienne élève de l’Académie d’Osimo, qui remplace Susan Neves, victime d’une mauvaise chute pendant les répétitions . Mais l’Opéra de Genève l’ayant requise pour les répétitions de Tosca, ce 15 novembre il fut assuré par Francesca Scaini, de la seconde distribution . Heureuse surprise que la découverte de cette chanteuse aux moyens solides, avec un medium et des graves étoffés, des piani contrôlés et des aigus brillants sans stridence .( Certes la fluidité du français laisse à désirer, mais elle n’est pas la seule, en fait à part nos compatriotes Le Texier et Massis, seul Massimiliano Valleggi est quasiment irréprochable). Elle soutient l’aspect dramatique avec conviction et dans l’acte II son air de la scène 5, ses duos avec le pseudo-Samuel, leur trio avec Eleazar ont été de beaux moments d’hédonisme et d’émotion .

Samuel-Léopold est incarné par Bruce Sledge . Ce ténor américain déjà bien connu en Europe et qui se spécialise dans l’opéra de la première moitié du XIX° siècle a les qualités d’ une formation exigeante. Ainsi son français est d’une grande clarté ; seuls quelques sons nasalisés fugitifs ternissent-ils un peu la performance dans les premiers moments . La sérénade à l’acte I est un délice ; dans l’acte II l’ardeur amoureuse est perceptible dans la voix, et son affrontement avec Eleazar est un autre grand moment, où la sonorité pleine des aigus fait peut-être de l’ombre à son partenaire. Rôle après rôle, ce chanteur scrupuleux se confirme comme une valeur sûre.

Pour Brogni La Fenice a fait appel à un seigneur du chant qui fêtera bientôt ses vint-cinq ans de carrière, Roberto Scandiuzzi . Il n’éprouve aucune peine à atteindre les notes les plus graves d’un rôle qui lui permet aussi de chanter sur toute l’étendue de son registre et le son projeté est net et ferme. Tour à tour noble, autoritaire ou suppliant, il compose avec justesse ce personnage qui doit représenter l’idéal évangélique alors que son passé le ramène aux brûlures des douleurs humaines. L’anathème de l’acte III donne le frisson ; de quoi regretter encore plus que sa grande scène avec Eléazar, à l’acte IV, soit malheureusement amputée de plusieurs strophes, alors qu’elle va culminer .

Annick Massis, appréciée à La Fenice où elle est invitée pour la troisième fois, possède toutes les armes pour incarner Eudoxie ; il faut déplorer qu’on l’ait privée du premier face à face avec Rachel . Et fallait-il prendre à la lettre le fait qu’elle désigne Léopold comme son " époux " et lui donner une progéniture aussi nombreuse qu’encombrante ? Façon de donner du sens, ou d’en trouver, dira-t-on . Mais ces coupures, parfois sans conséquences sur la construction dramatique, entraînent parfois des soudures discutables. Ainsi l’acte II s’est terminé sur le départ de Léopold de la maison de l’orfèvre ; dans le livret, au début de l’acte III Eudoxie, seule dans ses appartements, se lance dans un monologue où elle libère son ivresse narcissique et son appétit de plaisir ; on l’imagine tournoyant sur elle-même avec exaltation.

Mais ici, c’est dans la salle à manger où Léopold, en rentrant au palais, s’est allongé pour dormir sur les chaises Louis XV que, les bras encombrés du dernier-né, qu’elle délivre son hymne au bonheur retrouvé. Ce qui devrait être un feu d’artifice s’englue dans la convention bourgeoise. On est loin du grand Opéra. Evidemment la chanteuse n’est pas en cause, qui exécute sans faillir échelles, trilles et piqués, il s’agit de la conception du metteur en scène.

Vincent Le Texier est un prévôt plein d’autorité ; si la voix tend à s’engorger lorsqu’elle est grossie cela ne dure pas longtemps . Dans la salle de La Fenice, il n’est pas nécessaire de forcer. Massimiliano Valleggi, baryton, est le suivant de Léopold, Albert ; sa voix sonne très bien et son élocution est si claire que je le croyais français.

