IL GAZZETTINO
10 aprile 2008

REGGIO EMILIA
Il "Fidelio" di Abbado, dramma delle idee

NOSTRO INVIATO

Reggio Emilia. Claudio Abbado ha rinviato di anni l'esecuzione del "Fidelio" di Beethoven. Certo ha approfondito, in un lungo itinerario interpretativo, le Sinfonie muovendosi tra la austera concezione di Toscanini e quella viennese di Karl Boehm. Quanto dire: chiarezza strutturale e rispetto delle fonti storiche. Recentemente nelle Sinfonie ha modificato in parte il suo apporto interpretativo con l'accostamento, dichiarato da lui stesso, alle cosiddette prassi esecutive d'epoca, che hanno in Gardiner e Harnoncourt il punto di riferimento. Affinità peraltro che riguardano il metodo esecutivo, ma non la concezione musicale. Di conseguenza: alleggerimento sinfonico anche con la riduzione degli organici; trasparenza cameristica; timbri levigati. Ne nacque il punto d'incontro tra nuova filologia e vocazione classica, che è al centro dell'ultimo (e del penultimo) Abbado .

Ora al Teatro Valli di Reggio Emilia il direttore propone per la prima volta il "Fidelio" dopo lunghe riflessioni e studio delle fonti. Forse l'accostamento a Beethoven è leggermente mutato in funzione di una drammaturgia teatrale, a momenti esasperata, ma mai retorica. Naturalmente era scontato che un grande direttore mozartiano avrebbe sentito con particolare leggerezza ed eleganza le prime scene, quelle più settecentesche. Ma la sorpresa è venuta dalle scene tragiche del carcere, come dal terzetto, quartetto e duetto conclusivi, in un accumulo di tensioni di una progressiva esaltazione cantabile. Sembrava, l'altra sera, di sentire in Abbado un inedito accento eroico, come sublimazione di una lontana tradizione tedesca. C'è soprattutto una intuizione memorabile: la enfatizzazione drammatica non è mai romantica. Abbado è ben consapevole che il "rivoluzionario" Beethoven vive in un tempo sospeso tra Illuminismo e Romanticismo e che non condivide il clima dell'epoca. In definitiva questa interpretazione segna un fondamentale contributo alla conoscenza del "Fidelio" e si allinea a Toscanini, Karajan e Boehm in un ideale Pantheon della classicità.

Il "Fidelio" più che un dramma di personaggi è un dramma di idee, in una successione di quadri in certo senso autosufficienti. Per questo l'inserimento della "Leonora n.3", voluto da Mahler, prima del finale, forse potrebbe anche oggi essere un arbitrio accettabile. Ma Abbado , come si sa, ama rispettare con rigore filologico l'originale.

"Fidelio " non racconta soltanto la storia di una donna pronta a tutto pur di liberare il marito rinchiuso ingiustamente in una prigione di stato. Al tema dell'amor coniugale sovrappone però quello della libertà, della affermazione di valori etici e civili. Il giovane regista cinematografico tedesco, Chris Kraus, autore del fortunato film "Quattro minuti", alla sua prima prova musicale, sottolinea gli aspetti cupi e risentiti del "Fidelio ". Le bellissime scene di Maurizio Balò e i costumi napoleonici di Annamaria Heinrich offrono un ideale quadro visivo, in cui predomina una ghigliottina che si specchia contro un muro plumbeo e incombente. La comicità dell'inizio viene attenuata; le luci affascinanti sono a tratti allucinatorie. Giganteggia la figura di Pizarro in sedia a rotelle: un invalido doppiamente crudele e aggressivo. Finalmente i dialoghi parlati (notevolmente ridotti) acquistano una singolare evidenza e una grandiosa forza narrativa. Ma c'è, a mio parere, un errore nel finale. L'opera non si conclude, come vuole Beethoven, con un momento liberatorio, con una toccante, gioiosa conciliazione (quasi una prefigurazione dell'"Inno alla Gioia" della Nona Sinfonia) ma con una livida lettura ideologica. Secondo il regista dopo la rivoluzione giunge "il terrore": alla fine il Ministro liberatore che condanna Pizarro in realtà incarna l'abiezione: campeggiano sul fondo sette sinistre ghigliottine. Dunque, sostiene Kraus, la malvagità è sempre ritornante e non ci sono, nel corso degli eventi, aspetti affermativi.

