CORRIERE DELLA SERA
martedì 4 aprile 2006

Da Guinnes dei primati l'eccellente allestimento di Robert Carsen della Tetralogia con Markus Stenz sul podio
Il "Ring" di Wagner in 36 ore
Maratona lirica a Colonia: cena e massaggi rilassanti a teatro per il pubblico

LEFT LEFT IN SCENA. Qui a fianco, Thomas Mohr, che interpreta Sigmund, il padre di Siegfried, in una scena del secondo atto de "La Valchiria". Nella foto a sinistra, le tre ondine ne "L'Oro del Reno" che apre la Tetralogia wagneriana allestita da Robert Carsen a Colonia (Foto Klaus Lefebvre)

COLONIA – Si poteva acquistare il biglietto anche per un titolo soltanto ma una larghissima maggioranza del pubblico l’avventura l'ha voluta vivere per intero, da mezzogiorno di sabato slle 23.50 di domenica. Avventura faticosa, sfibrante per il fisico, ma esaltante emotivamente e rigenerante sul piano spirituale. L'operazione a Colonia l’han chiamata "Der Ring an zwei Tagen" (Il Ring in due giorni). Può anche darsi che non fosse la prima volta, Ma nessuno dei cicli memorabili dell’Anello del Nibelungo si è mai celebrato in così poco tempo, nemmeno a Bayreuth: 15 ore dl musica, che con gli intervalli e gli applausi arrivano a 18-20 nell'arco di 36 giri della lancetta delle ore. Un'avventura organizzata nei minimi dettagli, compresa la possibilità per il pubblico di ordinare pranzo o cena tra un intervallo e l'altro e persino una seduta di massaggi Tai Chi nel foyer, tra segmenti contigui della saga wagneriana. Un massacro per l’efficientissimo Gurzenich-Orchester e il direttore Markus Stenz, che d'altra parte si trova in quel punto della carriera nel quale poter già vantare sufficiente esperienza, ma ancora bastevoli energie fisico-nervose, per reggere una sfida del genere.

L'eccezionalità dell'avvenimento, in ogni caso, non consiste in questi numeri da Guinness dei primati, né nell’adesione cosi partecipe e motivata del pubblico (non un colpo di tosse), che pure fa pensare. Gli è che questo Ring degli anni Duemila si pone nella stessa zona d’eccellenza artistica che vantava l’edizione dl Boulez e Chéreau negli anni Ottanta o quella di Barenboim e Kupfer nei Novanta. E questa non è iperbole. Musica e messinscena dipanano infatti il filo epico della narrazione con la naturalezza delle cose semplici, sorretta però dalla consapevolezza del grado abissale di conoscenza dell’uomo e delle cose che sorregge l’universo di Wagner, non meno sconfinato di quelli di Dante o Mozart, o Goethe o Michelangelo.

Gli oltre 30 cantanti sono di livello con punte d’eccellenza. come nel caso dei Siegfried di Stefan Vinke in Siegfried e dl Albert Bonnema in Götterdämmerung. Bel suono, dominio del respiro formale e capacità di evidenziare e collegare tra loro la miriade di dettagli musicali: queste le principali qualità di Stenz e della sua orchestra.

Ma queste sono anche le qualità di Robert Carsen, il regista dell'allestimento (visto poche settimane fa anche a Venezia ma limitatamente alla tappa di Die Walküre). Non c’è un dettaglio fuori posto. Mai. Ed è un Ring tutto giocato sulla introspezione dell’umano, scevro da agganci all’iconografia classica del mito. Questa l'idea guida: non si tratta di una rappresentazione del mondo allo stato larvale, ma dopo che una sorta di cataclisma, di big bang finale, lo ha distrutto, lasciandovi tracce sgangherate della presenza umana.