Le chœur, qui est dans cette œuvre un véritable personnage, impose dès le début sa présence . Retentissant, précis, il est une force avec laquelle le pouvoir doit compter. Les phénomènes de foule s’y manifestent, s’y propagent, et les individus qui composent l’ensemble représentent par leurs attitudes les convictions collectives. De ce point de vue la mise en scène est efficace. Mais est-elle toujours pertinente ?

Dans cette production venue de Vienne, l’action est transposée dans les années 30, au moment de l’antisémitisme dominant en Allemagne.

On comprend la visée : souvenons-nous, ce n’est pas si lointain. Les costumes du choeur évoquent d’ailleurs les tenues folkloriques en usage en Bavière. Ce peuple prêt au meurtre nous rappelle notre humaine condition. Mais le livret est rempli de références à une époque, à des événements historiques, à une forme de gouvernement bien précise, dont cette adaptation fait bon marché. Or n’est-ce pas constitutif du grand opéra français, que ce contexte historique à respecter puisqu’il fournit la matière aux tableaux à grand spectacle ?

Dans la version proposée, pour le grand spectacle, on reste sur sa faim. Le rideau se lève sur une sorte de façade en fer et plexiglas évoquant vaguement une serre, derrière laquelle se devinent des formes humaines : c’est la cathédrale de Constance et les fidèles rassemblés. Sur cette même façade une porte dérobée livre accès à la boutique et aux appartements d’Eléazar ; Le dispositif est économique, il évite la dispersion, mais illustre-t-il clairement la situation ? Lorsque ce dispositif disparaît, on découvre un grand plan très incliné en oblique de cour à jardin, délimitant ainsi deux espaces, le haut et le bas, le clair et l’obscur, celui des Chrétiens et celui des Israélites. Sur la partie supérieure ou bien une table au-dessus de laquelle pend un immense lustre ou bien un couvercle de bénitier figurent le siège du pouvoir temporel ou celui du pouvoir spirituel.

Ces accessoires créent-ils l’enchantement ? La partie inférieure est le lieu indistinct du travail et de la vie collective dans la maison d’Eléazar ; au lustre étincelant du palais répond la modestie des chandelles. Ce dualisme est efficace, renforcé par l’opposition du blanc et du noir, mais certains choix restent problématiques : pourquoi Eudoxie ne va-t-elle pas chez Eléazar choisir le présent ? Pourquoi renoncer à l’aubaine du suspense que cette visite crée puisqu’à ce moment Léopold-Samuel est dans l’atelier de l’orfèvre ? Ces décisions simplifient mais aussi appauvrissent le contenu émotionnel.

Sans doute le goût a-t-il changé, sans doute sommes-nous blasés et n’avons-nous plus la capacité d’émerveillement de nos trisaïeux, mais n’est-il pas vrai aussi que si l’on va voir un grand opéra, c’est que l’on est prêt à jouer le jeu ? Ce n’était visiblement pas le propos du metteur en scène, qui, au paroxysme de l’horreur, lorsqu’ Eléazar perpètre sa vengeance en révélant à Brogni que Rachel était sa fille trop tard pour que celui-ci puisse la sauver, fait surgir des figurants enveloppés dans des losanges de feutre rouge censés représenter les flammes du bûcher .Quand on devrait frémir, on ricane .On peut le regretter .

Toutes les forces en présence étaient sous l’autorité de Frédéric Chaslin . L’ouverture donna quelque souci, non du côté de l’orchestre, qui semblait bien investi et prendre plaisir à faire sonner cette musique si bien conçue pour l’effet, mais d’une direction sans relief, faisant entendre une musique académique où l’on aurait voulu des contrastes plus marqués et davantage de souffle . Le premier acte alla son chemin, mais ce n’est qu’après le premier entracte que les deuxième et troisième actes, liés, trouvèrent l’élan et le rythme qui rendaient justice à Halévy . Il en fut ainsi jusqu’à la fin et le chef prit sa part des applaudissements chaleureux d’un public plutôt réservé durant la représentation.

