la Nuova Venezia
21 ottobre 2008

"Nabucco", dolore universale

MIRKO SCHIPILLITI

VENEZIA. Nabucco segnò definitivamente la carriera di Verdi, non solo successi e continuo lavoro ma anche solidi guadagni e la collaborazione permanente con l’editore Ricordi. "Rincasai e con un gesto quasi violento, gettai il manoscritto sul tavolo, fermandomi ritto in piedi davanti. Il fascicolo cadendo sul tavolo stesso si era aperto; senza saper come, i miei occhi fissano la pagina che stava a me innanzi, e mi si affaccia questo verso: Va, pensiero, sull’ali dorate", secondo il racconto di Arthur Pougin in Vita aneddotica di Giuseppe Verdi. Nabucco non è solo l’opera degli scontri fra ruoli e dinamiche psicologiche ma un affresco corale in cui il popolo sublima nel canto. Il celeberrimo coro, simbolo di un’umanità sofferente oltre ogni classificazione politica o religiosa, ha risuonato nel nuovo allestimento di Nabucco per la stagione lirica alla Fenice con il contributo dell’Autorità Portuale di Venezia, in scena fino al 29 ottobre, triplo cast su cui troneggiano Ferruccio Furlanetto e Leo Nucci. Questa volta il coro (ben preparato da Claudio Marino Moretti) è disteso supino, la voce sale in verticale, il torace fermo, il canto diviene sommesso e in pianissimo, una magia vocale inattesa che dispiega l’incipit come effettivamente dovrebbe essere, un pianto nostalgico, fuori da ogni retorica, secondo il tempo insolitamente lento della direzione del bravissimo Renato Palumbo. Col cambio di dinamica le voci si alzano poco a poco e il canto giunge dritto alla platea.

Scene e costumi scelgono l’attualizzazione, con evidente parallelismo tra ebrei di Nabucco e deportati nei campi di sterminio nazisti. Tutti mostrano grandi foto di cari scomparsi, che depongono a terra, fianco a fianco, in silenzio alla fine di "Và pensiero", trasfigurato in un doloroso epicedio. Scelta molto coraggiosa, visto che i riferimenti all’olocausto sono sempre molto forti. Ricordare è doveroso, ma bisogna fare attenzione a non abusare delle ferite della storia, col rischio di strumentalizzare anche in buona fede immani tragedie ancora incomprensibili. Regia e scene di Günter Krämer sono ridotte all’osso, fondali vuoti, un tavolo e una sedia, in economia, fra movimenti essenziali e tinte scure, nere. Sui palchi fasci di luce in alfabeto ebraico ci immergono in un immaginario tempio sacro. Ne esce un Nabucco funebre, dove il popolo ebraico è simbolo di dolore universale. Grotteschi girotondi creano un effetto di straniamento.

Fra i migliori direttori per l’opera, Renato Palumbo ha dato prove molto convincenti nella scorsa stagione all’Arena di Verona, conciliando precisione e pulizia di lettura a idee e fantasia. Dirige a memoria, grande conoscenza della partitura e delle voci. In Nabucco plasma una dimensione fortemente drammatica, combinata a pulizia e grande cantabilità, portando le voci dentro l’orchestra e non il contrario. Furlanetto (Zaccaria) rimane un gigante: forza, delicatezza, teatro, vita, tutto si concentra nella chiarissima dizione ed espressione vocale. Leo Nucci canterà nella parte di Nabucco il 25 e il 28, solo una volta insieme a Furlanetto, mentre alla prima, Alberto Gazale sostiene lo sviluppo drammatico, tra abili sfumature. Paoleta Marrocu (Abigaille) offre una grande prova interpretativa, brillante agilità e forza scenica, con esiti migliori nel registro intermedio. Roberto De Biasio (Ismaele) partecipa con un limpido canto appassionato; Anna Smirnova (Fenena), con un buon corpo di voce, rimane distaccata dallo sviluppo drammatico.

Caldo successo.

 

IL GAZZETTINO
21 ottobre 2008

Al Teatro La Fenice va in scena l'opera di Verdi
Nabucco e il teatro di regia

Venezia. La Fenice punta giustamente sul teatro di regia, ancora troppo spesso negletto nelle nostre fondazioni liriche. Il Nabucco, importato da Vienna, per la regia di Gnter Krämer, uno dei protagonisti del teatro tedesco, è uno spettacolo forte, dotato di una prodigiosa tecnica luministica. Svaniscono i ricordi dell'ultimo Nabucco del 2004 al Palafenice, devoto alla paccottiglia assiro-babilonese, ancor'oggi diffusa fino al Metropolitan, a difesa della cosiddetta tradizione, mentre, come ovvio, anche il melodramma vive nell'attualità e in un continuo processo di aggiornamento.