La compagnia è di notevole rilievo. Sorprende il giovane soprano Anja Kampe (uscita dalla scuola di Alessandra Althoff), una Leonora insieme intensa e mirabilmente patetica. Marcellina non è una soubrette ma sembra incarnare affabilmente il lirismo di Susanna delle "Nozze di Figaro". Giorgio Surian è un Rocco squisitamente mozartiano e Jorg Schneider un brillante Jaquino. Albert Dohmen è un poderoso, sinistro Pizarro. L'intenso Florestano di Endrik Wottrich è un tenore eroico di tipo wagneriano; credo sarebbe preferibile per questo ruolo un tenore "lirico spinto", peraltro oggi quasi irreperibile. Resta da segnalare infine la magnifica Orchestra Mahler e il Coro Schoenberg, di rara omogeneità e stilisticamente ineccepibile. Naturalmente entusiasmo infuocato per una produzione eccezionale.

Mario Messinis

 

LA STAMPA
9/4/2008

NOTE CLASSICHE
IL DEBUTTO DI CHRIS KRAUS
Abbado esalta "Fidelio" anche sotto la ghigliottina

GIORGIO PESTELLI

Per questo attesissimo Fidelio, che ha riempito il Valli di Reggio Emilia fino all'ultimo posto, Claudio Abbado ha voluto accanto a sè un nome nuovo, Chris Kraus, regista cinematografico alla prima esperienza nel teatro musicale: l'entusiasmo del neòfita, con qualche acuto sopra le righe, e una fortissima capacità di caratterizzare dialoghi e personaggi ha prodotto un Fidelio di grande tensione e originalità, comunque da vedere e da ricordare. Convinto, come quasi tutti del resto, della scarsa "teatralità" di Beethoven, Kraus incomincia a fare piazza pulita della commedia borghese del primo quadro: invece della biancheria che Marcellina stende al sole, ecco incombere una ghigliottina, e mentre Rocco canta la sua aria "dei denari" ecco visioni di torture e oppressioni: il carcere, il male insomma, non è dietro, è già tutto in primo piano, insistito e compiaciuto, e quasi veniva voglia di chiudere gli occhi per ascoltare indisturbati; anche perchè intanto, dalle voci dei cantanti e dalla Mahler Chamber Orchestra diretta da Abbado, si sentiva salire la sorgente purissima di una musica tutta goduta sotto il segno della perfezione stilistica.

Ma a un certo punto tutto cambia. Dall'entrata dell'infame Pizzarro, da quando Beethoven mette in scena il negativo, e il positivo dei buoni che lo contrastano, la regìa di Kraus prende ala e ti inchioda alla sedia: già alcuni particolari sono geniali, come Pizzarro che si trascina su due stampelle e prende calmanti (straordinario cantante-attore Albert Dohmen), ma più conta il ritmo dell'insieme, la verità e la passione con cui questi uomini e donne si scontrano e si respingono; e allora, coro dei prigionieri, carcere di Florestano (buio solcato da una sbarra obliqua di luce, nelle belle scene di Maurizio Balò), quartetto d'azione e duetto di moglie e marito ritrovati, tutto questo non si seguiva più con l'orecchio da una parte e l'occhio dall'altra, ma in una commovente, entusiasmante unità: con un Abbado che regola ogni palpito dell'orchestra su ogni accento della parola e viceversa, e che nell'affetto continuo del fraseggio sembra esaltare l'altro grande polo dell'opera, quello dell'"amore coniugale", piedestallo al tema della libertà; e con tempi spesso appena più lenti del consueto, perchè il gesto della recitazione si realizzi nel suo senso completo: come l'umanissima esitazione quando Leonore dà il suo pezzo di pane al prigioniero non ancora riconosciuto.

Leonore, negli abiti maschili di Fidelio, è Anja Kampe, un po' legata all'inizio, poi sempre più autorevole, da quando scioglie la chioma nella grande aria del primo atto; Florestan è Clifton Forbis, appassionato tenore eroico, accanto a Giorgio Surjan (Rocco), Julia Kleiter (Marcellina), Jörg Schneider (Jaquino), ognuno immedesimato nella parte; splendidi i due cori, lo Schoenberg e quello della Comunidad di Madrid diretti da Erwin Ortner. Alla fine, coda ideologica del nostro regista: Florestan diverrà a sua volta un tiranno, i prigionieri torneranno in prigione e le ghigliottine continueranno a lavorare, capovolgendo del tutto il messaggio beethoveniano; ma il rischio di rovinare tutto è schivato, forse perchè quel finale festante non è il vertice della composizione; in fondo, si può dire che questa regìa stona nei momenti marginali, mentre fa centro pieno in tutti i punti supremi del dramma. Per la cronaca, trionfo generale (qualche isolato buu al regista) con ripetuti lanci di fiori.

Reggio Emilia, Teatro Municipale Valli

 

il Giornale
giovedì 10 aprile 2008

SPETTACOLI
Abbado dirige il "Fidelio" che ha sempre sognato

di Lorenzo Arruga

REGGIO EMILIA. Fidelio di Beethoven, acclamato a Reggio Emilia, è il sogno realizzato di un grande direttore, Claudio Abbado, che ci ha pensato su tutta una vita. Istante per istante si sente il fascino e la coerenza d’una scelta precisa e meditata. È quello che si chiama verità.