Au total, donc, et malgré des insuffisances, une soirée qui, pour ses bons moments, valait bien d’aller à Venise.

Maurice Salles

Note : Le compte-rendu ne serait pas complet si nous ne signalions la forme choisie pour protester contre les projets du gouvernement italien de réduire drastiquement les subventions à la Culture . Avant le spectacle, les choristes déjà en tenue " bavaroise " se sont alignés devant le rideau et ont entonné, soutenus par l’orchestre le " Va pensiero " ; brusquement, à la reprise, ils se sont interrompus tandis qu’une voix off rappelait que l’art lyrique est menacé. Ils sont alors sortis en silence sous des applaudissements nourris. Il ne s’agit pas de craintes vagues : il est à peu près acquis que si les mesures annoncées deviennent effectives Il crociato in Egitto passera à la trappe.

 

resmusica.com
21/11/2005

[Scène] Lyrique
La Juive à la Fenice
De la difficulté de monter le Grand Opéra
par Valéry Fleurquin

Nous avions assisté en juin dernier à Liège à une version des Huguenots réduite à 2 heures 30 de musique. En septembre nous avons entendu à Vienne un Guillaume Tell dépassant légèrement les 3 heures. L’admirateur de Grand Opéra est pris entre la joie de se voir proposer une œuvre rarement jouée et la (relative) déception devant la version tronquée qu’il entendra finalement. Certes, même à sa création au XIXe siècle l’œuvre n’était pas donnée dans sa version intégrale et la longueur fluctuait en fonction des répétitions, des ajouts ou suppressions de dernière minute.

On peut comprendre qu’il faille trouver un compromis entre " tout-ce-que-le-compositeur-a-écrit " (et n’a pas forcément entendu de son vivant) et une version trop allégée. Entendre un Don Carlos archi-complet, récupérant même des passages abandonnés par Verdi (Vienne 2004 et 2005) peut sembler bien long pour le spectateur moyen (ce dernier mot n’est pas péjoratif).

C’est donc une version " coupée " que nous avons vue à Venise, très exactement celle que tout mélomane peut voir sur le DVD pris sur le vif au Staatsoper avec Neil Shicoff dans le rôle d’Eléazar. "Allégée", mais frôlant les 3 heures de musique si l’on enlève les deux entractes. C’est d’ailleurs la production viennoise que La Fenice a empruntée. On retrouve donc une scène divisée en deux : le premier plan est le monde du juif Eléazar, sombre et bas. Le deuxième plan est surélevé et incliné, bénéficiant d’une lumière vive et blanche. La mise en scène, à défaut d’être originale, a le mérite d’être bien lisible : le milieu princier vit " en haut " dans la lumière ; le juif se terre dans les bas-fonds. Le spectateur autrichien de 1998 (date de cette production) était sans doute plus sensible aux allusions politiques à son pays que le spectateur vénitien de 2005.

Sur le plan musical, saluons d’emblée le travail du chœur et de l’orchestre qui honorent leur partie avec un bon niveau général. Frédéric Chaslin dirige avec assurance : tempi adéquats, fougue, vision d’ensemble : du beau travail. A noter que l’ouverture retrouve sa vraie longueur. Nous avions entendu ce chef plus erratique en mars dernier dans I Puritani (Vienne toujours), passant du lento au presto ; nous avons donc d’autant plus de plaisir à reconnaître son talent à la tête de cette Juive.