Ecco perché il Reno è solo più un alveo vuoto, una discarica dove le Ondine si aggirano, le calze smagliate, come barboni in cerca di qualunque cosa; i Nani come iene, i Giganti come capi di una squadraccia di operai, la stirpe eletta dei Walsidi come eroi inermi e senza patria, mentre la ybris degli Dei è tutta nell'esigere l’edificazione, in tale valle di lacrime, d'una reggia in bello stile berlinese anni ’30 (volgare imitazione ne è un palazzo degli arricchiti Gibicunghi). Scene nude, splendide; costumi perfetti; luci magistrali. Non è nemmeno impietosa rappresentazione della decadenza: Carsen raffigura ciò che è oltre il decaduto. Alleggerendo qui e là la tregenda con la punta di ironia che ci vuole.

Enrico Girardi

I precedenti

  • KA Mountain di Wilson, 7 dì e 7 notti
  • Ouverture di Wilson, 24 ore, 1972
  • Faust di Stein, 21 ore, 2000
  • Medan Ting di Shi-Zheng, 18 ore, 1999
  • Ignorabimus di Ronconi, 12 ore, 1986
  • Atti di guerra di Ronconi, 11 ore, 2006
  • Orestiade di Peter Stein, oltre 9 ore, 1980
  • Mahabharata di Brook, 9 ore, 1986
  • Trilogia di Cecchi, 8 ore, 1999
  • Sihanouk di Mnouchkine, 8 ore, 1962
  • Fratelli e sorelle di Dodin, 7 ore, 1994
 

Amadeus
MAGGIO 2006

COLONIA Der Ring

Il Reno di Carsen è una discarica che riflette l’orrore del mondo

di Paolo Petazzi

L'Opera di Colonia ha proposto (credo per la prima volta nella storia) l'intero ciclo dell’Anello del Nibelungo di Wagner in due giorni, offrendo al pubblico accorso da tutta Europa l’1 e 2 aprile (ore 12 Rheingold, 17 Walküre, 10 Siegfried, 18 Götterdämmerung) una esperienza di rara intensità. che verrà ripetuta nel 2007 (10 e 11 marzo). Reggevano il tremendo impegno a un livello costantemente alto l’ottima Orchestra, il suo direttore musicale Markus Stenz e l’intero teatro, con compagnie per la massima parte soddisfacenti. Sono stati riproposti con impeccabile efficienza e con la massima concentrazione possibile quattro allestimenti realizzati a Colonia tra il 2000 e il 2003 (uno all’anno, poi regolarmente ripresi) con la regia di Robert Carsen, le scene e i costumi di Patrick Kinmoth, le luci di Manfred Voss.

La realizzazione in due giorni esalta la coerenza della concezione e i molti motivi di fascino di questo Ring. Con la minuziosa cura della recitazione e delle luci si impone la capacità di raccontare l’azione con gesti teatrali di sobria e intensa evidenza. Con momenti di alta poesia, con una diretta immediatezza ottenuta al prezzo di una semplificazione in rapporto alla complessità del mondo di Wagner. Assistiamo a conflitti brutali, proposti con grande efficacia in chiave attuale (con armi e divise novecentesche); ma è eliminata la dimensione mitica. La brutalità e l'orrore del mondo si riflettono, con insistita sensibilità ecologica, nella distruzione di ogni bellezza naturale.