Fidelio è un’opera di genere "semiserio" trasfigurato: comincia come un’opera buffa, col quadrettino della famiglia d’un carceriere, e poco a poco viene attirata verso un punto buio e misterioso di pericolo e di male: nella cella più segreta c’è un prigioniero destinato a venire ucciso, eroe innocente, perseguitato da un Governatore crudele.

Sua moglie però è presente nel carcere: travestita da ragazzo ha fatto innamorare la figlia del carceriere, e viene scelta da lui per scavare la fossa dell’eroe. Nel buio freddo sotterraneo, quando anche il Governatore è sceso per compiere la delittuosa vendetta, lei lo ferma con una piccola rivoltella; e proprio allora, le trombe annunciano la venuta del Ministro a riportare giustizia. I prigionieri, che avevamo visti oppressi anelare all’aria ed alla luce, vengono liberati, la sposa coraggiosa scioglie le catene del suo uomo.

Tutto è grandezza e nobiltà di musica, s’intende; l’ardito canto e il sinfonismo magistrale dell’orchestra. Ma tre punti son decisivi per sentirne crescere la genialità a dismisura. Uno è il quartetto, quando i personaggi ancora "leggeri" si uniscono in un disegno a canone esprimendo il loro presagio sospeso: e Abbado lo tiene leggero, stupefatto come un vortice lento in cui sprofondiamo con loro, misurando al pelo colori e gradazioni di suono delle voci e della splendida Mahler Chamber Orchestra. Il secondo è il coro dei prigionieri: qui come ombre nella figura e nel suono stesso delle parole, impressionanti.

Ma il terzo è il più insidioso per il direttore: quando il dramma è più cupo e pare senza uscita, Beethoven suscita una frase suadente come un conforto e animata come un risveglio. Come nell’opera buffa, l’autore ci fa desiderare, anzi credere un lieto fine. Abbado la lascia nascere come un germe, la porta, la sviluppa, la carica come un segreto al punto d’essere rivelato. Vivranno, saranno liberi, forse tutta l’umanità lo potrebbe. Beethoven è questo.

Restano molti argomenti. Per esempio: di quest’opera esistono più versioni, in quella scelta da Abbado è escluso virtuosamente l’inserimento tradizionale della ouverture "Leonora III" dopo la liberazione. Giusto, e peccato che così ci manchi un po’ di godimento.

Poi: ci vuole una grande compagnia di canto. Questa, a parte il tenore Clifton Forbis che strozza parole e note, era eccellentemente dentro un disegno: con il "cattivo" Albert Domhen integro vocalmente ed isterico come personaggio; il bonario e cedevole carceriere un Giorgio Surjan al pieno delle sue qualità, solenne, umano, ambiguo al punto giusto. Leonore, travestita da Fidelio, superbamente accorata e intima e vincitrice, era Anja Kampe.

Lo spettacolo di Chris Kraus ci vuole spiegare ad ogni costo i fatti e i simboli che capiamo meglio da soli, con luci, immagini, e perfino un Governatore handicappato la cui carrozzella diventa oggetto di trastullo quando lui, con sentimento repellente a Beethoven, viene giustiziato all’istante con una ghigliottina prêt-à-porter. Quando racconta senza complicazioni, però, lo fa benissimo, con recitazione d’alta classe, e lo scenografo Maurizio Balò, complice la costumista Annamaria Heinrich, ci innesta alcune delle sue suggestioni memorabili, come il sotterraneo da brividi e pietà. Due sensazioni che ci rimangono attaccate chiedendoci purificazione.

 