Neil Shicoff est coutumier de l’annulation et c’est ce qui s’est produit ce 19 novembre. Il rend la tâche d’autant plus difficile à John Uhlenhopp, obligé d’assurer plusieurs représentations en si peu de jours. Il faut reconnaître que Neil Shicoff en fait parfois " des tonnes ", multipliant par deux la longueur de " Rachel, quand du seigneur ", cédant aux effets vocaux avec plus ou moins bon goût. Mais force est de reconnaître que nous le regrettons en entendant son remplaçant à la voix terne, sans ampleur. Pire, on a l’impression qu’il a pris les défauts de Shicoff (par exemple dans une ligne de chant morcelée ou dans sa prononciation du français) sans les qualités. Comme Shicoff ces dernières années, il coupe la fin de l’acte IV qui s’arrête un peu brutalement, après son air lent.

En revanche pour les autres voix d’hommes, la représentation n’offre que des satisfactions : bonne prestation de Vincent Le Texier ; excellent Léopold de Bruce Sledge à l’aise dans ce rôle difficile (que de contre-ut !) ; impressionnant Brogny de Roberto Scandiuzzi, voix au riche métal.

Iano Tamar est une artiste musicienne, nul ne peut en douter, malheureusement la voix ne suit plus les intentions. Dès qu’il s’agit de tenir des aigus, le souffle est raccourci et la justesse laisse à désirer. Malheureusement le rôle de Rachel comporte un certain nombre d’envolées lyriques et on ne peut pas dire que la soprano géorgienne soit à l’aise sur les cimes ou dans la langue de Scribe. Annick Massis, depuis ses premières Philine (héroïne du Mignon d’Ambroise Thomas), défend ce répertoire et ce type d’emploi avec charme et brio. Quel dommage qu’elle se voie privée de son boléro et du premier duo avec Rachel!

Appelons de nos vœux, dans un proche avenir, une Juive à Paris, ville de sa création. Mais une Juive qui tende vers l’intégrale, même si elle ne l’atteint pas…

 

mundoclasico.com
Venecia, 20.11.2005

La Fenice resurge del fuego, pero con la amenaza de la ignorancia

ANIBAL E. CETRÁNGOLO

Esta temporada de ópera y ballet de la Fenice, que se inaugura con La juive - que he presenciado el domingo 20 de noviembre - continuará con los siguientes títulos: La Walkyria de Wagner, I quatro rusteghi de Wolf-Ferrari, Il crociato in Egitto de Meyerbeer, La flauta mágica y Lucio Silla de Mozart, Luisa Miller de Verdi, Didone de Cavalli, L'Olimpiade de Galuppi y Romeo y Julieta de Procofiev.

Para nosotros, esta temporada comenzó con este drama provocado por la obtusidad del poder y que esta vez saltó desde la escena lírica que muestra la ciudad de Constanza a la vida cotidiana de los italianos de hoy. El orbe bien sabe cuánto del capital de este país reside en su pasado cultural, que según la UNESCO consiste en un porcentaje que supera ampliamente la mitad de patrimonio artístico del globo. Pues bien, Italia soporta un gobierno que desprecia totalmente tal riqueza y que en el momento de ajustar cinturones y ante su desesperación preelectoral ante las promesas incumplidas considera que la cultura (cosa de izquierdosos) es el área más prescindible.

En tales situaciones bien se sabe la ópera paga las primeras consecuencias: se habla de orgánicos musicales que serán eliminados y de temporadas que cortan títulos. La inicial protesta del Ministro de Bienes Culturales, el inefable Buttiglione (colega de Partido -el UDC- del Presidente de la Cámara de Diputados que hace días se rasgó las vestiduras después de haber votado una ley que pone en peligro la unidad nacional) ante el corte de presupuesto se mostró en toda su calculada hipocresía. En estos momentos los operadores musicales se están uniendo en protestas que revisten los entes líricos y los conservatorios de música. Para que se tenga una idea de la situación en que se vive, los operadores de la Fenice han difundido un comunicado en el cual se cita no a Karl Marx ni a Rosa Luxemburg sino al Presidente de la Republica, un solitario dique de honestidad, dignidad y sentido del Estado.

