ALTO ADIGE
4 dicembre 2008

E oggi l'opera fa la rivoluzione

BOLZANO. Nei giorni scorsi sulle colonne del nostro giornale, Manfred Schweigkofler, direttore artistico della Fondazione Teatro Comunale di Bolzano, ha posto l’accento sui due poli che caratterizzano il suo lavoro: tradizione e innovazione. Non a caso la contemporaneissima in prima italiana assoluta "I went to the house but did not enter" di Heiner Goebbels si colloca tra le tradizionalissime "Elisir d’amore" di Gaetano Donizetti e "Turandot" di Giacomo Puccini.

Questa sera (e domani sera) alle 20 il pubblico avrà quindi modo di vedere ribaltati parametri e metri di giudizio del teatro d’opera con uno spettacolo senza dubbio innovativo che promette molto sulla carta. Per dare una definizione corretta della messinscena, si potrebbe parlare di un concerto spettacolarizzato o, meglio, di una serie di tre quadri musicali scenici. In realtà, le grandi pitture sonore sono ambientate in epoche diverse e si fondano su testi altrettanto diversi per provenienza di autore e di ispirazione come "The Lovesong of J. Alfred Prufrock" di T. S. Elliot, "La folie du jour" di Maurice Blanchot, "Der Ausflug ins Gebirge" di Franz Kafka e "Worstwar Ho" di Samuel Beckett. L’apparente frammentarietà di un libretto che non può essere inteso in senso tradizionale, vuole esprimere quel senso di frustrazione che scaturisce dall’impossibilità di comunicare, sottolineare la frammentazione dell’io e della nostra società.

Si tratta di un paradosso che, a dire degli esperti, è rivestito di una musica stupenda ed evocativa. Heiner Goebbels, che è regista della messinscena oltre che autore della particolare opera, ha studiato composizione e sociologia, manifestando un approccio molto intellettualizzato con la materia sonora. Attivo su diversi fronti dal rock al jazz ed alla classica, il compositore tedesco è anche tra gli artisti di "Documenta X" di Kassel e trova nel teatro il proprio ambito espressivo naturale che, con l’opera in programma, prodotta per teatro "Vidy" di Losanna per il Festival internazionale di Edimburgo, trova probabilmente un punto di svolta. Una svolta che, a dire dello stesso Goebbels, richiede certo sforzo ed apertura da parte del pubblico, ma che può rivelare altri modi di vivere il palcoscenico. Questo l’intento principale del compositore tedesco che ha cercato di portare le innovazioni della danza e delle arti performative in genere anche nel mondo della musica colta, forse più refrattario di altri a lasciarsi contaminare dal nuovo. Il senso di attesa è forte per capire come il pubblico bolzanino reagirà a questo lavoro che ha già saputo sollevare entusiasmi e critiche in tutta Europa. L’aspetto più curioso di questo nuovo allestimento di Goebbels è senza dubbio lo scarno accompagnamento musicale che fonda la propria forza nel mitico "The Hilliard Ensemble", gruppo vocale apprezzatissimo soprattutto per le pregevoli esecuzioni di musica antica a cappella, formato da David James (controtenore), Steven Harrold e Rogers Covey-Crump (tenori) e Gordon Jones (baritono). Le scene e le luci sono di Klaus Grünberg, i costumi di Florence von Gerkan, il sound design di Willi Bopp.

Giacomo Fornari

Hilliard, star molto versatili

Fondato in Inghilterra nel 1974, lo "Hilliard Ensemble" (nella foto) è una formazione mitica che ha segnato gli ultimi anni della storia della musica eseguita. La compagine, formata da pochi vocalisti (maschi), si è fatta conoscere soprattutto grazie alle proprie esecuzioni di musica antica, con una particolare predilezione per la musica sacra. Grazie alle eccellenti doti vocali dei propri membri, l’ensemble ha prediletto l’esecuzione a cappella, senza il sostegno di strumenti musicali. Al fine di ricreare in modo corretto l’atmosfera sonora del Quattro, del Cinque e del Seicento (punti cardine del proprio repertorio), gli "Hilliard" eseguono le parti acute servendosi di contraltisti e sopranisti. "The Hilliard Ensemble", che deve il proprio nome a Nicholas Hilliard, grande artista del Rinascimento inglese, ha all’attivo numerose incisioni per grandi case discografiche (si pensi ai numerosi album per EMI), tra le quali figurano anche molte prime assolute. Dopo un rigoroso avvio nel repertorio antico, il gruppo inglese ha iniziato ad indirizzarsi verso la musica contemporanea producendo registrazioni di successo e collaborando con apprezzatissimi virtuosi (si pensi ad "Officium" con Jan Garbarek) e ai brani appositamente scritti per esso da Arvo Pärt. In questo senso, la sfida di Goebbels è un nuovo tassello che si aggiunge ad una carriera assolutamente prestigiosa che ha donato agli appassionati di classica momenti veramente indimenticabili. (g.for.)