la Repubblica
7 aprile 2008

Abbado trionfa con Beethoven
Fidelio va a Guantanamo

di LEONETTA BENTIVOGLIO

REGGIO EMILIA. Un colpo secco, un altro e via così, con violenza: la ghigliottina miete teste, senza trionfi assolutori. Sono le ambiguità del potere secondo Chris Kraus, regista del "Fidelio" diretto da Claudio Abbado che ha debuttato ieri sera al Valli di Reggio Emilia. Opera politicamente "giusta", dove soccombono i malvagi e vincono i buoni, con apoteosi degli ideali duri e puri della Rivoluzione francese: questo è il succo. Eppure è scarsa di ottimismi persino nel finale l' impressionante rilettura di Kraus, con la sua monocromia di grigi, neri e beige e le sue bellissime luci contrastate, e con la scena occupata da un' incombente ghigliottina di sei metri. Di ghigliottine, in chiusura, ne appariranno sei, per dirci che non c' è scampo agli orrori della tirannia. E il Ministro che giunge a liberare gli eroi positivi non è un messaggero di libertà, ma un purpureo e inquietante cardinale: inno al pensiero laico contro le ingerenze del potere ecclesiastico? Questo e altro si può vedere nell' atteso "Fidelio" di Abbado, interprete ideale di Beethoven. Eppure l' ex direttore dei Berliner, che a Reggio Emilia guidava la Mahler Chamber Orchestra (due i cori: l' Arnold Schoenberg e quello della Comunidad di Madrid), finora non aveva mai affrontato l' opera beethoveniana, ricca di un messaggio più che mai attuale a parere del 44enne tedesco Kraus: "L' anelito alla libertà e al riconoscimento dei diritti civili sono temi all' ordine del giorno", dice. L' unione tra musica e carcere sembra un segno di destino per questo regista di cinema (nella lirica è al debutto) celebre per il film "Quattro minuti", imperniato sul burrascoso rapporto tra una maestra di pianoforte e una detenuta musicalmente dotatissima. Ed è in un carcere che scorre l' intensissima trama di "Fidelio", storia di una moglie intrepida pronta a travestirsi da carceriere per salvare il marito recluso come prigioniero politico. Con lo scenografo Maurizio Balò, Kraus inventa un' enorme muraglia nera a semicerchio, che s' alza e s' abbassa, si muove e si spacca. Affiora a tratti, al di là della sua superficie, un muro di scranni neri, celle che racchiudono i coristi, imprigionati in questo lugubre alveare e annullati, nelle identità, dalla cancellazione dei volti tramite elmi, con metafisico effetto alla De Chirico (ma i prigionieri incappucciati e in tunichette corte, con mani legate e cinghie strette, rammentano anche le terrificanti foto di Guantanamo). Sarà la protagonista Leonore, moglie coraggiosa, a levar loro le maschere per trovare il volto del marito, in un passaggio di vivida poesia teatrale, durante il coro verso la fine del primo atto. Abbado segue la versione definitiva del 1814, compreso il fatto di eseguire l' ouverture "Fidelio" e di non fare la "Leonore n. 3" prima del finale. Splendida l' orchestra, nitidissima e travolgente. E di sommo livello i cantanti, che recitano come attori (costumi "dentro" l' epoca firmati da Annamaria Heinreich) grazie alle sapienti cure di Kraus. Successo clamoroso e compatto per tutti.

 

la Repubblica
8 aprile 2008

Orrore, sfinimento e luce nel Fidelio di Abbado

di ANGELO FOLETTO

REGGIO EMILIA - Il realistico, brutale, pessimismo del finale voluto dal regista, con la minacciosa parata di ghigliottine pronte a ristabilire il potere (la stessa vittima Florestan, appena libero sembra già confuso dai simboli del tiranno; e come fidarsi di Don Fernando in scioccante porpora cardinalizia?), è l' immagine chiave dello straordinario Fidelio in scena a Reggio Emilia. L' antidemocrazia non ha caselli storici: infatti l' epoca sfuggiva al ricercato disegno dei costumi di Annamaria Heinrich, ma le tuniche annodate sulla schiena dei prigionieri nudi rimandavano l' orrore di Guantanamo. Si può discutere quanto l' idea fosse in linea con l' anima illuministica di Beethoven e il senso di liberazione ecumenica trasmesso dalla musica, e acceso dal podio con visionarietà di colori e energia incalzanti. Ma la tesi di fondo dello spettacolo di Chris Kraus così poteva essere del tutto compresa (e, se si vuole, accettata) mentre orrore, sfinimento e gioia della luce erano raccontati dalla partitura di cui Claudio Abbado ha penetrato evidenze e intenzioni segrete. Non pareva certo un esordio, il suo: fin dall' ouverture il maestro ci ha consegnato una lettura compiuta, aguzza nel tratto e profonda. In avvio ha commosso la qualità della concertazione esaudita dalla mirabile Mahler Chamber Orchestra, per cui ogni personalità strumentale era portatrice d' un colore suasivo e struggente. Nella torrenziale conclusione spiccava piuttosto la capacità di gestire i toni a tratti farraginosi della gioia beethoveniana, calibrando gli interventi dei cori e dei solisti, senza rimetterci il significato del testo punteggiato dai dardeggianti "Retterin" (salvatrice): tenendo sempre alta la tensione precipitante, quasi mimandone il fiato grosso, e l' utopica e raggiante aggressività dell' orchestra. Il dato interpretativo caratteristico erano qualità e logica. Ovvero capacità di illuminare l' incoerenza dello stile di Fidelio, sempre librato tra echi del Flauto magico e profezie della Nona Sinfonia, dando conto dell' efficacia teatrale e della bellezza assoluta delle paradossali scelte linguistiche d' autore. La sicurezza rivelatrice di Abbado, rendeva facile la vita al regista - cui le vertiginose scene di Maurizio Balò e le luci di Gigi Saccomani, hanno creato spazi e silenzi cupi ma partecipi al dramma - che ha ottenuto lodevoli prove d' attore dalla compagnia, scandendo la vicenda con gesti di forte impronta espressiva e l' uso significante di oggetti e posizioni sceniche. La spietatezza assegnata a Pizarro (l' eccellente Albert Dohmen), efferato ma a sua volta rabbiosa vittima di una sedia a rotelle, la funzionalità della gigantesca ghigliottina nelle prime scene, la restituzione della luce ai carcerati, la cinematografica discesa nella cisterna erano di razza. Difficile isolare le prestazioni vocali dai disegni direttoriali: decisivi per capire la scelta di una Leonore (Anja Kampe) non perentoria né impeccabile ma capace di "far musica" cantando con l' orchestra, o del tormentato Florestan (Clifton Forbis). La piccante Julia Kleiter e il maturo Giorgio Surjan hanno meritato l' apprezzamento del pubblico che ha applaudito a lungo al termine i maestri del coro, Jorg Schneider (Jaquino), Diogenes Randes (Fernando) e l' insostituibile orchestra chiamata giustamente in palcoscenico tra i protagonisti.

