LO SPETTACOLO nella Grecia barbarica di Grueber e Kiefer Monumentale, petrosa, lugubre "Elettra" alla Fenice. Si riprende l'affascinante spettacolo del San Carlo, andato in scena a Napoli quattro anni fa, di un germanesimo scabro. La regia è di Klaus Michael Grueber, la scenografia di Anselm Kiefer; quanto dire: uno dei protagonisti della regia tedesca e uno dei maggiori pittori di oggi che ama evocare miti arcaici o la devastante tragicità della storia moderna e contemporanea. Una reggia nuda, corrosa, barbarica, ma senza espliciti riferimenti a Micene, e tuttavia più vera dei simulacri greci. In uno spoglio cortile quadrangolare con aperture, come buchi neri, alle pareti, si svolge la soffocante vicenda. Le ancelle si muovono come speleologi con torce elettriche: i personaggi vivono tra luci accecanti o notturne. Il discorso narrativo ha un tono primordiale: un modo per ripensare alla severità della tragedia antica pur tra nevrosi e accensioni deliranti. Analoga la linea interpretativa di Eliahu Inbal tra espressionismo e "nuova oggettività", tra allucinazione e costruttivismo. Se in Mahler Inbal esalta una marzialità funebre e catastrofica, in "Elettra" tende a sottolineare gli aspetti lividi e convulsi, con una enorme differenziazione dei registri sinfonici. In definitiva il direttore israeliano accosta Strauss allo Schönberg di "Erwartung" (Attesa), composta nello stesso anno, il 1909, anche attraverso una magistrale analisi timbrico-dinamica. All'interno di un rigoroso decorso formale, Inbal individua demonismi e appelli lirici, esasperazioni drammatiche e capillarità strumentali, che accrescono il potere del suono. Una "Elettra" al di là del gusto floreale che condivide le tendenze estremistiche del tempo: Strauss come Schiele. Certo Strauss non aderisce totalmente all'avanguardia nonostante la esasperazione materica della partitura e la vicinanza a quanto avveniva a Vienna intorno al primo decennio del Novecento. C'è però l'"appagamento della dissonanza", come recupero tonale, di cui parla lo Schönberg teorico, piuttosto che una sistematica concezione "progressiva" del linguaggio. Le scelte linguistiche, anche radicali, nascono da occasioni teatrali: di qui un eclettismo che procede per antitesi, in cui musica avanzata e musica retrospettiva coesistono. Fondamentale il rapporto con Hofmannsthal, "il miglior poeta-librettista di tutti i tempi", secondo Serpa. Il dramma segue abbastanza fedelmente la struttura narrativa dell'"Elettra" di Sofocle, ma dalla classicità si trascorre ad un tagliente decadentismo, ad uno studio crudele della drammaturgia. Strauss a sua volta attribuisce all'estetismo perverso del poeta una visceralità prorompente, una tensione spasmodica. È uno dei massimi capolavori teatrali del Novecento, cresciuto sul tronco dell'Anello del Nibelungo di Wagner: la tecnica dei motivi conduttori è però a tratti decomposta, la declamazione prosciugata esplora le devastazioni dell'anima. Elettra è una Brunilde nevrotica, allucinata, sanguinaria. Ma due anni dopo l'apoteosi dell'"odio" e del "terrore", incarnata dal poderoso dialogo Elettra-Clitennestra, il poeta e il compositore ripenseranno alla Vienna di Maria Teresa sulle inflessioni del valzer romantico. Qualche osservazione avremmo da muovere alla gestualità quasi ottocentesca della protagonista, Gabriele Schnaut, che non sembrerebbe guidata da un regista della statura di Grueber. Peraltro la celebre cantante (chi non ricorda la sua Isotta di un decennio fa alla Fenice?), dopo l'invocazione ad Agamennone non controllata vocalmente, si è imposta nella recitazione drammatica di una toccante espressività. Elena Nebera è irresistibile nel canto patetico e chiarifica l'aspetto determinato del personaggio di Crisotemide che non è esangue come vorrebbe