 

ALTO ADIGE
3 dicembre 2008

Goebbels: "Così cambio l'opera e la libero..."

BOLZANO. La Fondazione Teatro Comunale punta molto sulla musica contemporanea, ospitando uno dei massimi compositori: Heiner Goebbels, autore di "I went to house but did not enter", l’ultima sua creazione messa in scena a Bolzano in esclusiva nazionale, domani e venerdì alle 20. Coprodotta dal Festival di Edimburgo, dal Théatre Vidy-Lausanne, Bolzano, Lussemburgo, Francoforte e Strasburgo, è un’opera che si configura come concerto scenico, in cui il protagonista sarà il celeberrimo Hilliard Ensemble. Abbiamo chiesto a Goebbels di presentare questo evento.

Lei opta per una messa in scena non convenzionale, concentrandosi solo sulle voci dell’Hilliard Ensemble. Possiamo chiamarla scelta minimalista o anticonformista?

Lei ha ragione. Non si può mettere a confronto questa pièce con un’opera opulenta e sovraffollata. Molto spesso non vedo più niente quanto c’è troppo da ascoltare e non sento più niente quando c’è troppo da vedere. Così penso sia meglio parlare di una riduzione invece che di minimalismo. Ho separato un po’ i sensi: l’ascolto dal vedere, per esempio.

Qui assembla tre autori così diversi come Eliot, Blanchot, Beckett: crea un legame coerente tra loro? Quale chiave di lettura si è dato per trasformare tre storie diverse in un linguaggio teatrale coerente?

Se questa serata è veramente coerente è ancora da decidere. I testi sono effettivamente sia di epoche differenti (1911, 1948, 1983) che di stili molto diversi. Ma questi testi hanno a che fare con questioni sull’esistenza dell’individuo, e tutti quanti lottano contro le difficoltà del loro genere nel ventesimo secolo e infine mancano il grande successo artistico: Eliot con il suo interrotto "canto d’amore"; Blanchot con la sua strana "storia" e Beckett con la sua invenzione di una moderna, secolare "litania", con la quale concepisce una nuova sorta di linguaggio utopico, dove le parole quasi si dissolvono completamente nella musica.

Il messaggio del testo rappresentato è esplicito o lascia al pubblico la libertà d’interpretazioni?

Tutti i testi, tutte le immagini sono fatte per la nostra immaginazione. Questo di sicuro: non c’è certezza del loro significato. E loro mi aiutano a considerare il teatro come una forma d’arte, come una proposta di un’esperienza artistica, non come un semplice messaggio. Lei parla di fusione fra arte del suono e arte della parola.

Come è possibile fonderle insieme e trarre un linguaggio comprensibile al pubblico?

Solo se il pubblico accetta che non deve capire tutto. Come quando ci si approccia alla visual art, o si legge una bella poesia (e se non ascoltiamo quegli insegnanti, che vogliono inculcare le interpretazioni). Poi può essere un finito ma fruttuoso gioco di associazioni, e significati, e questioni per noi stessi.

L’arte contemporanea viene spesso criticata per essere indecifrabile.

Non lo so se riusciremo in questo sul palco, ma certamente ci sono dei meravigliosi e forti lavori artistici, che toccano moltissimo lo spettatore nonostante siano molto astratti, come un quadro di Rothko, un scultura d’acciaio di Richard Serra, un’installazione di luci di Olafur Eliasson o James Turrell.

Come è riuscito a coinvolgere l’Hilliard, famoso per le sue interpretazioni di musica medievale, rinascimentale e contemporanea, ma sempre come ensemble vocale, mentre le ne fa degli attori?