 

Corriere della Sera
8 aprile 2008

Elzeviro. Reggio Emilia: una rilettura di Beethoven
Troppe manette per questo Fidelio
Regia inutilmente ridondante, superba la concertazione di Claudio Abbado

L' allestimento scenico del Fidelio di Beethoven, prima esecuzione domenica al Teatro Municipale "Romolo Valli" di Reggio Emilia, riserba buone e cattive sorprese. Ricorrente è la presenza dei prigionieri, ancor prima del loro sublime coro: come sfondo sono collocate infinite teche in ciascuna delle quali puoi vedere una testa completamente avvolta da un cappuccio di cuoio. Quando i prigionieri si mostreranno a figura intera, si noteranno anche terribili manette strette sul davanti del lacero saio e, se fossero legati anche i piedi, non potresti fare a meno di pensare a un' anticipazione dell' inferno di Guantanamo. Il carcere come luogo scientifico di repressione venne inventato siccome panopticon dall' architetto inglese Jeremie Bentham e divenne uno dei temi più trattati dagli architetti utopistico-rivoluzionari francesi. Nel coro degl' incarcerati questi si addossano gli uni agli altri in gruppi fatali che, complici le luci radenti intervallate d' ombra, richiamano la pittura dello Zurbaran. Ma appare stupida ridondanza del regista Chris Kraus, fin qui così bravo grazie anche alle idee dello scenografo Maurizio Balò, voler fare di Pizarro, l' ottimo Albert Dohmen, un paralitico in sedia a rotelle che può muovere stenti passi coll' aiuto di stampelle. Quanta roba di troppo che non vale minimamente a connotare il personaggio, il quale scaturisce pur sempre dalle selvagge esplosioni di energia demoniaca dovute a Beethoven con quell' agghiacciante "tono maggiore" che vi s' insinua.... Non piace nemmeno la violenta luce proiettata in faccia agli spettatori nel quadro di don Fernando, ch' è di uno stile espressionistico là ove la musica ti suggerisce un' atmosfera elisia; e meno ancora (seconda superfetazione) il fatto che costui sia trasformato in un Cardinale: ma con la veste completamente sbagliata e una crocettina pettorale di quelle adoperate dai vescovi in clergy-man per essere nascoste sotto il rever della giacca. La compagnia di canto si colloca ferreamente all' interno della superba concertazione del maestro Claudio Abbado. Marcellina, Julia Kleiter, è una squisita soubrette di coloratura; e Giacchino un delicato tenore "di grazia", Jörg Schneider. Il primo (Ilker Arkaürek) e il secondo (Levente Pall) prigioniero si esprimono quasi sussurrando per lo stupore e il terrore nel loro importantissimo ruolo. Un Rocco di grande classe è Giorgio Surjan, che riesce, caso raro, a cantare pianissimo la sua entrata nel magico Quartetto Mir ist so wunderbar, mantenendo così quell' irrepetibile atmosfera sospesa alla quale tanto bene il maestro Abbado mira. Diogenes Randes, il don Fernando trasformato in cardinale dei poveri, è un basso di vaglia, e forse la duplice incongruenza drammatica (luci e costume) della regia impedisce che nel suo grande Recitativo si manifesti come una "personalità". Clifton Forbis, Florestano, sarebbe forse un buon tenore se non accadesse, come il novanta per cento delle volte accade ai Florestani, che nella seconda parte della sua grande Aria, Und spür ich nicht linde, la voce gli si strozzasse sul "passaggio" e oltre. Anja Kampe non è di quelle Leonore vocalmente possenti alla Birgit Nilsson delle quali oggi esistono solo caricature: è invece uno strumento duttile nelle mani del concertatore, di bel timbro e buona recitazione, che ottiene un effetto celestiale, preparatole dal maestro Abbado, di crescendo-ritenendo e pianissimo subito sul Komm, Hoffnung della sua grande Aria coi tre corni soli. Il coro, istruito da Erwin Ortner e frutto della fusione del Coro "Arnold Schönberg" e di quello della Comunità di Madrid, fornisce una prestazione ammirevole: nel luogo cardine, il coro dei Prigionieri, alterna alla voce "presente" il soffio per esprimere l' emozione. L' Orchestra da Camera "Gustav Mahler" è un organismo di alta qualità: e basti citare il suono intonato, caldo e luminoso dei corni. Il maestro Abbado procede da una lettura che gli ha fatto profondamente interiorizzare il testo. Così, egli lo domina con totale equilibrio timbrico e ritmico e dinamico in costante rapporto con un disegno drammatico: il che vuol dire equilibrio di ciascuna delle parti rispetto al tutto accompagnato da delicata rifinitura. Ciò, atteso essere il Fidelio un Singspiel, ossia una "Commedia musicale", è ancor più difficile.