La devastazione è avvenuta prima dell'inizio, e subito vediamo una folla frettolosa che passa senza sosta e getta rifiuti in una fumante discarica. Qui vivono le tre figlie del Reno, graziose, ma vestite da barbone, con calze smagliate e abitini malconci. Il Reno dunque appare come una discarica prima ancora dello sciagurato furto dell'oro. Quando invece la musica ci parla di un intatto mondo primigenio l’oro è dapprima un effetto di luce, poi Alberich compie il furto immergendo le mani in un pneumatico abbandonato ed estraendone direttamente un anello. E alla fine dell’Oro del Reno non c’è arcobaleno, né entrata trionfale nel Walhalla: un brindisi a lume di candela durante un trasloco, poi tutti si avviano verso la nevicata che si intravvede sul fondo, e che è predominante nella Walküre. Qui la casa di Hunding è un magazzino di armi, mentre il Walhalla del II atto è un salotto anni ’30 finalmente in ordine (ma destinato a progressive devastazioni nel corso del ciclo, finché ne riappaiono molti elementi in desolate cataste nella geniale soluzione della scena delle Norne). Brünnhilde e tutte le Walkirie prive di elmo, corazza e scudo, hanno un elegante abito di velluto devoré, scollato e senza maniche. Brünnhilde si addormenta in una pianeggiante distesa tra cadaveri (nel terzo atto del Siegfried ne ritroviamo solo le divise e gli elmetti, ed è scomparsa la neve). Mime abita in un rottame di roulotte, in mezzo ad altri rottami. La foresta è fatta di nudi tronchi d’alberi mozzati, senza rami né foglie, e l’incantesimo è evocato dalle sole luci, che in ogni momento del ciclo hanno un ruolo decisivo nel determinare cambiamenti di atmosfere. Soprattutto nella Götterdämmerung, dopo la magnifica scena delle Nome, certe semplificazioni di Carsen mostrano un poco la corda. Per eliminare la pira e il rogo fa adagiare il cadavere di Siegfried sulla scrivania di Gunther, poi l’addio di Brünnhilde è cantato davanti al sipario abbassato, infine un suggestivo insieme di focherelli sostituisce il rogo e il devastante incendio. Il Reno assente non può straripare, e Brünnhilde si avvia verso il fondo dove scompare, in una chiusa suggestivamente aperta, anche grazie alla rinuncia ad effetti spettacolari.

La rinuncia (o la semplificazione) è talvolta un limite; ma spesso un motivo di fortissima suggestione in questo ciclo wagneriano di Carsen, magnificamente valorizzato a Colonia dalla convergenza con l’interpretazione di Markus Stenz, carica di energia e tensione, che (come la regia) culminava forse nella Walküre e nel Siegfried; ma che appariva sempre di grande rilievo. Tra le voci che assicuravano il buon esito complessivo molte richiederebbero un commento non affrettato: il magnifico Siegmund di Thomas Mohr (affiancato da Kirsten Blanck), il Wotan di Albert Dohmen. il Siegfried di Stefan Vinke, cui nel Crepuscolo è succeduto con discreto esito Albert Bonnema. L’altro Wotan era Phillip Joll, nella parte di Brünnhilde la più impe-gnata era Jane Casselmann, cui dava il cambio nel Siegfried Barbara Schneider-Hofstetter. Eccellenti Martin Finke (Mime), Oskar Hillebrandt (Alberich), Dirsten Schweikart; ma molti altri meriterebbero menzione.

 

Deutschlandradio
03.04.2006

Wotan lässt die Muskeln spielen
Die Oper Köln wagt mit Wagners Ring-Tetralogie einen Kraftakt

Von Christoph Schmitz

Der Ring des Nibelungen ist der Titel eines "Bühnenfestspiels für drei Tage und einen Vorabend". So lautet die genaue Angabe von Richard Wagner. Köln wollte mehr und verkürzte die Aufführungszeit auf zwei Tage. Das Interesse an der Mammut-Veranstaltung war groß: 89 Prozent der Karten waren verkauft. Ein guinnessbuchverdächtiges Opern-Experiment.

Als die ersten Takte von Wagners "Walküre" am Samstag um 17 Uhr erklangen, da stand es im Bundesligaspiel Köln gegen München zwei zu zwei. So sollte das Spiel in der Allianz-Arena München auch ausgehen. Für Köln, den Tabellenletzten, war es ein Sieg. "Ein Highlight in einer tristen Zeiten" - kommentierte Köln-Trainer Latour.

Auch in der Kölner Opernspielstätte bahnte sich da schon ein Highlight an. Von 12 bis 14.30 Uhr war das "Rheingold" gespielt worden. Bis 22 Uhr würde die "Walküre" erklingen. Am Sonntag ab 10 folgte der "Siegfried", ab 18 Uhr die "Götterdämmerung". Rund 16 Stunden Musiktheater an zwei Tagen. Eine künsterlische, logistische und konditionelle Herausforderung, die bisher noch keine Oper anzunehmen gewagt hatte.