In effetti è stata una loro idea di chiedermi una collaborazione. E ho immediatamente accettato, perché amo il loro modo non drammatico di cantare.

Roberto Rinaldi

 

Il giornale della musica
12|
08

La casa di Goebbels

ANDREA RAVAGNAN

Ambizioso, non teme le sfide. Ed è questo che ci piace di Heiner Goebbels, compositore di cui nessuno mette più in dubbio una parte da protagonista nella scena musicale contemporanea. È pronto per la prima italiana (dopo il debutto a Edimburgo) il suo ultimo lavoro I Went to the House But Did Not Enter, in programma a Bolzano il 4 e 5 dicembre, grazie a una coproduzione guidata dal Théâtre Vidy-Lausanne con i teatri di Bolzano, appunto, Lussemburgo, Francoforte e Strasburgo. "Concerto scenico in tre quadri", così recita il sottotitolo di un lavoro che segue il ritmo tripartito di una triplice scelta letteraria, caduta su T. S. Eliot, Samuel Beckett e Maurice Blanchot. Sul palco, nel consueto ruolo di cantanti e in quello inedito di attori, David James, Roger Covey Crump, Steven Harrold, Gordon Jones, ovvero l'Hilliard Ensemble.

I Went to the House But Did Not Enter: il punto di vista dell'autore. Ci può dire qualcosa di ciò che vedremo sul palcoscenico?

"Vi posso dire che vedrete un salone, una casa, una stanza d'hotel, ma ciò non significa nulla. Così è meglio che non dica nulla. Quello che vedrete sarà un'esperienza importante tanto quanto quello che ascolterete, e nemmeno io saprei dire cosa possa essere più importante. Con il set designer Klaus Grünbert abbiamo tentato di creare 'immagini' che possano dare spazio alla nostra 'immaginazione', piuttosto che immagini che avessero un significato preciso e, conseguentemente, 'narrativo'".

E a proposito della presenza scenica dell'Hilliard Ensemble?

"Senza dubbio è la prima volta che i quattro cantanti dell'Hilliard Ensemble, che sono abituati a cantare musica medievale in chiesa da trent'anni, sono impegnati in una performance teatrale. E se la cavano davvero bene: una sorpresa per me e per loro stessi!".

Nella sua carriera ha sempre mixato differenti mezzi espressivi: prima di tutto la musica, ma anche il teatro, la letteratura, la poesia, anche la danza: come ha bilanciato questi elementi?

"Io mi auguro di essere riuscito a dare a tutte le istanze espressive un'eguale importanza. Una cosa che mi piace molto è quella di non dare al pubblico la certezza di ciò che accadrà, di disattendere le aspettative. Sarà un concerto? Una performance? Un'installazione? Una pièce teatrale? Ogni 'format' richiede un diverso approccio percettivo. È già una gran differenza, ad esempio, quella che passa tra l'ascolto musicale e quello di un testo verbale. I Went to the House But Did Not Enter ruota proprio attorno all'incertezza tra queste due categorie - testo letterario o musicale -, specialmente nella sezione tratta da Beckett. Sono profondamente convinto che in questi momenti di 'piacevole irritazione' il pubblico si disponga meglio nei confronti dell'esperienza artistica, perché in questi momenti cambiano decisamente le nostre convenzionali gerarchie percettive. Puoi trovarti a non sapere con precisione cosa fare: è più importante ascoltare la qualità musicale di un discorso invece che comprendere un testo, o le due cose si intrecciano? Come decidere? A cosa affidarsi, al contenuto o alla forma? La parola o l'intonazione con cui viene detta? Il compositore o il poeta? Il suono o l'immagine?".

Che rapporto c'è tra i testi letterari e l'uso che ne ha fatto sul palco?

"Quando ho composto quest'opera ho tentato di mantenere il piacere e la libertà dell'immaginazione che hai quando leggi. Spero di esserci riuscito anche con i testi di Gertrude Stein in Hashirigaki e con quelli di Elias Canetti in Eraritjaritjaka, che erano entrambi testi non drammatici, scritti per essere letti, non per essere rappresentati.

Quando 'vedi' testi recitati sul palco, che sono scritti per il teatro, li identifichi con l'attore o il cantante. Quando ascolti un testo non drammatico, questo prende comunque forma nella tua mente. Ed è per questo che mi piace".

