IL GAZZETTINO
Venerdì, 24 febbraio 2006

L’opera di Ermanno Wolf-Ferrari torna nel teatro veneziano
I quatro rusteghi apre il Carnevale della Fenice

Venezia. Forse Ermanno Wolf-Ferrari, formatosi a Monaco, è stato solo casualmente un veneziano. Nei "Quatro Rusteghi " da Goldoni, il compositore costruisce il proprio pensiero musicale sull'operetta e sulla commedia romantica, con uno sguardo anche allo Humperdinck dell'"Hansel e Gretel" per quanto riguarda la mirabile orchestrazione. C'è poi a tratti una miniaturizzazione dei "Maestri cantori" wagneriani, che si intreccia con la ben nota recitazione umoristica desunta dal "Falstaff". Nel 1906 Wolf-Ferrari, mentre rincorreva il mito romantico di Mozart, dava vita ad uno dei primi esempi di neoclassicismo novecentesco in presa diretta, senza schermi intellettuali, che di lì a qualche anno si sarebbe ritrovato nel settecentismo nostalgico di Richard Strauss.

Goldoni, peraltro, non aveva ancora interessato il mondo tedesco, che prediligeva il gusto fiabesco e antirealistico di Gozzi. Solo con Wolf-Ferrari Goldoni fu accolto nel Pantheon della culturale monacense. Naturalmente i modi rustici, ruvidi e aspri della commedia originale sono addolciti dalla delicata vena sentimentale del compositore. Ne esce un acquarello tra elementari barcarole folcloriche e sofisticati intrecci. Lo stile recitativo, dalle abilissime frammentazioni fraseologiche, esalta la dialettale parola cantata e si risolve sapientemente, senza soluzione di continuità, in arie e pezzi di insieme: terzetti, quartetti, sestetti, e addirittura concertati a dieci voci realizzati con complessa, e talora persino ardita, naturalezza.

Purtroppo la grazia svagata e impertinente dei "Rusteghi " non è stata colta da Tiziano Severini, un direttore di formazione verista, che tende a enfatizzare il discorso e ad alterare le preziose miniature dell'opera. Nella distribuzione locale emergevano la Lucieta di Roberta Canzian, sfiorata da palpiti pucciniani e il Lunardo di Roberto Scandiuzzi, pregevole attore e buon dicitore. Ma le voci gravi degli altri Rusteghi , Franco Boscolo (Cancian) e soprattutto Nicolò Ceriani (Simon) e Dario Giorgiolè (Maurizio) apparivano come maschere sbiadite. Né erano credibili la Marina di Marta Franco e la Margarita di Cinzia De Mola. Giovanna Donadini caratterizza con disinvolta efficacia la figura di Felice; Filipeto è il buon tenore di grazia Emanuele D'Aguanno e Antonio Lemmo il garbato cicisbeo che canta in italiano.

Davide Livermore, tra i registi italiani emergenti dell'ultima generazione, ambienta la vicenda in un museo. Ad apertura nel sipario occhieggiano felicemente ritratti incorniciati "alla Longhi", che si trasformano, durante il primo quadro, in personaggi: una bella intuizione che forse andava sviluppata. L'impianto scenico di Santi Centineo evoca architetture novecentesche vicine al Bauhaus, mentre gli arredi e i costumi di Giusy Giustino sono settecenteschi: un modo per divaricare l'illusione teatrale tra modernità e riflessione sul passato, ridotto a stereotipo. Ma il continuo andirivieni delle pedane appesantisce l'azione e la recitazione è troppo oleografica, anche se deliberatamente tradizionale. Non sempre le macchine sceniche funzionano specie nella baruffa del second'atto, là dove, con effetto ronconiano, le pareti si alzano e acque cartacee invadono il palcoscenico. Ma il suggestivo progetto non è risolto e le soluzioni sono troppo caotiche (è evidente anche una carenza produttiva). Particolarmente riuscito è il terz'atto, in cui la commedia si carica di lividi riverberi, ironica evocazione del funereo gusto romantico. Alla fine una gondola con dieci personaggi è bloccata sul fondo del palcoscenico mentre un giapponese la fotografa: evidente allusione alla Venezia invasa dai turisti. In breve molte idee, che andrebbero ulteriormente coordinate e approfondite.