Der Normalfall sind fünf Tage, Meinigen schaffte es in vier, Erl in Tirol in drei Tagen. Dabei mag es um Event gehen, es geht aber auch um intensive Kunsterfahrung. Und das in einer Stadt wie Köln, die in Sachen Kultur, wie auch im Fußball, seit Jahren "triste Zeiten" durchlebt. Das Bühnenniveau ist in die zweite Liga abgestiegen, die städtische Kulturpolitik befindet sich in einem desolaten Zustand: Ewige Baugruben, wo einst Museen standen, Bauvorhaben, die den Dom als Weltkulturerbe gefährdeten, eine Kunstmesse- und Galerienstadt, der Berlin und junge Messen in London und Miami den Rang ablaufen.

Lichtblicke gibt es scheinbar nur, wenn sich an der öffentlichen Hand vorbei persönliches Engagement entfalten kann: Das Kölner Literaturfestival Litcologne ist dafür ein gutes Beispiel. Und auch der "Ring" an zwei Tagen. Denn in einer Oper, deren Kreativitätspool tarifvertraglich eingebunden ist, ist ein solches künstlerisches Projekt eigentlich nicht vorgesehen. Die Behäbigkeit des Systems ist sozusagen festgeschrieben. "Hier lieg ich, und besitz" - ruft im "Siegfried" das Ungeheuer Fafner aus der Höhle hervor, wo es träge den Nibelungenschatz hütet. Und Wotan selbst verstrickt sich in einem Vertragsnetz, das ihn lahm legt. So wäre auch der kühne "Ring"-Plan in Köln fast gescheitert. Technikchef Andreas Fischer:

Es waren intensive Verhandlungen mit dem Betriebsrat nötig.

Die Kölner "Ring"-Inszenierung des Kanadiers Robert Carsen ist in den vergangenen Jahren landesweit zurecht gelobt worden. Die radikale Öko-Deutung mit einem gleich zu Beginn verseuchten Rhein, die konsequente Schnee- und Kälte-Metaphorik und der Auszug der Götter aus und der Einzug der faschistischen Gibichungen in Walhall - das ist beste Regiekunst. Von jedem Regisseur werden die vier Teile immer als Einheit konzipiert, von Wagner sind sie als eine große Parabel vom Anfang und Ende der Welt, vom Einbruch der Historie in die Naturgeschichte gedacht.

Eine zyklische Aufführung fordert das Kunstwerk von sich aus. Den Ring an zwei Tagen zu sehen, ist darum wie einen Roman an einem Tag zu lesen oder vorgelesen zu bekommen. Die Kölner Oper unter dem Dirigat von Markus Stenz hat die lange Geschichte vom Aufstieg und Fall der Menschheit kraftvoll und erhellend vor Augen geführt.

Offenbar wollte Stenz mit seiner Ringschmiede-Kunst auch zeigen, dass er und sein Orchester, dessen Besetzung, wie die der Sängerrollen, von Oper zu Oper wechselten, einen solchen Kraftakt zu leisten in der Lage sind, und haben dabei etwas überkompensiert. Sie sind mitunter zu laut und zu grob im Ausdruck geworden, dass etwa Brünhildes Schlußgesang zu kippen drohte. Aber das rührte das großartige Gesamtkunstwerk der Kölner Opernspielfeld am vergangenen Wochenende nur wenig.

 

Koelnische Runschau
02.04.06

Kein bisschen müd' von aller Müh'

VON OLAF WEIDEN

KÖLN. "Du bist doch müd´ von aller Müh´!" Als Mime den Satz jetzt in Wagners „Ring an zwei Tagen" dem liegenden Siegfried ins Ohr säuselte, näherten sich Besucher und Musiker in der Kölner Oper bereits der zehnten Stunde im Sessel. Generalmusikdirektor Markus Stenz rammt wie Siegfried sein Schwert Nothung seinen Dirigierstab gen Bühnenhimmel, zügig in den Tempi, bewehrt mit kräftigen, pompösen Orchesterfarben.