Así la función del domingo comenzó como las otras que se representaba La Juive, con el coro, ya vestido para la opera de Halèvy que cantó 'Va pensiero'. Las voces se interrumpieron para dar paso a una voz en off que dramáticamente nos sacaba de aquellas notas queridas para recordarnos que había que hacer algo si queríamos seguir disfrutando de cuanto amamos. La sala respondió como debía y del espíritu nostálgico de este cronista memorioso de la escena que da inicio en esta misma sala a Senso de Visconti, creyendo representar a la redaccion de Mundoclasico.com y a buena parte de sus lectores, salió un "¡Viva Verdi!", (es decir "¡Viva V.E.R.D.I.!") que reblandeces aparte, volvió a ser grito de rebelión.

No faltaron tampoco los asbúrgicos del imperio no sólo en el escenario de La Juive, si no también entre la platea. Esos pocos nos recordaron que este gobierno fue, desgraciadamente, votado democráticamente y que la batalla está también en lo cotidiano. También en las elecciones errar es humano, pero perseverar es diabólico. La sociedad italiana está reaccionando y las habas no se cuecen de igual manera en todas partes.

Aunque La Juive forma parte de ese grupo de títulos que se pone habitualmente en la cima de esa específica área del género lírico que es la grand opèra, por varios motivos los estudiosos dudan de que se la pueda poner como modelo de tal estructura. De todas maneras, si los títulos más socorridos de la especie, además de esta Juive, son Les huguenots y Le Prophète de Meyerbeer, es notable el que tanto Halèvy como el alemán, de origen judío, se ocupen de los conflictos provocados por los cristianos heterodoxos: usiítas, hugonotes y anabaptistas.

De todas maneras se lee muy bien en el texto de Alessandro Roccatagliati -que integra junto con un artículo del especialista Anselm Gerhard, el siempre imprescindible volumen cuidado por Michele Girardi- que el tema religioso y su conflictualidad poco interesaron a los críticos parisinos de 1835. Roccatagliati documenta cómo para los franceses, después de la revolución liberal de 1830 -en cuyas barricadas lucho Adolphe Nourrit, el primer 'Eleazar'-, ciertas conquistas se consideraban definitivas y que en tal peligroso optimismo se suponía que el integrismo religioso era cosa no peligrosa ya. La prensa escribe entonces sobre la puesta lujosa y los gastos excesivos que tal esfuerzo provocó.

Berlioz, cuya vida profesional fue tan ardua, nunca tuvo relaciones cordiales con su exitoso colega quien, voluntariamente o no, le arrebataba ocasiones, pero de todas maneras no dejó de apreciar su arte en varios momentos y también Wagner, a pesar de su antisemitismo, estimaba tanto al músico de La Juive como a su libretista Scribe, de quien decía que se trataba de un buen poeta capaz de escribir un buen drama a condición que no lo destrozase Meyerbeer. En cambio Newman cuenta que Heine decía que León Halèvy, hermano del músico y conocido arqueólogo, era tan aburrido como si Fromental lo hubiese compuesto.

En aquella empresa que llevó a escena La juive tuvieron no poca importancia los artistas de canto de 1835 y, por motivos diferentes, han pasado a la historia de la música. El tenor Nourrit, por su lado, que como se vió no estaba falto de coraje asumió un rol, el de 'Eleazar', que se había pensado inicialmente, siguiendo la tradición de los personajes paternos, para voz grave. Nourrit intervino activamente en la génesis del espectáculo, y a él se debe el consejo a los autores -desde el primer momento- para la inclusión del momento más celebre de la opera, el aria 'Rachel, quand du Seigneur', pero parece que también mucho más que eso. La soprano del caso, en cambio, fue una artista de características excepcionalmente novedosas para su época. Su voz era redonda y lo suficientemente incisiva como para distinguirse sin dificultad en los tutti. Se llamaba Cornélie Falcón, y su apellido designó desde entonces un tipo específico de soprano. La Falcón ,que en el libre deporte de las conjeturas que me permite la falta de documento audible, se me ocurre muy dotada naturalmente y con gran temperamento, pero sin una técnica que le permitiera preservar su salud vocal, ya que su carrera duro solo cinco años, enmudeciendo en medio de un espectáculo.