Fin troppo prudente l'annuncio della Sovrintendenza di considerare la recita, per il black out di martedì, come una prova generale, con la proposta di rimborsare del sessanta per cento il costo dei biglietti. In realtà si è trattato di una normale produzione teatrale, con molte ombre e alcune luci.

Comunque il pubblico, che gremiva la Fenice, si è divertito e ha accolto i "Rusteghi " con caldissimo successo.

Mario Messinis

 

IL GIORNALE DI VICENZA
lunedì 27 febbraio 2006

LIRICA
Il capolavoro di Wolf-Ferrari da Goldoni alla Fenice in un’esecuzione non troppo brillante
"Rusteghi" in stile neoclassico

di Cesare Galla
inviato a Venezia

A un secolo dalla prima rappresentazione (Monaco, marzo 1906), I Quatro Rusteghi di Ermanno Wolf-Ferrari conservano un’accattivante vivacità. Il compositore, veneziano per parte di madre, definisce nel suo capolavoro un teatro musicale di neoclassica fragranza - tutto sommato in anticipo rispetto ai tempi in cui questo stile avrebbe informato di sé tutta la musica europea, un quindicennio più tardi.

La commedia di Goldoni viene percorsa con amorevole attenzione e fedeltà soprattutto ai suoi umori più estroversi e alla musicalità del suo linguaggio. Per farlo, l’autore mette a punto un "canto di conversazione" di particolare freschezza ed efficacia, dagli intarsi preziosi e virtuosistici quando numerosi sono i personaggi in scena, ma senza mai rinunciare alla suadente eleganza di una vena melodica che impone alcuni motivi quasi come la chiave di volta dell’intera operazione.

Il modello stilistico è settecentesco, mozartiano, nell’aspirazione alla compiuta finitura formale in cui fluiscono, superate, le forme chiuse della tradizione, così come nella trasparenza dei colori orchestrali, nella lieve e sorvegliata eleganza. Eppure, non meno evidente è la coscienza da parte di Wolf-Ferrari della linea dettata dall’ultimo Verdi con Falstaff, così come addirittura la sua presa d’atto della lezione wagneriana. Il piccolo miracolo di quest’opera è dato dal fatto che una simile congerie di motivazioni stilistiche porta in realtà a un lavoro di evidente unità espressiva, capace di definire una "modernità" appartata eppure non rinunciataria, capace di conservare un piccolo ma non insignificante spazio nel repertorio anche oggi.

A Venezia, I Quatro Rusteghi sono stati proposti nei giorni scorsi alla Fenice sia come omaggio al centenario che come contributo alle programmazioni di Carnevale, riscuotendo un vivissimo successo, sicuramente dovuto all’opera, forse non così entusiasticamente ai suoi interpreti, visto che l’edizione è risultata nel complesso piuttosto appannata musicalmente, e non del tutto risolta scenicamente.

Il direttore Tiziano Severini ha scelto una linea interpretativa lontana dalla trasparenza, dalla leggerezza che dovrebbe animare la commedia nella sottigliezza del fraseggio, nello smalto dei colori, nella misura del rapporto fra canto e orchestra. Rusteghi massicci e poco estroversi, in cui anche la vena giocosa diventa un faticoso esercizio; vicini a uno stile tardo-romantico spinto a tratti perfino su un versante quasi veristico, da cui Wolf-Ferrari in realtà prende decisamente le distanze.

La compagnia richiede una decina di cantanti capaci di esprimere l’omogeneità e l’incisività del grande gioco d’insieme di questa commedia, senza protagonismi particolari ma con la necessità di saldi mezzi vocali e di accorta linea stilistica. Obiettivo non raggiunto per l’evanescente apporto delle voci gravi maschili (fra i "Rusteghi" solo Roberto Scandiuzzi si è proposto con trascinante vena ironica e buona sostanza vocale come Lunardo) e per la diseguale efficacia di quelle femminili. Se la Marina di Marta Franco è parsa nitida ed elegante nella linea melodica, troppo spinta nel fraseggio e di timbro non particolarmente accattivante è risultata Giovanna Donadini nei panni di Felice, mentre Cinzia Di Mola è stata una Margarita incolore, e Roberta Canzian una Lucieta corretta e un po’ spenta. A posto le voci tenorili di Emanuele D’Aguanno (Filipeto) e Antonio Lemmo (conte Riccardo).