Questo allestimento ricorre ad un apparato scenografico minimalista. Ma non è un teatro povero; il ricorso alle funzioni strutturali delle luci è formidabile e sembra riemergere la voce di Jean Vilar, il regista che anche in Verdi aveva creato un essenziale teatro popolare attraverso l'uso di fasci di luce molto coinvolgenti.

La proposta di Krämer è naturalmente più sofisticata, le tecnologie molto più complesse e di fatto sostituiscono l'antica eloquenza delle macchine teatrali. Un muro nello sfondo è il solitario elemento scenografico, ma continuamente modificato dalle proiezioni; i costumi sono moderni, con alcuni riferimenti agli Anni '40. La regia è molto drammatica, anche se si nota qualche dissonanza tra astrattismo e naturalismo, soprattutto nella gesticolazione forzata di Abigaille. Di eccezionale impatto teatrale la realizzazione registica del coro celeberrimo Va' pensiero (ma i tempi direttoriali erano troppo lenti), intonato dai cantanti distesi sul palcoscenico, raffigurante un lugubre, impressionante cimitero simbolico, cui segue un'esposizione forse commovente, ma troppo prolungata delle fotografie dei martiri della Shoah. In definitiva è forse la più intelligente lettura dell'opera dai tempi del pittorico Nabucco fiorentino di Ronconi e Pizzi.

Le esperienze sinfoniche degli ultimi anni hanno giovato a Renato Palumbo. La sua concertazione è più controllata, anche nei dettagli e certa aggressività appare attutita rispetto ad un tempo; il cantabile fa pensare opportunamente a Donizetti: d'altronde è da tenere presente che Verdi nel Nabucco, nonostante l'energia ritmica e la sintesi drammatica, è più un assimilatore che un creatore di linguaggi. Certo le sonorità risultano talvolta gremite in contrasto con la generale impostazione interpretativa del direttore; l'acustica della Fenice è troppo ridondante e attribuisce all'orchestra, nei momenti di densità dinamica, un eccessivo peso sonoro. Comunque Renato Palumbo ha dimostrato l'altra sera di essere calato nella realtà culturale del nostro melodramma.

La compagnia non è equilibrata. Il basso Ferruccio Furlanetto e il baritono Alberto Gazale sembrano usciti, quanto a peso vocale, da una opposta concezione. Il grande Furlanetto si impone con una penetrante scansione della parola desunta da Filippo II e persino dal Boris. Ma la figura di Zaccaria è quasi un calco rossiniano, e del Mosè in particolare, e richiederebbe emissioni più contenute. Invece Gazale, forse con maggiore attendibilità stilistica, presenta una bella vocalità di baritono lirico, che perfino attenua l'incisività della parola scenica verdiana. Paoletta Marrocu non è il soprano drammatico di agilità voluto da Verdi, ma una Abigaille lirica in difficoltà nelle colorature di forza, tipiche di un personaggio che predilige arroventate iperboli. Il giovane tenore Roberto De Biasi (Ismaele) è una delle sorprese della serata. Ha una vocalità spontanea, e non canta mai di spinta. Anna Smirnova è piacevolmente esuberante nel ruolo di Fenena secondo i precetti della scuola russa. Come si sa il Nabucco è un'opera prevalentemente corale, ed esige dalle masse una presenza autorevole: come è avvenuto l'altra sera nella compatta esecuzione del coro sotto la guida di Claudio Marino Moretti. Applausi molto cordiali soprattutto per il direttore e le due voci gravi; consensi blandi per il regista.

Mi chiedo: era proprio necessario riproporre un'opera tanto frequentata (da anni la si rappresenta anche all'Arena di Verona) piuttosto che un Verdi meno diffuso e più significativo come Ernani, Stiffelio o Un ballo in maschera?

Mario Messinis

 

la Repubblica
27 ottobre 2008

Il Verdi violento che cantò Nabucco

Che il Nabucco sia diventato un' icona della Lega non si capisce. "Va' pensiero" è il lamento degli Ebrei deportati in Babilonia, per la patria lontana. Ingiustificata dunque la delusione di lumbard e veneti per questo straordinario spettacolo ebraico immaginato da Gunter Kramer, fedelissimo alla lettera e allo spirito dell' opera verdiana. Il campo di concentramento alle porte di Babilonia, non è Auschwitz?