La Juive es obra que, ya sea por su pasado o por su futuro, nos resulta amiga. Encontramos el motivo del martillo de Maestros Cantores, Trovatore y de la Tetralogía. Y después, cuando aparece 'Eleazar' sorprendiendo la fuga de los jóvenes amantes, 'Où courrez-vous?', ¿quién no recuerda a Aída y "le foreste imbalsamate"? O en el lamento por el sacrificio de la joven heroína 'Mourir, mourir si jeune!' de 'Brogni', el 'Morir! sì pura e bella!' de 'Radamés' o incluso de Traviata ('Gran Dio! morir si' giovane').

Pero, más allá de influencias típicas del genero, es inevitable otra asociación en torno al coup de thèatre final, donde una falsa madre o un falso padre revelan al barítono malvado, en un acto fatal de venganza, que su víctima es su pariente: aquí 'Eleazar' dice a 'Brogni' que 'Raquel' es su hija como 'Azucena' anuncia al 'Conde de Luna' que 'Manrico' es su hermano. Siempre, por supuesto, demasiado tarde. Gerhard sugiere una explicación no casual, recordando que Antonio García Gutiérrez, quien al año siguiente escribiría el texto que sería fuente de Il Trovatore verdiano, en 1835 vivía en Paris. Sin duda no son casuales tantos rasgos de Cherubini como muestra su alumno Halèvy en esta ópera. ¡Tantos!

Pero para recurrir a algo que estoy seguro de que mi interlocutor tiene a mano, le aconsejo que interrumpa esta lectura y escuche otra vez a Callas (cualquier pretexto es bueno) en Medea y se concentre en los gestos de la orquesta antes de 'Nemici senza cor', pues bien, allí está toda la fantástica escena entre 'Rachel' y 'Eudoxia'.

Esta versión que muestra por primera vez este título en La Fenice, en su lengua original, fue objeto de otra actualización temporal por parte de la dirección escénica. La acción pasó de la ciudad de Constanza en 1414, que prevée el libreto, a la Baviera nazi. La cosa no es nueva y esta vez la operación fue realizada con gran sobriedad y respeto total al texto, y de manera no sólo pertinente sino que, diría, necesaria. De esta manera la regie de Günter Krämer y la dirección musical de Frédéric Chaslin, con gesto seguro, han dado una común solidez de equipo, cada cual en lo suyo, a este numeroso grupo de artistas. Creo que esto es lo mejor que se puede decir del espectáculo: fue tan eficaz en su totalidad que las variantes individuales, dentro de ese nivel del espectáculo, que fue altísimo, son secundarias.

Volviendo al párrafo inicial, sea dicho enseguida que el trabajo de esos excelentes profesionales visitantes fue posible gracias a las estructuras musicales, y no sólo de este teatro, que son el verdadero capital de La Fenice y que es cuanto ahora peligra: un teatro en tiempos buenos siempre puede contratar al divo del momento, lo otro es irrecuperable.

La acción comienza con un gran panel transparente que permite el juego entre un delante -lo íntimo- y un detrás -la masa en la catedral. Se sigue con otra propuesta igualmente decidida: un fuerte plano oblicuo separó un arriba del poder y un debajo del sometimiento. Los judíos de negro y los cristianos de blanco, lo que ayudó también para vestir la ambigüedad del aristocrático 'Leopold', que se hace pasar por judío. El rojo fue dejado para el 'Cardenal Brogni', para la escena final de los encapuchados y la bandera austriaca.

La cárcel de 'Rachel', cerniéndose sobre la desesperación de la engañada princesa cristiana, se sitúa coherentemente en la parte superior. Como se ve, la coherencia fue la marca de este espectáculo, tanto en lo grande como en el detalle. A ella se unió la meticulosidad de la marcación individual y este es el signo más evidente de un trabajo serio: demasiado a menudo los regisseurs pretenden lucirse solamente con el movimiento de las masas.