Lo spettacolo ideato da Davide Livermore (scene di Santi Centineo e costumi di Giusy Giustino) immagina che la commedia si svolga in una sorta di museo veneziano attraversato di tanto in tanto da turisti del giorno d’oggi, con i personaggi che prendono vita "scendendo" dai quadri appesi alle pareti. Soluzione fantasiosa ma realizzata con qualche fatica attraverso un gioco di pedane scorrevoli, e soprattutto poco attenta all’inesauribile gioco di conversazione che anima l’opera esattamente come la commedia goldoniana, e che qui è reso con la necessaria trascinante vivacità un po’ a intermittenza, davvero bene forse solo nel terz’atto.

 

Il giornale della musica
Venezia, Gran Teatro La Fenice, 1 marzo 2006

I raffinati rusteghi di Livermore

In tempo di carnevale la Fenice, con cadenza abbastanza regolare dal secondo dopoguerra, ripropone "I quatro rusteghi", impertinente e aggraziato lavoro del veneziano a metà Wolf-Ferrari. Un lavoro che si snoda tra sofisticati intrecci, sospiri, borborigmi, interiezioni, imprecazioni esilaranti, elementari barcarole folcloriche, esaltando il vernacolo della parola cantata accomodata da Pizzolato da un precedente adattamento di Luigi Sugana desunto dalla celebre pièce goldoniana, senza soluzione di continuità, in uno scorrere di arie, terzetti, quintetti e concertati a dieci.

Sotto i nomi da farsa di Lunardo, Maurizio da le Strope, Simon Maroele e Cançian Tartuffola e del gruppo di donne furbette, posti in due blocchi contrapposti di voci, la commedia incanta ancor oggi. Davide Livermore ambienta il lavoro in una sorta di galleria Querini Stampalia, dove sono esposti ritratti e interni della vita privata veneziana: dame in dilatate "andriennes", "omeni" in velada, baùte ambigue. Una galleria museale visitata da turisti giapponesi, da una studentessa, da una donna delle pulizie dei nostri giorni secondo un gioco di ritratti da cui si vivificano le figure antiche che emergono come figure bidimensionali grazie a giochi computerizzati continuando a baruffare. Alla fine una gondola con tutti i personaggi chiude il lieto fine mentre un giapponese la fotografa e la incornicia, un'allusione alla Venezia attuale invasa dai turisti.

Apprezzabile l'impianto scenico di Santi Centineo e belli i costumi di Giusy Giustino. Severini coglie le sfumature della partitura e la compagnia di canto dà accento ai personaggi. Lodevoli la torrenziale Felice di Giovanna Donadini e il Lunardo di Roberto Scandiuzzi.

Applausi scroscianti.

Maria GIRARDI

 

Operaclick.com
28 Febbraio 2006

Venezia, Teatro La Fenice
Ermanno Wolf-Ferrari: I quatro rusteghi

Prima di recensire la "prima" de "I quatro rusteghi" andata in scena lo scorso mercoledì al Teatro La Fenice, corre l’obbligo di premettere che quella cui abbiamo assistito è in realtà stata la prova generale dello spettacolo. Un improvviso guasto all’impianto elettrico del teatro non ha permesso l’effettuazione della "generale", con conseguenti carenze nel puntamento delle luci, di aggiustamenti della scenografia, di rifinitura dell’orchestra e di assestamento delle voci. E’ encomiabile davvero che la Direzione abbia deciso di andare comunque in scena, per non penalizzare il pubblico con una cancellazione, ed il pubblico ha compreso ed apprezzato. Ciò detto possiamo dire di aver assistito ad uno spettacolo che, quando troverà la sua piena realizzazione nelle recite successive, ci è parso più che piacevole.

E’ da lodare la scelta del La Fenice di allestire, in occasione del Carnevale, un’opera squisitamente veneziana, di farlo come celebrazione del centenario della sua prima rappresentazione, avvenuta a Monaco nel 1906, e di affidarne i ruoli principali a cantanti veneziani o veneti.