Paolo Isotta

 

Il manifesto
13 aprile 2008

Beethoven
Illuminismo dark. Il Fidelio di Abbado

Marilena Laterza

Reggio Emilia. È con un'opera controversa come Fidelio - l'unica a firma di Beethoven - che Claudio Abbado sceglie di tornare al teatro musicale nella buca del Valli di Reggio Emilia. Opera controversa perché frutto di reiterati ripensamenti, su cui grava da sempre un pregiudizio diffuso: pur partitura di ottima fattura, non starebbe teatralmente in piedi sul palcoscenico. Ma il direttore milanese, oggi settantacinquenne, corteggia Fidelio da vent'anni, e un allestimento tanto a lungo meditato schiude più di una sorpresa interpretativa.

Al di là della vicenda epidermica di interessi personali e del tributo borghese e un po' ingenuo all'amore coniugale, Fidelio è icona di un risoluto imperativo kantiano - incarnato dall'ardimentosa Leonore che sottrae alla forca il marito e sconfigge il Don Rodrigo di turno - e di un assolutismo illuminato e universale, celebrato nel finale liberatore.

Proprio dalla consapevolezza di questa marcata connotazione ideale prende l'abbrivio la lettura festeggiatissima di Abbado, che smentisce ogni disorganicità e svela, piuttosto, un ordito unitario, benché variato: scevro da sovrastrutture di sorta, fedele a null'altro che al segno scritto, quello che ci viene restituito è, dunque, un Fidelio musicalmente illuminista, dilavato da echi retorici e polverose zavorre ermeneutiche, nel quale ogni oggetto musicale si fregia di un significato individuale, costantemente rischiarato, tuttavia, dal senso di una geografia formale complessiva. Mai ridondante né artificioso, il suono della Mahler Chamber Orchestra sgorga forbito, con un nitore polifonico ora cameristico e impalpabile, ora sinfonico e fiammeggiante, a sorreggere un'interpretazione drammaturgica a sua volta inedita e, forse, più difficile da metabolizzare.

Chris Kraus, infatti, non è regista a cui piaccia portare in scena bellae fabellae: Abbado lo sa, ed è per questo che lo chiama accanto a sé. Ecco che allora, a dispetto di riduttive tentazioni attualizzanti, l'autore pluripremiato di Quattro minuti asseconda - e, talvolta, ulteriormente stilizza - la simbologia beethoveniana: niente sbarre, a dire l'ambientazione carceriera, ma solo un'enorme ghigliottina sul boccascena; e le oscure masse di prigionieri, dapprima incasellate in cellette col volto coperto come manichini spersonalizzati alla De Chirico, si scoprono, poi, corpi larvali bramanti luce e dignità, tanto affini a una stiva di schiavi africani in tratta quanto ai desaparecidos di una miniera cilena.

Ciò che scompone fili di perle e cravatte sulle poltrone, però - oltre all'inspiegabile caratterizzazione del signorotto cattivo come storpio in carrozzella e stampelle - è il finale, con l'ironica sortita del ministro salvatore che Kraus trasforma in cardinale panciuto e sfavillante, mentre alle spalle un cordone di gendarmi strattona la turba di prigionieri e popolane (cori eccellenti, peraltro, come gran parte del cast) e sullo sfondo rifiorisce una siepe di nuove ghigliottine, che parrebbe suggerire: "Avanti il prossimo". Il contrasto con il tripudio affratellante di Beethoven-Abbado, a questo punto, si fa stridente ed eversivo; pure, c'è da interrogarsi su di un Fidelio che, diversamente, sarebbe stato anacronistico, e qui costringe, invece, a una domanda di senso: perché una giustizia ad personam forse non è giustizia e, se a destituire il vecchio dittatore giunge un nuovo despota, sotto altre insegne ma pur sempre dispensatore di grazia e di forca, probabilmente non c'è liberta e non c'è democrazia …

Sinergia impegnativa alla volta di nuove Colonne d'Ercole, insomma, quella di Abbado e Chris Kraus, supportata da una coproduzione che, da Reggio Emilia a Madrid passando per Baden-Baden, Modena e Ferrara, non è soltanto comunione di fondi ma, prima ancora, sinfonia di teste, di competenze e di civiltà: un modello europeo di cultura.