Due degli autori che ha scelto per questo lavoro (Eliot e Beckett) sono strettamente legati all'idea di "crisi". Benché separati da molti anni, richiamano entrambi un sentimento comune relativo ai cambiamenti filosofici del Novecento, al pensiero post-nietzscheano, al mondo disorientato dopo la "morte di Dio" (ciò vale almeno per il primo Eliot, prima della conversione). Perché questa scelta?

"È vero: tutti e tre i testi, infatti, pur nelle loro differenze, affrontano il tema dell'indecisione e del fallimento. The Love Song of J. Alfred Prufrock non è proprio una canzone d'amore, la storia di Maurice Blanchot è piuttosto spiazzante e il testo di Beckett... cosa dovrebbe essere? Un testo in prosa, una preghiera, una litania? Li ho scelti perché riflettono tutto ciò nella loro forma estetica e sfidano le mie decisioni compositive".

In che modo questa scelta si rapporta al suo pensiero filosofico e religioso?

"Non mi considero religioso, ma quando senti cantare l'Hilliard Ensemble non puoi certo eliminare il contesto in cui questa cultura vocale si è sviluppata e nella quale molti di noi sono cresciuti (io ad esempio sono cresciuto in un ambiente fortemente cattolico). Ma nel mondo contemporaneo, quello che Guy Debord ha definito "società dello spettacolo", può essere d'aiuto e sollievo trovare nuove e laiche maniere di costruire alcune importanti forme di ritualità e di concentrazione meditativa, che abbiamo perduto. In questo senso questo lavoro è il più silenzioso e fragile che abbia mai composto".

I Went to the House But Did Not Enter: cosa ci può dire del titolo?

"È una citazione dalla storia di Mauriche Blanchot (ma è poi davvero una storia?). Già in questo solo verso si può intuire la strategia tesa a disattendere le aspettative del lettore e la sua stretta relazione con la scrittura di Kafka. Proprio Blanchot fu infatti tra i primi critici a sdoganare Kafka in Francia. Da qui si può vedere il gusto che provo a mia volta - come dicevo prima - nel disattendere le aspettative del pubblico e nel crearne di nuove allo stesso tempo".

Due scrittori inglesi e uno francese: che relazione c'è tra questi e un compositore tedesco? Crede che esistano radici comuni per la cultura europea? Ed è la cultura europea quella da cui attinge o guarda anche al di fuori del Vecchio Continente?

"Sono spesso attratto da quello che non conosco. È per questo che ho lavorato con musicisti greci, africani, iraniani, giapponesi, tuttavia senza nascondere la mia prospettiva europea e conseguentemente la mia distanza. Invece di insistere su un vago concetto di radici comuni - in fondo privo di senso e poco credibile - faremmo meglio a imparare a diffondere il rispetto e la tolleranza verso chi e cosa non conosciamo. Secondo Blanchot: "L'altro non è tuo fratello" ".

Usiamo un termine spesso abusato: 'postmodernismo'. Qual è secondo lei il suo significato estetico? Inserirebbe il proprio lavoro (così ricco di influenze e intrecci) in questa categoria? 'Compositore postmoderno' può essere sinonimo di 'compositore libero e aperto'?

"A dire il vero il termine potrebbe essere usato anche per un compositore per cui "nulla funziona", che lavora in modo arbitrario facendo a meno di importanti criteri di lavoro e di gusto. Io penso e spero di non appartenere a questa tipologia".

Il debutto italiano della sua opera sarà a Bolzano: (una città che guarda al contesto mitteleuropeo): cosa conosce della situazione musicale italiana? Secondo lei perché gli organizzatori italiani sono così spaventati dalla musica contemporanea? È un problema di tradizione culturale? È un problema politico?

"Non so dire se la situazione italiana sia diversa o più difficile di quella tedesca. Senza dubbio gli organizzatori spesso sottovalutano il pubblico e non hanno fiducia nei nuovi programmi. Ma, al di là delle questioni economiche, il problema riguarda anche la musica in sé. Nel senso che i compositori accademici spesso lavorano in uno splendido isolamento e non sono in connessione con la realtà in cui vivono. O, peggio ancora, tendono ad avere un atteggiamento 'didattico' nei confronti del pubblico. Questo atteggiamento di superiorità chiude lo spazio all'ascoltatore, e fa sì che una composizione non sia un invito ad una forte esperienza estetica".