la tradizione esecutiva. Mette Ejsing tende a liricizzare la figura di Clitennestra devastata dall'insonnia e dalla paura. La regina esce da un mantello pietrificato (magnifica intuizione registica), guscio o corazza, simbolo del potere ormai perduto. Peter Edelmann propone una versione liederistica, quasi schumanniana, di Oreste, il fratello matricida e vendicatore. Kurt Azesberger, Egisto, è un raffinato tenore di stile. Ben coordinati il gruppo delle ancelle e i vari ruoli minori: l'orchestra della Fenice ha realizzato con vigile passione e autorevolezza tecnica la volontà del direttore. Applausi prolungati ed entusiastici, per un'opera difficile e poco rappresentata a Venezia: il Novecento storico è entrato ormai nelle predilezioni del pubblico. Esemplare, come al solito, il volume-programma, curiosa però la sistematica omissione, nella bibliografia, del nome di Mario Bortolotto, il nostro massimo studioso di Wagner e di Strauss. Mario Messinis | |
OPERA. Alla Fenice con Eliahu Inbal sul podio e buoni cantanti Cesare Galla
È questo, nel magnifico spettacolo di Klaus Michael Grüber (scene e costumi di Anselm Kiefer), lo scenario della più inquietante rivisitazione del formidabile e sconvolgente personaggio di Sofocle, quella pensata da Hugo von Hofmannsthal all'inizio del Novecento e nel giro di pochi anni "adottata" da Richard Strauss per uno dei suoi maggiori capolavori operistici, "Elektra" appunto (1909), in scena l'altra sera alla Fenice con clamoroso successo. Il poeta austriaco carica il mito sofocleo di una morbosità lancinante e malata. Non c'è più percorso verso una giustizia sublimata e catartica, per quanto violenta, ma immersione in un delirio nel quale il sangue diventa il fine e il senso stesso della vita, in un groviglio di pulsioni complesse e ambigue, che illuminano il rapporto tra la figlia e il padre ucciso e tra questa e la madre assassina di una luce indefinita e opprimente, in un'atmosfera selvaggiamente istintuale nella quale lo scavo del pensiero della protagonista diventa vero e proprio incubo psicanalitico.
Lo spettacolo di Grüber e Kiefer (nato qualche anno fa al San Carlo di Napoli e ora opportunamente riproposto) di tutto questo offre una rivistazione lucida, quasi spietata. Gestualità e movimenti sono di un'asciuttezza tesa, essenziale; la recitazione non rinuncia alle accentuazioni espressionistiche, ma concede anche linee di drammatica introspezione; le luci "dipingono" con grandi efficacia, nella loro aspra nettezza, i panorami psicologici o psichiatrici dei personaggi. In quest'opera si assiste in fondo alla corruzione e al disfacimento dello spirito della tragedia greca, e questo spettacolo ne dà ragione con lancinante immediatezza. Alla grande serata contribuisce in maniera determinante il direttore Eliahu Inbal, impeccabile nel dipanare l'enorme materia musicale con plastica forza espressiva, sia nella ben delineata evidenza dei particolari sia nella tellurica e percussiva forza dell'orchestra piena, con la sua sontuosa ricchezza timbrica. Una "Elektra" barbarica e travolgente, quella di Inbal, proprio come la protagonista Gabriele Schnaut, formidabile nel delineare la folle morbosità del personaggio con linea di canto dall'intensità a tratti travolgente e con ammirevole tenuta in tutte le zone della tessitura. La compagnia di canto appare peraltro interamente di livello. Mette Ejsing è una Clitennestra sofferta e terrorizzata, anche scenicamente di grande risalto, Elena Nebera una Crisotemide di fascinosa umanità, dal canto morbido e ricco di lirismo, Peter Edelman un Oreste sofferto e concentrato. Sono cento minuti di altissimo teatro musicale, sconvolgenti e ammalianti: e alla fine, le ovazioni hanno anche un senso di liberazione. Repliche domani, il 5, l'8 e l'11 marzo. | |