 
Il giornale della musica
27 aprile 2008

Un Fidelio denso e sublimato

Claudio Abbado, per questo suo "primo" Fidelio, ha voluto accanto Chris Kraus, un regista esponente del "giovane cinema tedesco" e digiuno di teatro musicale. Una scelta che ha sorpreso lo stesso Kraus, ma che alla prova dei fatti si è rivelata frutto di una felice intuizione.

Per raggiungere l'intimo rapporto tra la partitura e la scena, tra i ritmi drammaturgici che compenetrano e scandiscono lo scorrere di questa lettura, ci sembra che lo stesso Abbado abbia preso per mano il regista e sia riuscito a trasferirgli la propria idea interpretativa. Il merito di Kraus è stato quello di assimilare questa idea e concretizzarla in una messa in scena personale e molto equilibrata, a partire dall'impianto scenico realizzato con Maurizio Balò.

Il contrasto iniziale tra la leggerezza degli screzi amorosi tra Marzelline e Jaquino, sullo sfondo di una prigione incombente ed evidenziato dai sinistri preparativi di una esecuzione, viene richiamato nel finale dell'opera quando, nella celebrazione collettiva della virtù di Leonora, sullo sfondo si moltiplicano le ghigliottine, simbolo di un potere comunque violento. Al centro della vicenda le atmosfere oppressive sono arricchite da soluzioni efficaci, come l'uscita dei prigionieri senza volto che strisciano fuori dal carcere per sentire per pochi attimi la primavera, o ancora l'arrivo di Don Fernando, che ha tolto dal buio delle prigioni gli stessi spettatori, abbagliati dalla luce del giorno.

L'interpretazione di Abbado ha percorso l'opera attraverso una lettura profonda, capace di distillare i tratti più tradizionalmente "eroici" in una ricerca personale che ha sublimato i densi intrecci strumentali attraverso un cristallino equilibrio musicale, in piena sintonia con orchestra, coro e cantanti. Alla fine trionfo per tutti.

Alessandro Rigolli

 

DIE WELT
22. April 2008

Claudio Abbado entdeckt die deutsche Oper
Sternstunde in Madrid: Der Italiener dirigiert erstmals Beethovens "Fidelio"

Von Manuel Brug

Nur das Tenorglück fehlte. Jonas Kaufmann, Claudio Abbados Wunsch-Florestan, dem während der "Fidelio"-Tour des Maestros im übervollen Startenor-Kalender nur das Madrid-Gastspiel geblieben war, musste wegen einer geprellten Rippe passen. Da der Tour-Ersatz Endrik Wottrich schon bei den Proben am Premierenort Reggio Emilia abhanden gekommen war, sang auch in Spanien der zweite Einspringer Clifton Forbis: anständig, aber in den Höhen sehr gequetscht. Ein Trost bleibt. Kaufmann wird wohl im Herbst in Ferrara den Florestan der CD-Einspielung singen.

Das war die einzige Einschränkung im guten, leider nicht glanzvollen Sängerensemble, das Claudio Abbado durch seinen allerersten "Fidelio" führte. Der im Juni 75-jährige, nach wie vor musikalische Auftritte extrem einschränkende Dirigent hat sich in den letzten Jahren bei seinen seltenen Opernprojekten auffällig auf ihm noch neues, deutsches Kernrepertoire konzentriert. Nach "Parsifal" sowie "Tristan und Isolde" mit den Berliner Philharmonikern und "Zauberflöte" mit dem von ihm gegründeten Mahler Chamber Orchester (MCO) beschäftigte er sich jetzt - ebenfalls mit dem MCO - mit Beethovens Musiktheater-Schmerzenskind. Das klangliche Ergebnis wurde zu einer Opernsternstunde. Abbado und das MCO sind längst zur klingenden Einheit verschmolzen.