Il direttore Renato Palumbo dà forza alla cupa concezione del regista con una concertazione dura, violenta, un Verdi già lanciato nella sperimentazione di una nuova drammaturgia. Sulla scena il cast non sempre regge l'intensità e la forza dell'interpretazione scenica e musicale, salvo forse l'Ismaele di Roberto De Biasio. Bene invece l' Orchestra e il Coro del Teatro.

DINO VILLATICO

 

L'Opera
novembre 2008

Alla Fenice, il luminoso Nabucco di Krämer
di Roberto Mori

Gli allestimenti minimalisti non sono più una semplice moda. In tempi di crisi finanziaria, rappresentano una necessità. Anche per i titoli più spettacolari si cerca ormai di andare al risparmio e di escogitare soluzioni alternative. Un caso emblematico lo ha offerto la Fenice di Venezia, proponendo Nabucco - tipica opera da rappresentazione monumentale - su un palcoscenico praticamente vuoto. E nonostante lo spettacolo fosse realizzato con pochi mezzi da un team di tedeschi, noti stravolgitori di storie melodrammatiche, il risultato è stato a mio avviso eccellente.

Prendendo spunto da un allestimento ideato nel 2001 per la Staatsoper di Vienna, Günter Krämer ha messo a punto una regia acuta e di notevole impatto drammatico, risolvendo la scenografia con un gioco strepitoso di luci che, nei primi due atti, si estendeva a tutta la sala. I versi in aramaico della Torà scorrevano lungo i fregi dorati dei palchi, trasformando la Fenice in una specie di installazione luminosa, pronta a dissolversi quando in scena subentravano persecuzioni e massacri.

I costumi novecenteschi firmati da Falk Bauer chiarivano l’idea di Krämer di ricordare la tragedia dei pogrom, le sommosse popolari antisemite, ma senza riferimenti cronologici precisi o abusate simbologie naziste. Nel quadro del "Va’ pensiero" i coristi, inizialmente distesi a terra, reggevano la fotografia in bianco e nero di una persona scomparsa, evocando i martiri di tanti stermini e il dolore della perdita in modo asciutto e struggente. Un momento di vero, grande teatro, culminato alla fine del brano con la deposizione dei ritratti in proscenio.

Storicamente, Nabucco segna la caduta di ogni paludamento classicheggiante. È l’opera che, introducendo l’ottimismo di un happy end in contrapposizione ai tristi finali di Bellini e Donizetti, infiamma gli ideali e spinge alla lotta politica, proclamando l’autonomia di una genialità sovvertitrice che, per la prima volta, ha legami con il panorama storico e psicologico che le fa da sfondo. La rilettura di Krämer, per quando slegata da una chiave di lettura risorgimentale, ha messo a fuoco le passioni, i conflitti individuali e collettivi con coerenza e bruciante modernità, dando vita a uno spettacolo puntualmente sintonizzato con la musica e la drammaturgia.

Lo sconvolgimento operato da Verdi nella direzione di un melodramma più energico e trascinante è emerso pure sul piano orchestrale. La direzione di Renato Palumbo procedeva per grandi contrasti e puntava a una narrazione vigorosa e varia, oscillante tra qualche momento estenuante sul versante patetico e mistico (lentissimo ma suo modo suggestivo lo stracco del "Va’ pensiero") e sonorità a tratti forse ridondanti. Tuttavia, Nabucco non pretende le raffinatezze del Rosenkavalier e, a conti fatti, nel primo Verdi un po’ di ruvida esuberanza non disturba.

Discontinua la compagnia di canto. Alberto Gazale si è disimpegnato con stile attendibile e generica correttezza nei panni del protagonista. Per quanto armata di buone intenzioni, Paoletta Marrocu non è riuscita a dominare del tutto la tessitura e l’estensione abnormi di Abigaille: ha forzato gli estremi acuti ed esibito scarso mordente nel registro medio-grave, nonché disagio nelle agilità. Nonostante qualche tensione nei passi di tessitura alta, si è imposto su tutti Ferruccio Furlanetto, che ha conferito al ruolo di Zaccaria autorità scenica e voce come sempre ampia, timbrata, solenne. Ho trovato positiva la prova di Roberto De Biasio, stilisticamente ancora un po’ acerbo, ma nel complesso in grado di tratteggiare uno squillante Ismaele. Un po’ forzata nell’emissione la Fenena di Anna Smirnova. Completavano il cast Francesco Musinu (Gran sacerdote), Luca Casalin (Abballo) ed Elisabetta Martorana (Anna). Bene il coro diretto da Claudio Marino Moretti.

Il pubblico della prima, inizialmente freddo, alla fine ha applaudito Palumbo e i cantanti con calore, riservando tiepidi battimani al regista. Ha trionfato Furlanetto.

Venezia, Teatro La Fenice, 19 ottobre