Ciò che colpisce ne "I quatro rusteghi" è, musicalmente parlando, il costante richiamo al passato, il gusto per la "citazione", da Cimarosa a Rossini, dal Verdi del "Falstaff" al tardo Romanticismo tedesco, il tutto a sottolineare l’amore che Wolf-Ferrari manifestò sempre per la tradizione del passato: emblematici, a questo proposito, le scene d’insieme degli uomini, tanto vicine all’estremo Verdi, il finale primo, omaggio al "Barbiere" e all’ "Italiana", gli interludi orchestrali che riecheggiano, a tratti, l’opera buffa napoletana e la musica popolare veneziana. Alla musica si sposa un libretto che si preoccupa solo di rendere cantabile la commedia di Goldoni, creandone una pressoché perfetta trasposizione da prosa in "commedia musicale".

"I quatro rusteghi" sono dunque un delizioso omaggio al passato, offerto alla propria città da un compositore un po’ nostalgico e diffidente delle novità che si andavano affermando nel panorama musicale a lui contemporaneo.

Davide Livermore allestisce uno spettacolo piacevolissimo ed intelligente, ambientando l’azione in un museo, ai giorni nostri; turisti giapponesi, omnifotografanti, immortalano con le loro macchine fotografiche i ritratti dei protagonisti, che, richiamati in vita dall’interesse del pubblico, escono dalle tele per dar vita all’azione, ritornando poi nelle rispettive cornici al termine dei loro interventi. L’idea è semplice ed efficace, ed il gioco riesce anche, o forse soprattutto, grazie al sofisticato impianto scenico multimediale e funzionalissimo realizzato da Santi Centineo. Forse avremmo amato movimenti un po’ meno stereotipati dei personaggi e alcune gigionate potevano essere risparmiate, ma in fondo qualche "caccola" non ci stava poi male. Belli i costumi, ricchi quanto basta, di Giusy Giustino.

Alterne vicende, come di consueto, sul versante musicale.

Tiziano Severini letteralmente "coccola" la partitura, offrendo una concertazione attenta ad estrarre tutta le raffinatezze melodiche in essa contenute. La direzione è vellutata, l’equilibrio tra buca e palcoscenico è più che buono.

Roberto Scandiuzzi è un Sior Lunardo da manuale; il suo registro grave, quello che nel suo ruolo trova l’impiego e l’impegno maggiore, è sontuoso, rotondo, sicuro. A merito del basso trevigiano vanno ascritte anche grande adesione al personaggio e le sue ormai note capacità attoriali. Bene la giovane Roberta Canzian, piacevolissima e ben timbrata voce di di soprano leggero, la quale è una Lucieta deliziosa nella sua freschezza. Davvero più che positiva la sua prova. Credibilissimo il Filipeto di Emanuele D’Aguanno, che ci pare migliorare ad ogni ascolto; ottima la sua presenza scenica. Prove positive hanno offerto gli altri tre "rusteghi", ovvero Nicolò Cerini, Simone di bello squillo, Giovanni Tarasconi, un Cancan rassegnato e bonario e Dario Giorgelè, Maurizio querulo quanto basta. Cinzia De Mola, che ha dalla sua un registro grave di tutto rispetto e dei centri più che posto, è stata una Siora Margarita scenicamente un po’ scomposta, forse troppo "agitata"; siamo convinti che nelle recite successive a quella cui noi abbiamo assistito, il personaggio avrà ritrovato maggior compostezza. La Siora Felice di Giovanna Donadini ha una verve tutta veneziana; qualche menda vocale, segnatamente una certa difficoltà di appoggio, soprattutto in acuto, e più che giustificabile dal fatto che il soprano sarà mamma tra pochi mesi. Non convincente del tutto la prova di Marta Franco, della quale si nota l’impostazione essenzialmente barocca della voce, che appare a tratti un po’ fuori posto nel contesto. Speriamo di poterla presto apprezzare in un repertorio a lei più consono. Una meritata menzione anche ad Antonio Lemmo, delizioso Conte Riccardo, e a Manuela Marchetto, brava nella parte della serva di Marina.

Alla fine applausi scroscianti e meritati per tutti, con ovazioni a Scandiuzzi, alla Donadini ed a Livermore.

Alessandro Cammarano