Haben die sonst eher zurückhaltenden Madrilenen Abbado bereits beim Erscheinen im Graben des Teatro Real Standing Ovations bereitet, geht es dann unmittelbar in die Beethoven-Vollen. Die Ouvertüre hat Biss und knackige Allüre, trotzdem bleiben die Rhythmen flexibel und federnd. Abbado entfaltet einen herrlich gerundeten, doch absolut strukturklaren Klang, ohne Extreme, stets anders - und doch passgenau. Die Heterogenität dieses zwischen kleinteilig dahintändelndem Singspiel und menschheitsbeglückendem Universaloratorium der Gattenliebe pendelnden Unikums wird überdeutlich ausgestellt; aber dadurch erst aufregend in der musikalischen Unterschiedlichkeit. Schon im "Mir ist so wunderbar"-Quartett werden in der friedvoll ausgesungenen Hauptmelodie fast naturhaft schwebeleicht die niederen Sphären verlassen. Auch das Pendeln zwischen konventionell gebauter Brunnenvergifter-Dramatik und wie spontan wirkendem, musikalisch immer reicherem, innovativerem ariosen Nachsinnen, es geling Abbado mühelos.

Abbado ist weder besonders laut, noch leise, noch schnell, noch langsam - er ist einfach richtig. Die banale "Gold"-Arie des Kerkermeisters Rocco kann auch er nicht retten, doch etwa die Vorspiele zu den großen Arien Florestans und der in der Höhe nicht immer intonationssicheren, aber intensiven, menschlich glaubwürdigen Anja Kampe als Leonore bersten schier vor Spannkraft - und sind gleichzeitig so genau wie differenziert mit Klängen gemalte Seelenbilder. Einzigartig das langsam sich steigernde, dabei mehr und mehr verschmelzende Miteinander von Chor, Orchester und Solistenreflektion im ersten, das warme Sonnenlicht vergeblich beschwörenden Finale, die fein herausgearbeiteten Harmonien, die superbe Abgestimmtheit des Arnold-Schönberg-Chors. Im zweiten Finale weitet sich das noch einmal zielgesteuert im Volumen aus, so wie Abbado schon vorher die schwierigen Ensembles dramaturgisch glaubwürdig aufeinander bezieht. Beethovens oft fast auseinander brechendes Musikgedankengerüst als einzigartige, aber durchaus logische Opernentwicklung.

Die für dieses von Reggio nach Madrid, Baden-Baden, Ferrara, Modena und vielleicht auch noch 2010 nach Aix-en-Provence und Luzern weitergereichte "Fidelio"-Projekt anvisierte Inszenierungsübernahme der Robert-Carsen-Produktion aus Amsterdam aus dem Jahr 2003 kam nicht zustande. Also machte sich Claudio Abbado auf die Suche - und wurde bei dem deutschen Filmregisseur Chris Kraus (45) fündig, dessen Gefängnisdrama "Vier Minuten" ihn beeindruckt hatte. Er engagierte Kraus, obwohl der noch nie eine Oper inszeniert, geschweige denn tiefere Metierkenntnisse hatte. Doch im Vergleich zu den leider oft theatralisch schwachen Abbado-Opernprojekten mit Ermanno Olmi, Lev Dodin, Peter Stein, Klaus Michael Grüber oder zuletzt mit dem eigenen Sohn Daniele, konnte sich Kraus bestens behaupten.

Zwar braucht er gerade in den Anfangsszenen mit dem klischeehaft geführten Buffopaar Julia Kleiter (Marzelline) und Jörg Schneider (Jaquino) in Maurizio Balòs düsterem Einheitskuppelraum überdeutlich lange, bis seine Absicht deutlich wird, doch dann wirkt sie erstaunlich überzeugend. "Fidelio" einmal nicht als flott, aber glatt aktualisierte Abu-Ghraib-Anklage, sondern als Versuch, mit Beethoven aus dem historischen Kontext einigermaßen pessimistisch ins Heute zu verweisen. Dabei pendelt Kraus freilich etwas zu unentschieden zwischen symbolhaften Licht-Abstraktionen samt Kerker als Hörsaal und zu wenig geführten, auf uns blickenden Individuen.

Das Böse in Gestalt des - nicht neu - im Rollstuhl sitzenden, etwas hohl bellenden Pizarro Albert Dohmens ist zur Kenntlichkeit entstellt. Die Guillotine ist von Anfang an, zunächst geputzt und frisch präpariert, als Instrument des Terrors und der Unterdrückung präsent. Sie frisst mit Pizarros Enthauptung im Finale freilich auch die eigenen Kinder und taucht vielfach drohend am Horizont auf, wenn zwischen dem geretteten Paar samt Minister als katholischem Kardinal neuerlich Soldaten stehen und brutal die Volksmassen zurückdrängen: Alles bleibt wie es ist. Wirkliche Freiheit einer klassenlosen Gesellschaft erweist sich als Opernwunschtraum.

Am 3., 5., 8., 10. Mai im Festspielhaus Baden-Baden. Abbado dirigiert nur zwei Vorstellungen