El producto que fue presentado y que con algunos cortes (como la pantomima con guerra de moros y cristianos y el rescate de damas en un castillo encantado) hemos presenciado, convence siempre más que La juive, una ópera que debe formar parte de aquellos títulos del repertorio operístico más habituales, sobre todo en función de esa fusión de diferentes elementos que confluyen en lo dramático musical. No siempre la música es excelsa y a veces los recursos -¡tantos unísonos!- son elementales, pero nunca decae la atención y la eficacia en lo especifico, que es el teatro musical, es completa.

Esta afirmación me permite pasar al cantante que mejor se ajusta, en sus virtudes y defectos, a las características de este texto: el tenor que cantó 'Eleazar': John Uhlenhopp. De él se anunció antes del espectáculo que el día anterior había reemplazado en rol al celebre Neil Shicoff, enfermo. Descuentos aparte, creo que lo que se escuchó no fue excelso. Una versión exclusivamente en audio de su trabajo no sería memorable, sobre todo en la primera parte, y se me ocurre que exageró en masoquismo imitando a Caruso quien, para mejor interpretar el rol, calzó zapatos de un número más chico. Sin embargo, Uhlenhopp mejoró mucho en la segunda parte -tal vez había economizado recursos hasta entonces- y llegó a mostrar discretamente los hermosos momentos de su rol. El severo comentario que antecede sería empero totalmente parcial si no se conjugase con lo teatral: Uhlenhopp, en la complejidad de su trabajo, resultó un 'Eleazar' no sólo convincente, sino verdaderamente emocionante en el aria famosa de la ópera. Excelente, en cambio, también desde lo vocal, fue la 'Rachel' de Francesca Scaini. El rol, que en versiones italianas se adjudica a una mezzo, presentó una voz redonda, de vieja escuela y una actuación de primerísimo orden que mostró con audacia todos los matices, desde la pasión amorosa a la mordaz ironía. Riccardo Zanellato fue el 'Cardenal Jean-François de Brogni'. Su voz voluminosa, llena y de peso le supuso una comprensible dificultad en los aspectos más virtuosos de su parte. La invasión tenoril realizada por Nourrit a la parte prevista originalmente para bajo hace que el pobre 'Leopold', otro tenor, tenga que volar en su parte a zonas vertiginosamente agudas. En esta versión el rol fue cantado por Giovanni Botta, quien fue muy solvente en un rol tan delicado que lo expone a la crítica más que a sus colegas en esos staccati que no siempre fueron precisos. El cantante fue también un buen actor, más en el gesto que con su canto, a veces más dependiente del sonido individual, que por la elasticidad de la frase. Se me ocurre que este repertorio puede serle favorable, pero así como Manzoni para mejorar su lengua decidió lavar sus paños en el Arno, Botta tendría que sumergir su fonética francesa en el Sena, en el Loira, el Garona y en sus respectivos afluentes. Daniela Bruera fue 'Eudoxie', una parte de soprano ligera que es fiel a las convenciones del género (flauta incluida) y que, como todas esas señoras, sobre todo en el repertorio francés, muestra su excitación vocal en las zonas más agudas del registro ante la visión de las joyas que aquí no faltan, ya que Eleazar es...¡orfebre! El trabajo de esta artista fue muy digno en todo sentido, aunque su emisión en el centro es a veces áspera y el temperamento no llegó a la burbuja triunfal que exigía en algún momento su tipo vocal, aun en una ópera de ambiente tan denso. Fueron excelentes el 'Ruggiero' de Vincenzo Taormina y el 'Albert' de Massimiliano Valleggi. Dionigi D'Ostuni, Antonio Casagrande y Claudio Zancopè interpretaron con solvencia los restantes roles.

El coro fue preciso y homogéneo. La orquesta fue un ágil elemento que sirvió bien a la parte teatral, que no se vió alterada por algunas dificultades de conjunto en los pasajes más veloces de los arcos o por las dificultades ocasionales en los metales graves.