Was eine simple formale Konzentration alles bewegen kann! Ganz ungewohnt war, dass diesmal auch vor den Büfett-Tischen internationales Flair herrschte. Die Gäste sprachen weniger Kölsch, dafür aber Italienisch, Französisch, Englisch und auswärtige Dialekte. Die internationale Wagnergemeinde hatte sich ohrenscheinlich von dieser Idee eines „Ring"-Marathons angezogen gefühlt, der am Samstag und Sonntag rund 16 Stunden Musik bot. Die Oper war bestens besetzt, auch von einigen jungen Wagemutigen.

Alles begann am Samstagmittag mit dem „Rheingold", ein Entree sozusagen von 150 Minuten im Kompaktdurchgang. Die Ouvertüre gelang als perfekter Operntusch, bevor die Rheintöchter in der Mülllandschaft am Meeresgrund den Alberich neckten, den Zwerg im Kniegang. Mit dem herrlichen Spieltenor Hubert Delamboye als Loge avancierte Oskar Hillebrand als Alberich zum Star des Vorspiels, er erntete bis zum Schluss als Konstante im Carsen-"Ring" die Bravi der stets frenetisch applaudierenden Fans. Neben den bezaubernden Flusstöchtern begeisterte Dalia Schaechter als Fricka. Tobias Koltun, Klavierstudent (19) an der Kölner Musikhochschule, hat schon in seiner Heimatstadt Aachen Wagneropern erlebt. Mit Fricka hat er jetzt mitgefiebert, er ließ sich mitreißen: „Die Inszenierung wirkt so natürlich und schlüssig, gar nicht aufgesetzt." Und obwohl er noch ganz frisch ist, bereitet er sich auf die folgende „Walküre" mit einem besonderen kostenfreien Angebot vor, das die Oper speziell zu diesem Marathon macht: eine halbe Stunde Tai Chi, ein asiatisches Edel-Aerobic für Geist und Seele, soll alle Sinne für die „Walküre" schärfen. Hier geht der Kölner Hausbass Dieter Schweikart in die zweite Runde. Am Mittag hatte er noch als Fafner einen Riesen erschlagen, jetzt salutiert er: „Hunding heißt der Wirt." Er wächst an seinem Gegner Siegmund (Thomas Moor) und Kirsten Blancks Sieglinde, die eine überragende Szene in Hundings Hütte abliefern. Wotan (Albert Dohmen) und Brünnhilde (Jayne Casselman) haben stimmlich alles zu bieten, nur was sie singen, das bleibt geheim. Tai Chi-Tobias: „Es ist schade, wenn der Text unverständlich ist. Das ermüdet dann!" Sein Mitstudent Raphael Blume (23) stimmt ihm zu: „Es gab Längen!" Denen darf man im Hause in den Pausen durch eine Massage entgegenwirken. Raphael, der selbst Gesang studiert, probiert die Wirkung aus. Doch „ich glaube, Bewegung und frische Luft bewirken mehr als fünf Minuten Massage." Auch dafür bleibt natürlich Zeit, die Pausen dauern rund 30 Minuten.

Abends haben sich die Studenten noch etwas gekocht und viel diskutiert. Früh morgens am Sonntag klingelt der Wecker; nach fünf Stunden Schlaf ruft unerbittlich „Siegfried". Doch die Stimmung ist gehoben. Tobias: „Man fühlt sich jetzt schon als eingeschworene Gemeinde, Wagner verbindet!" Siegfried, der junge und viel versprechende Tenor Stefan Vinke, agiert polternd im Zwiegespräch mit dem Bühnenprofi Martin Finke, einem ganz anderen, nämlich schrillen Zwerg Mime. Das geht auf. Raphael: „Das war glaubhaft besetzt, ein Siegfried aus dem Leben, mit Feuer und Wasser inszeniert, das kaufe ich ab!"

Wotan (Phillip Joll) schlägt mächtige Töne an, Dieter Schweikart zum Dritten lässt sich als böser Wurm endgültig beurlauben. Große Oper liefern Siegfried und Brünnhilde (Barbara Schneider-Hofstetter) in ihrem Liebesduett, besonders Brünnhilde überstrahlt schwerelos mit jugendlicher Kraft den fettesten Orchestersatz.

Keine Frage also, unsere jungen Musikfreunde sind vom Sog gepackt, die Dämmerung kann kommen, erst recht die „Götterdämmerung", die erst kurz vor Mitternacht endet. Wagner setzt - wie mancher Sport - unglaubliche Kräfte frei, anschließend Glücksgefühle, das erzeugt eine Art Sucht: Wiederholung am 10. und 11. März 2007.

 

Koelner Stadt Anzeiger
01.03.07

Eine erste Instanz

VON GERHARD BAUER

Der „Ring des Nibelungen" ist in der Kölner Oper geschmiedet, und die beiden letzten Stücke, „Siegfried" und „Götterdämmerung", bestätigten nachhaltig, was schon der Eingang mit „Rheingold" und „Walküre" gezeigt hatte: Generalmusikdirektor Markus Stenz ist eine erste Instanz für Richard Wagner. Stärker als im Gesang, deutlicher als auf der Bühne spielte sich das Drama im Orchester ab - eine elementare Folge von Bild, Sinn und Emotion.

Allerdings war nicht zu überhören, dass es immer wieder Stimmungs- und Spannungsabfälle gab, auch derbste spieltechnische Fehler. Der „Ring" kann dem Repertoirebetrieb halt nicht ohne Einbußen abgetrotzt werden, und vielleicht sollte man das Kolossalwerk wie zu Zeiten von Janowski und Conlon als Sonderkonzert des Gürzenich-Orchesters in der Philharmonie anbieten. Eine Steigerung von Leistungsdichte, Leistungsniveau und Leistungswollen wäre dadurch sicher.

Auch könnte eine - wie auch immer geartete - Mischfinanzierung ein Singen auf höherem Standard erzielen. Es war denn doch betrüblich, dass in „Siegfried" nur Martin Finke (Mime), ein Kölner Urgestein, und Insun Min (Waldvogel) rollendeckend operierten. Stefan Vinke (Siegfried) dürfte eine große Hoffnung für die Zukunft sein, Barbara Schneider-Hofstetter (Brünnhilde) entlud manch Loderndes, aber die Finalsteigerung des Hohen Paars zum „lachenden Tod" hin müsste doch viel enthusiastischer, inbrünstiger entwickelt werden. Die Partien Alberich, Wanderer, Fafner und Erda schließlich wirkten besetzungstechnisch unterversorgt.

In der - inszenatorisch mit einem neuen Schluss versehenen - „Götterdämmerung" fand demgegenüber in vielen Belangen wirklich großer, berührender Wagner-Gesang statt: in der gestalterischen Intensität und Intelligenz von Albert Bonnema (Siegfried), in der leuchtenden Kraft von Jayne Casselman (Brünnhilde), in der bedrückenden Dämonie des Leisen bei Philip Kang (Hagen), in der Präsenz von Regina Richter (Gutrune) und Laura Nykänen (Waltraute). Am Ende tobte das Haus wie einst beim Kölner „Ring" des Wieland Wagner, als da noch eine Birgit Nilsson sang.

Diese unverblümte Begeisterung sollte für die Intendanz der Kölner Oper Anlass sein, das unselige Vorhangverbot zwischen den Akten aufzuheben. Das Publikum liebt seine Künstler und will es ihnen auch zeigen, unmittelbar und unverzüglich. Und ein Manko noch: Die Beginn- und Schlusszeiten der einzelnen Akte sind im Programmheft falsch abgedruckt. So begann der zweite Akt der „Götterdämmerung" fünfzehn Minuten früher als annonciert, war dem Zu-spät-Kommen solcherart Tür und